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Segno Anno 30 Numero 207 marzo-aprile 2006



Wim Delvoye

Maurizio Sciaccaluga

Non credo anche se vedo



Attualità internazionali d'arte contemporanea


3-43 ANTEPRIMA MOSTRE&MUSEI
Anteprima - news/worldart - news italy
Appuntamenti e attività nei grandi musei, istituzioni, gallerie private, spazi alternativi in Italia e all'estero
a cura di Lucia Spadano

44-49 ARTISTA IN COPERTINA
Wim Delvoye
Non credo anche se vedo

di Maurizio Sciaccaluga
courtesy Galleria Corsoveneziaotto, Milano

50-93 TEMATICHE ESPOSITIVE / RECENSIONI
Group Show / Antologie / Personali / Interviste
Riccardo Gusmaroli, Lutz / Guggisberg, Ofri Cnaan, Marina Paris, Marina Abramovic, Moreno Gentili, Marco Grassi, Francesco De Grandi, Susy Gomez, Tom Porta, Gianni Asdrubali, Marco Porta, Riccardo Previdi, Letizia Cariello, Marina Fulgeri, Manuela Sedmach, David Ter-Oganyan, Vedovamazzei, Dieci Artisti, Della Fotografia Italiana, Francesco Clemente e Iran do Espirito Santo, Tony Oursler, Jean-Michel Alberola, Jannis Kounellis, Franco Fontana, Felice Levini, Andrea Aquilanti, Vincenzo Rusciano Sarah Dobai, Mimmo Jodice, Francesco Guerrieri, Davies E Langlois, Botto & Bruno, George Lilanga, Luca Francesconi, Anselm Kiefer, Villa Jelmini, Palazzo Forti, Gianni Colombo, Grazia Varisco, Wolfgang Engelbrecht, Plinio Martelli, Progetto B&B, Davide Bramante, Isabella Gherardi, Miltos Manetas, Patti Chiari, Poesia Lunga, L'arte e le sue estensioni, Corporarte

A cura di Mariacristina Ferraioli, Veronica Liotti, Cecilia Antolini, Maria Marinelli, Karin Gavassa, Stefania Meazza, Laura Vecere, Matteo Galbiati, Francesca Ganzenua, Ilaria Piccioni, Lorena Tadorni, Sandro Barbagallo, Paola Ugolini, Lino Sinibaldi, Eugenio Viola, Marcella Anglani, Gianni Caverni, Alessandro Trabucco, Giorgio Cortenova, Marilena Di Tursi. Fiere d'Arte Arte Fiera Bologna, Arco Madrid, Riparte Napoli, Artour-o Firenze, The Armory Show New York

94-97 OSSERVATORIO CRITICO
Natechrealism
Tra tecnologia fusi orari e miniaturizzazioni di Gabriele Perretta

98 LETTERE A SEGNO
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Wim Delvoye, Fabienne 2003
Pelle di maiale tatuata cm.140x100
(courtesy Corsoveneziaotto, Milano)

Wim Delvoye, Katharina&Christopher 2003
Installazione di 2 maiali
(courtesy Corsoveneziaotto, Milano)

Wim Delvoye, Maeble floor, 1999
1 su 1 cibachrome su allumumio. cm 115x100
(courtesy Corsoveneziaotto, Milano)

