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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 20 Numero 211 maggio 2005



Attraverso il Novecento con filosofia

Marco Cianchi



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Robert Morris, Blind Time: Blind Opus (1992)

Robert Morris, Less Than (2004), Reggio Emilia, chiostri di San Domenico

Robert Morris, uníimmagine dal video The Birthday Boy (2003-2004)

Dopo la stagione infuocata dell’Action Painting, negli anni Cinquanta-Sessanta una generazione di artisti, fra cui Robert Morris, si avvicina al minimalismo. L’opera di Morris però, nella sua varietà di esiti, rimane non etichettabile ed è ancora oggi uno dei punti di riferimento del panorama contemporaneo.

Il secondo dopoguerra in America fu dominato dell’azione. De Kooning, Kline, soprattutto Pollock avevano ingaggiato un furioso corpo a corpo con la materia dando vita a un’arte fortemente soggettiva, di tipo espressionista, coinvolgente al punto di fondersi con l’esistenza dell’artista.
Per reazione gli artisti della generazione successiva (Jasper Johns, Jim Dine, Frank Stella) attuarono un progressivo distacco dall’opera e ne abbassarono la temperatura. Prendendo a esempio Marcel Duchamp riabilitarono infatti l’oggetto a scapito del soggetto e introdussero pratiche artistiche congelanti che furono propedeutiche alla stagione del minimalismo.
A questa generazione “raffreddata” appartiene Robert Morris (Kansas City, 1931) che, esaurita una breve fase espressionista, tra gli anni Cinquanta-Sessanta lasciò la pittura per la danza e altre attività performative di avanguardia portando quest’esperienza nel minimalismo di cui insieme a Donald Judd, Dan Flavin, Carl Andre, Sol Lewitt fu uno dei principali protagonisti.

- Teatralità minimalista

Le sue Soglie, i Portali, le Colonne, forme geometriche elementari in legno grezzo o compensato appositamente realizzate nei primi anni Sessanta come oggetti di scena, introducevano infatti nella severa regola dell’arte minimalista un elemento di teatralità e un sicuro riferimento al corpo umano: non più inteso come misura di un universo astratto, bensì punto d’incontro, ricettacolo e fonte della realtà fenomenica.
Cosicché quando tra il 1963 e il 1965 Morris espose alla Green Gallery di New York una serie di parallelepipedi elementari – uno sospeso dal pavimento (Slab, 1962), l’altro appeso al soffitto (Cloud, 1962), altri ancora di uguale forma ma disposti diversamente nello stesso spazio (L-Beams, 1965) – pose il problema della loro interazione con l’ambiente e con lo spettatore. I quali “modificano” l’opera d’arte trasformandola in un oggetto dialettico valido a interrogarsi sui rapporti esistenti tra le parole, le cose, il linguaggio e il mondo.
Fu questo un passaggio artistico-filosofico importante, lucidamente sostenuto dallo stesso Morris con una serie di scritti teorici, al quale fece seguito nel 1968 addirittura il “superamento” dell’oggetto minimalista (chiuso e geometrico) con la proposta dell’Anti-Form. Un tipo di scultura aperta, destrutturata, priva di riferimenti ideali, che non è il risultato di un progetto bensì di un “processo” calato nella fisicità dei materiali i quali ottengono la loro forma (casuale) dall’ambiente con cui interagiscono e dalle energie che si sprigionano dal loro interno.
Dove a una dichiarata preferenza per i materiali soffici (feltro, scarti di lavorazione tessile, terra, grasso) più liberi e disponibili alle sollecitazioni della forza di gravità che viene loro imposta dalla nuova operatività consistente nell’appendere, gettare, stratificare, spargere al suolo i materiali stessi, corrisponde un sostanziale mutamento del modo di relazionarsi al mondo: non più verticale, come nella tradizione umanistica, ma orizzontale e “paesaggistico”. Aggettivi che lasciano ben intendere le potenzialità di questa modalità artistica, compagna di strada di tante esperienze processuali e concettuali negli anni Sessanta-Settanta (tra cui l’Arte Povera italiana), dalla quale sarebbero scaturiti gli straordinari sconfinamenti socio-territoriali della Land Art.
Così raccontata, la vicenda di Robert Morris sembra avere una sua logica ineluttabile, quasi lineare e progressiva. Ma non c’è niente di più distante da Morris della coeranza e della continuità intese come perseguimento di un fine o di uno stile. Anzi il suo percorso è sempre stato caratterizzato da un andamento nomade, da un entrare e un uscire, da un lasciare e un riprendere, da cambiamenti bruschi e apparentemente incoerenti con la ricerca precedente, dall’uso sperimentale di tutti i media disponibili, dall’ibridazione di parole e cose. Alla continua ricerca delle relazioni esistenti tra la mente e il corpo, secondo un progetto allargato che per sua stessa definizione è stato «costante nel tempo, ma quotidianamente variato».

