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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 19 Numero 201 giugno 2004



Maratona di scultura

Giuliano Serafini



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Auguste Rodin L’ombra (1880), Filadelfia, Rodin Museum.

Alberto Giacometti, Il carro (1950), Zurigo, fondazione Alberto Giacometti, Kunsthaus.

Constantin Brancusi, Una musa (1912), New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

Maratona di scultura
Un 'filo' greco per il ritorno dei giochi olimpici nel loro paese d'origine con una grande kermesse espositiva dedicata alla scultura moderna: Rodin, Maillol, Bourdelle, Brancusi, Giacometti e Moore in due mostre alla Pinacoteca nazionale e alla nuova Gliptoteca di Atene. La parola greca 'aga'lmata', letteralmente 'statue', significava in antico 'cose belle'. E le cose belle erano destinate agli dei. Adombrandone l'effigie nel corpo dell'atleta e dell'eroe – traslati dell'identita' divina – lo scultore faceva l'offerta al dio di un dono eccellente, di un dono di bellezza. La chiave semantica ci dice dunque che in Grecia la scultura era il tramite per accedere alla divinita' e rappresentarla in un omaggio votivo di marmo. Che i grandi kouroi del VI secolo – da Anavysso's a Volomandra, da Aristodikos a Merenda fino a quelli dello Ptoon – fossero monumenti commemorativi di un giovane guerriero defunto e ci siano giunti anche come altrettante raffigurazioni di Apollo, spiega il patto di sacralita' stretto tra l'artista e il dio. Se la scultura 'nasce' greca, e' per questa imprescindibile assunzione dell'elemento umano in valenza sacra che ne ha fatto quella civilta'. 'L'umano mi corrispondeva, vi trovavo tutto, anche il divino', così Adriano-Yourcenar ci fa capire che il corpo – cioe' la rappresentazione naturalistica della figura umana – diventava il soggetto elettivo dello scultore, il modello assoluto di riferimento. Nel raffigurarlo, la scultura trovava la sua stessa ragione di essere. Su questo aggancio elementare e insieme fondante, le due mostre alla Pinacoteca nazionale e alla nuova Gliptoteca di Atene in occasione dei giochi olimpici che 'ritornano', vengono dedicate al grande archetipo così come e' stato elaborato dai massimi interpreti della scultura moderna. I magnifici sei della prima rassegna – Rodin, Bourdelle, Maillol, Brancusi, Giacometti e Moore – costituiscono non solo presenze che tra XIX e XX secolo hanno rivoluzionato la tradizione plastica europea, ma anche artisti quasi tutti legati da vincoli privati e professionali. Si comincia da Auguste Rodin (1840-1917), fenomeno tellurico che irrompe sulla scena della scultura francese ed europea in un momento dominato dall'accademismo romantico e dal revival neoclassicista. Rodin e' in questo senso il talento che ha liberato la forma a tutte le possibilita' della visione attraverso un modellato avvolgente e tempestoso, dove la luce viene assorbita e riflessa dallo splendore alabastrino del marmo per rivelare prodigi inesauribili di invenzioni plastiche. La scultura diventa così un percorso rotante da compiere alla ricognizione di tutti i suoi profili rivelati e segreti. All'ordine strutturale dell'opera, Rodin sostituisce la 'hybris', la furia dionisiaca, categoria greca quant'altre mai che trovava il suo transfert estetico e filosofico nel vitalismo nietzschiano. Tra impressionismo e simbolismo, tra potenza e languore, la sua visione plastica genera figure 'palpitanti e inquiete, traboccanti di patetico', per dirla con Gide(1), figure dove il non-finito si ammorbidisce in levigate consunzioni, in un sensuale ondeggiare della superficie che e' il percorso inconfondibile di Eros, della baudelairiana 'petite mort', l'estasi liberatoria della carne. Come in un esorcismo finale, Rodin chiude la grande stagione romantica dell'arte. La sua immaginazione trova significantissimo sfogo nell'uso continuo del marcottage, il reimpiego di modelli gia' eseguiti (La porta dell'Inferno, 1880-1917, dove ritroviamo L'ombra, Il bacio, il Pensatore, Fugit amor, L'uomo che cade, Sono bella?): segno di un'ansia sperimentale che ritorna ogni volta alla sua fertilissima matrice.
Il sentimento dallo stile