Nonostante sia oggi assodato e incontestabile che gli ultimi quindici anni artistici siano stati pesantemente segnati dall’arte della provocazione – e che proprio questa sfida continua allo status quo sia finalmente riuscita a spazzare il campo dagli oramai fragili concettualismi partoriti negli anni Sessanta e abbia proiettato la ricerca nel pieno delle logiche sociali e politiche dell’attualità – manca ancora a livello nazionale e internazionale una presa di coscienza critica di tale evento, latitano tuttora la teorizzazione e la catalogazione del fenomeno.
Da una parte, probabilmente, perché si tratta di un movimento intellettuale e operativo in fieri, in pieno fermento, e dunque atteso da notevoli altri sviluppi che potrebbero cambiarne storia e connotati, dall’altra poiché ognuna delle personalità artistiche coinvolte in detta situazione – sempre indipendenti e slegate una dall’altra – presenta caratteri sfuggenti e difficili da bloccare, da mettere con le spalle al muro.
Arduo insomma, se non proprio impossibile, tracciare una mappa e un albero genealogico di una serie di cani sciolti, temerario pretendere di ritrarre chi ama cambiare spesso maschera e costume.
Wim Delvoye è uno di questi uomini in fuga. In fuga perenne dall’ordinario, dallo scontato, dall’ovvio, certo, ma anche da uno stile riconoscibile, da caratteristiche codificanti, dall’idea di un marchio di fabbrica.
Se Maurizio Cattelan, secondo l’illuminata lettura data al suo lavoro da Jan Avgikos, è l’uomo che non ha idee e scappa ogni volta si trovi costretto a svilupparne una – e così infine opera e riflette sulla scomparsa dell’arte dalla scena dello spettacolo, o sullo spettacolo della mancanza – Delvoye è il bugiardo per eccellenza, il menzognero strafottente e irridente, Pinocchio. Lui è l’uomo che opera e riflette sull’instabilità degli sguardi e delle sensazioni, sulla caducità delle sicurezze e delle prese di posizione, sulla stupidità di ogni convinzione radicata e incontrovertibile.
La sua professione? Dire falsa testimonianza, con lui nemmeno San Tommaso sarebbe potuto andare sul sicuro perché vedere non basta per credere a quanto dice, sostiene, afferma. L’immaginazione infantile al potere spiega di sicuro la capacità di trasformare la logica, l’aspetto e l’utilità degli oggetti – è così un’asse da stiro diventa scudo o insegna medioevale, una vanga pare un’alabarda da torneo, una sega circolare e una bombola del gas si truccano da ceramiche di Delft – ma lo spostamento di senso che fonda ogni operazione dell’artista è tutt’altro che innocente. C’è, anzi, una sorta di simpatica cattiveria, una presa in giro caustica e maligna che lascia intuire come di fanciullesco sia rimasto davvero pochissimo.
Delvoye è un ribelle, cosciente e consapevole, che rifiuta le regole e mente per scardinarle. Non si veste né si comporta da ribelle perché non ne ha bisogno, perché i suoi lavori testimoniano per lui – e quanto! – e per le sue intenzioni sovversive, ma tra i suoi obiettivi da bombarolo della parola e dell’intenzione c’è proprio tutto: la famiglia, il mondo del lavoro, la malattia, lo sport, la cultura, le simbologie sociali, la storia e le tendenze più attuali dell’arte. Montagne come quelle di Rushmore in cui gli americani hanno scolpito i volti dei loro presidenti diventano né più né meno come lo sportello d’un frigorifero sul quale una moglie premurosa attacca il foglietto con l’avviso che il pollo è nel forno, betoniere e gru da cantiere, dunque caratterizzate da sempre dalla sporcizia, dalla fatica, dal rumore, dalla pesantezza, si travestono d’improvviso – tipo brutto anatroccolo e cigno – da mobili di gusto indonesiano ricchi di preziosi intagli in legno di tek o da gioco d’infanzia tipo Meccano.
Con Delvoye, in pratica, il banco sballa sempre, pesca costantemente una carta troppo alta che lo caccia fuori dal gioco. Il bluff non paga, mai. Non c’è rispetto per la famiglia – i piccoli segreti, le tenerezze, i ciccinamia, i micionemio e i pciùpciùpciù da camera caritatis sbattuti nientemeno che sulla parete di una montagna – come non c’è per le istituzioni, non c’è comprensione per la fatica altrui – i simboli del lavoro rivisti e corretti alla luce del concetto di bellezza assolutamente inutile — come manca per il gusto degli altri.
Riguardo poi la storia dell’arte, sintomatico è il rapporto col video: quello di Delvoye – classico contemporaneo, ripresa macro, montaggio scattante e veloce, grado zero di sceneggiatura – riprende e riproduce una serie di brufoli che esplodono lasciando fuoriuscire il puss, emanando un florilegio marcescente che mentre inganna, col suo disgustoso divertissement, l’idea di malattia prende pure per i fondelli il rigore formale dei film di tanti colleghi, impegnati seriosamente a cercare quel minimalismo assoluto dell’immagine trovato con facilità, ma anche sbertucciato, dall’artista belga.