- Il filo rosso

Quindi conviene restringere il campo a quelle pratiche e a quegli elementi che ricorrendo durante l’intero percorso artistico di Morris ne costituiscono una sorta di filo rosso.
Innanzi tutto la grafica, praticata continuamente nelle forme e nelle tecniche più varie: dagli schizzi a matita all’uso dei pastelli; dal disegno a carboncino ai lavori a penna e inchiostro; dalle assonometrie di impianti labirintici e carcerari (poi trasformatisi in costruzioni tridimensionali come il famoso Labirinto della Fattoria di Celle, 1982) fino alla serie dei Blind Time Drawings: un corpus straordinario di circa trecentocinquanta disegni realizzati tra il 1973 e il 2001 a occhi bendati, usando le mani per stendere sulla carta grafite e inchiostri, coi quali l’artista ha inteso indagare i rapporti e gli scarti tra l’idea e la sua materializzazione, avvalendosi talvolta di aiuti esterni, come quello di una donna cieca dalla nascita, o ricorrendo a collaborazioni intellettuali, come quella del filosofo americano Donald Davidson.
Tra gli elementi ricorrenti nell’opera di Morris vi è poi lo specchio, già usato negli anni Sessanta per costruire i Mirrored Cubes (figure geometriche elementari, di tipo minimalista, messe in crisi dal continuo scambio interno-esterno sulla superficie riflettente) e quindi largamente ripreso negli anni Settanta per allestire complessi giochi di pareti specchianti che, poste l’una di fronte all’altra, danno vita a un infinito gioco di prospettive iperboliche il cui scopo è contrastare l’ordinario esercizio dello sguardo.
E non si deve ovviamente trascurare, tra le costanti di Morris, quella che più di ogni altra ne caratterizza l’opera: il ricorso alla lingua, sia scritta che parlata. Talvolta usata a scopo teorico per chiarire concetti o delineare poetiche; talaltra usata per corredare o completare operazioni artistiche; più spesso adoperata come sottile strumento per scardinare le facili certezze e stimolare le contraddizioni.
Vi sono però stati, nel percorso artistico di Morris, anche passaggi bruschi e inaspettati che ancora oggi, a guardarli con la distanza storica, colpiscono per la radicalità dello scarto rispetto al prima e al dopo della sua opera. È questo il caso delle enormi e lugubri cornici di tipo barocco realizzate da Morris con uno speciale materiale gessoso (Hydrocal) nel corso degli anni Ottanta, che presentate insieme a “infuocati” dipinti espressionisti di quello stesso periodo si ponevano come meditazioni apocalittiche sul rischio nucleare e sulla lenta estinzione del pianeta a causa dei danni ambientali.

- Teatralità minimalista

Insomma, l’opera di Morris, per quanto ridotta in queste poche righe ai suoi passaggi fondamentali, dimostra ancora una volta di essere imprendibile. Troppe sono le svolte, le curve, i ritorni e le accelerazioni, le improvvise aperture e i depistamenti, per permettere a chiunque di sigillare con un’etichetta o una formula l’impressionante produzione di questo artista che è anche uno dei massimi teorici dell’arte nel Novecento.
Partito dal minimalismo, al quale di solito viene associato, lo ha ben presto superato e ha successivamente partecipato a tutti i principali movimenti d’avanguardia degli ultimi quarant’anni, rimanendo comunque indipendente. Ha sperimentato e utilizzato tutte le possibili forme d’arte: dalla danza alla performance, dalle registrazioni video a quelle audio, dalla scultura alle installazioni, dalla pittura alla grafica, fino alla realizzazione di grande opere ambientali in Europa e in America.
Non è un artista “virtuoso”: infatti i suoi lavori non catturano lo spettatore per sfoggio di abilità tecnica. È piuttosto un artista “filosofo” che pone i suoi oggetti e la sua persona nel mondo per investigare l’identità dell’opera d’arte nei suoi rapporti con la visione, la lingua, la fisicità.
Amato o rifiutato, idolatrato o incompreso, Robert Morris rimane una delle figure fondamentali nel panorama della cultura contemporanea che ha contribuito a trasformare come pochi altri, rimodellando non solo il significato dell’opera d’arte ma anche il ruolo dell’artista e dello spettatore.