'Per me la scultura e' una questione di modellato, per Bourdelle di architettura. Io tiro fuori un sentimento da un muscolo. Lui dallo stile'(2), dira' Rodin a proposito del suo allievo più illustre. E mai definizione e' sembrata più pertinente per l'opera di Antoine Bourdelle (1861-1929), che, dopo un inizio decisamente rodiniano e pre-espressionista, segue una strada tracciata in ugual misura dal romanico del suo Midi e dalla statuaria greca arcaica. Attraverso il 'freno' dello stile, l'artista fa in questo modo giustizia del romanticismo espressivo ottocentesco, una scuola capace di produrre – e' una dichiarazione autografa – solo 'cadaveri'. La sua scultura risulta al contrario costruita per volumi squadrati rigorosamente, la cui sola contrapposizione e' in grado di inventare quella profondita' che Rodin raggiunge attraverso il modellato. Le masse sono rese secondo una scansione plastica che guarda alla struttura interiore di quello che Bourdelle considerava né più né meno che un 'oggetto'. Con la mente rivolta all'antico, lo scultore annuncia così la liberazione, per l'arte, dalla servitù della rappresentazione, nel momento in cui la natura non sara' più un modello da copiare, ma un esempio da imitare. Di qui l'immanenza tettonica di questa opera fatta di ritmi grandiosi, d'apollinea austerita', di qui anche la sua tensione trattenuta, quasi a suffragare le parole dell'artista stesso: 'e' bellissimo essere, ma quello che e' eccitante e' quando ci si sente divenire'(3). Da Centauro morente (1911) a Eracle arciere (1909), fino a Penelope (1912) e Saffo (1924) per le quali posa la moglie, la greca Cleopatra Sevastou, Bourdelle fa della sua incursione nel mito il pretesto per inseguire un denominatore simbolico universale, la' dove gli archetipi della nostra memoria collettiva si rispecchiano nelle energie naturali: una visione che resta inalterata anche quando l'artista sperimentera' un monumentalismo epico di sapore déco.
La materia del nudo
Rodin resta termine 'a quo' anche nel caso di Aristide Maillol (1901-1944). A parlarne e' ancora Gide, quando oppone Maillol a quegli scultori 'tormentati da un'idea di scultura come Beethoven lo puo' essere da un'idea musicale: scultori che si fanno un obbligo di esprimere la loro inquietudine'(4). Malgrado il catalogo tematico denso di allegorie e riferimenti mitologici che elabora in tutto l'arco della sua produzione (Pomona, Venere, Leda, Mediterraneo, Il fiume), in effetti Maillol non parte da un''idea' che dovra' essere tradotta in marmo, ma dalla materia stessa. In altre parole non vuole 'rappresentare' nulla se non la forma nascosta all'interno di quella materia. Come Rodin, Maillol ha praticato quasi esclusivamente il nudo: solo che per il primo la ricognizione analitica del corpo umano e' il mezzo per dar vita a una scultura 'd'espressione'; in Maillol la sintesi della figura propria della poetica 'nabi', la semplificazione del modellato dove la luce dilaga fino a far scomparire ogni dettaglio, il gesto privo di passione, tutto questo toglie al nudo ogni valore aneddotico, restituendolo a una sua ferma e impenetrabile autoreferenza. e' un universo muliebre che risponde al nostro sguardo con una gravita' elementare che lo colloca entro una dimensione metastorica. Nessun pensiero turba queste possenti divinita'. La sola coscienza di cui sembrano disporre e' quella della loro appartenenza terrestre. Maillol 'sconta' la propria modernita' su questa rivoluzionaria interpretazione dell'arte classica, quando ai suoi tempi quell'arte costituiva ancora un alibi con cui contrabbandare l'esercitazione accademica per bello ideale. Guardando al mondo antico, lo scultore ha in definitiva esercitato un'azione di bonifica su un linguaggio plastico che si era perduto in sterili virtuosismi.
La forma rivelata
Al di la' del sodalizio stretto con i protagonisti delle avanguardie storiche – da Picasso ad Apollinaire, da Léger a Jacob, da Modigliani a Ray – Constantin Brancusi (1876-1957) raccoglie a modo suo questo filo 'greco' portando la forma all'estremo denudamento, secondo quel processo di 'interiorizzazione' del principio plastico che permetteva al frammento della statua preclassica di contenere, come il seme sta alla pianta, la sua totalita' e interezza: una visione che non poteva essere certamente condivisa da Rodin, con cui nel 1906 lo scultore rumeno ebbe un conflittuale rapporto di lavoro. Attraverso questa azione riduttiva del referente oggettivo, la forma puo' avvicinarsi sempre di più alla materia da cui ha origine fino a coincidere e identificarsi in essa. In Brancusi l'opera e la natura sembrano scambiarsi i ruoli, così come l'azione dell'artista e quella degli elementi finiscono per confondere prerogative e facolta': l'acqua e il vento, con il trascorrere del tempo – non a caso definito 'grande scultore' dalla Yourcenar – possono aver plasmato e levigato al posto della mano dello scultore la Musa addormentata (1908-1918), capolavoro dove l'azzeramento fisionomico e il nitore della superficie sembrano memori delle figurine votive cicladiche del secondo millennio a. C. Con Inizio del mondo (1920) quel volto e' portato al suo assoluto elementare plastico diventando puro ovoide, simbolo di genesi primordiale. Le origini contadine dell'artista rumeno, insieme al suo profondo interesse per le arti primitive, hanno sicuramente lasciato il segno su questa visione che omologa ogni dato dell'esperienza creativa, sia che appartenga alla natura o all'arte. Indicando ad astrattismo, Metafisica e surrealismo importanti coordinate linguistiche, Brancusi porta così a totale compimento quel processo di soppressione del soggetto che era stato gia' avviato da Maillol.
Un arcaismo ideale
Anche per Alberto Giacometti (1901-1966) la militanza nel vivo dei movimenti d'avanguardia parigini – il surrealismo prima, accanto a Masson, Dalí e Breton, e poi il verbo esistenzialista di Sartre e Genet – non ha impedito la meditazione su un'idea plastica che e' antica quanto puo' esserlo la scultura. In termini strettamente stilistici, nel caso dello scultore svizzero si potrebbero evocare i bronzetti greci tardogeometrici e dedalici dell'VIII secolo a. C., per quella che Werner Fuchs chiama la 'forma del limite', considerando il risalto che vi viene dato al contorno della figura umana, che a sua volta appare articolata su un sistema strutturale di tipo additivo. Appassionato d'archeologia – passione che condivide con il suo maestro Bourdelle – e di arti primitive, Giacometti va in realta' alla ricerca di un arcaismo che non necessita di modelli storici di riferimento. Il suo viaggio 'a' rebours' incontro ai primordi dell'espressione plastica lo intraprende per incrociare le vie del moderno, secondo un percorso nel quale sa che gli estremi finiranno per toccarsi e ricongiungersi. e' attraverso tale peripezia che l'artista giunge a quella che a molti ha fatto gridare all'anti-scultura, quando per la prima volta nella sua storia tutte le componenti canoniche della disciplina – volume, massa, piano, profondita' – vengono messe in discussione e trasgredite. Quello che resta e' un'alternativa da offrire alla terza dimensione in arte: una sorta di 'scrittura' nello spazio fatta di filiformi e scarnificate 'ombre della sera', dall'impervia epidermide, quasi la risultante di sedimentazioni fossili e di antiche combustioni. Sono figure al contempo coriacee e fragili come reperti di antiche tombe che il contatto con l'aria potrebbe disintegrare da un momento all'altro. 'Apparizioni o sparizioni?', s'interroga Sartre, a conferma che nella sua elementarissima resa (L'uomo che cammina, Il carro, Piazza, opere eseguite tra il 1947 e il 1950) l'effigie umana ritrova in Giacometti quella rituale solennita' dell'esistenza avviata per la prima volta, e per sempre, incontro al proprio destino.
Figure permanenti
Se Giacometti 'scrive', Henry Moore (1898-1986) 'immerge' nello spazio la figura umana ancorandola al terreno e suggerendoci un'immagine di permanenza come poca altra scultura del XX secolo e' stata in grado di trasmettere. Fin dalle prove più antiche, la vocazione plastica dello scultore dello Yorkshire si muove dietro un progetto creativo binario: da una parte c'e' l'idea del grande spazio aperto – che tra l'altro costituisce la sua impronta 'genetica' –: spazio che non dovra' essere considerato più fondale dell'opera, bensì elemento che interagisce con essa attraverso l'irradiazione luminosa trascorrente senza soluzione di continuita' sull'opera stessa e sul paesaggio, quasi per un anticipo di Land Art. Dall'altra parte troviamo l'invenzione della figura stante o distesa, metafora della 'genitrix' primordiale (Madre e figlio, 1932). La sequenza di rimandi porta al tema della Grande Madre mediterranea, alla scaturigine di quella creazione che affiora, in accezione junghiana, dall'abisso di eta' preumane. Per Herbert Read, in Moore il corpo femminile diventa 'espressione del significato stesso della vita'(5), ma anche riscoperta di una 'classicita'' che sembra mutuare le sue forme da massive concrezioni inorganiche e dal loro poderoso aggetto plastico, dove il pieno convesso si esalta nel rapporto con il vuoto concavo spinto fino all'annullamento strutturale, fino al suo spalancarsi in buchi e voragini (Madre e figlio sdraiati con drappeggio, 1983). Sono quelle che Moore ha definito forme 'interne-esterne', quasi necessita' fenomeniche partorite dalla materia e per le quali ogni nucleo plastico in crescita puo' diventare immagine scultorea.