Anche la sua ossessione escatologica – dai baci/buchi del culo impressi col rossetto sulle lettere alle ceramiche per pavimento con stronzo stampato, fino addirittura alla monumentale Cloaca, manzoniana merda d’artista a produzione però industriale – scava attorno al concetto di bugia, mette insieme e a fianco, confondendoli, il buono e il cattivo, il bello e il brutto. Cacca è il sinonimo usato dagli infanti per definire ogni cosa spiacevole, da fuggire ed evitare, e Delvoye trasforma allora il concetto, appunto, di cacca in una serie d’icone della perfezione, in un ciclo di produzioni artistiche, artigianali, industriali e sentimentali che rimandano a null’altro che all’amore per la bellezza e il gusto assoluto e dissacrante.
Piero Manzoni, sicuro, ma con in più un pizzico – o molto più di un pizzico, dato che se si dovesse trovare un’analogia con altre creazioni artistiche si potrebbe forse pensare solo al Pier Paolo Pasolini del Girone della merda di Salò o le 120 giornate di Sodoma, e questo la dice lunga sulla violenza sottintesa da ogni gesto o idea di Delvoye – di disprezzo.
Come quasi tutte le altre, le serie dedicate ai maiali, dai tatoo ai Marble floor, nascono dall’incontro tra una forma funzionale, vera, naturale e un’idea in completa opposizione. Derivano dalla fusione di due livelli diversi, quello ovvio e quello spiazzante, e rivelano così la loro essenziale paradossalità. Tecniche “alte” vengono applicate a oggetti “popolari”, e in ciò si può leggere anche la volontà dell’artista di ironizzare sulla perdita di significato dell’arte, visto che nel medesimo oggetto è sempre possibile reperire una pluralità di valori capaci di arricchirne la realtà e sminuirne l’importanza. L’oggetto noto viene mascherato: come in un Carnevale, esso perde il proprio ruolo e la propria collocazione nell’universo ordinario per apparire poi rinnovato, rigenerato. In tal modo acquista la possibilità di una nuova esistenza. In fondo, sul piano linguistico, l’artista sembra rispecchiare la situazione del suo paese d’origine, il Belgio: un accostamento — e scontro — tra idiomi espressivi.
Allo stesso modo che le porte da calcio, che con preziosi mosaici di vetro colorato al posto delle reti stabiliscono un contatto inatteso tra sacralità e popolarità, spiritualità e fisicità, tutte le opere dedicate ai suini e ai loro “derivati” mettono in contatto due poli opposti della stessa energia che, mischiandosi, non possono che provocare un cortocircuito.
Da una parte il maiale come prodotto di consumo, animale spogliato d’ogni carattere e anima per essere considerato solo ed esclusivamente mercificazione di un corpo – e pertanto privo assolutamente d’individualità, oramai “categoria” di prodotto e nulla di più –, dall’altra il tatoo, il segno marchiato indelebilmente sulla pelle, l’ulteriore caratterizzazione individualista di un fisico come diverso e originale rispetto a tutti gli altri.
Il maiale è consumo il tatuaggio è conservazione, il maiale è carne da macello il tatuaggio è pelle da esposizione, la pelle del maiale è attesa da una breve vita nel fango la pelle tatuata s’aspetta una lunga (si spera) sopravvivenza a mo’ di tela vivente.
Da una parte la morte necessaria per dare senso al prodotto (il maiale), dall’altra la vita per far sì che l’opera continui ad esistere (la pelle tatuata). Non c’è logica che tenga, i conti non tornano, così non può funzionare. Però funziona, ed è questo il mistero e il fascino di tutta la ricerca di Delvoye.
È come la storia del calabrone, troppo tozzo, grosso e pesante per poter volare con le sue microscopiche alette ma perfettamente in grado di farlo visto che nessuno lo ha avvertito dell’impossibilità: i suini dell’autore belga devono essere macellati, diventare prosciutti e lonza, ma poiché nessuno glielo ha detto vanno invece in giro marchiati come Harleisti da motoraduno. Secondo le sue stesse dichiarazioni, Delvoye li ha sottratti alla macellazione per farli tatuare con le immagini più amate dai teen-ager, dai teschi ai cuori, dai serpenti alle donnine seminude da marinai. Una tranquilla e longeva vita da fattoria prima, una morte naturale dopo (e in Belgio negli ultimi anni c’è stato solo l’imbarazzo della scelta, tra afta, morbo della mucca pazza e crisi della diossina), infine gli animali, imbalsamati o scuoiati, sono diventati opere d’arte. Si sono trasformati in una riflessione caustica e sprezzante sul significato dei simboli nella società contemporanea, in un ragionamento cinico sulla forza comunicativa, sempre a rischio d’essere travisata, degli stemmi, dei loghi, delle icone d’oggi.
E così, tra le mura di musei e gallerie, ci sono adesso la pelle di suino che ripropone i marchi di fabbrica di una delle più importanti case di moda internazionali e quella che ricorda, sinistramente, il look tipico del motociclista cattivo e attaccabrighe di mezza età. Il tutto esposto accanto a splendidi pavimenti di marmo dai riflessi, rosa, rossi e porpora, disegnati e realizzati accostando una all’altra – con una capacità geometrica degna dei più grandi astrattisti storici – fette di salame, prosciutto, mortadella e spalla. Quando si dice che del maiale non si butta via niente…