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Espoarte Anno 8 Numero 47 giugno-luglio 2007



Jan Fabre

Viviana Siviero

Intervista



Contemporary Art magazine


[GIOVANI]
38 Dacia Manto
44 Enrico Morsiani
48 Simone Bergantini
52 Barbara De Ponti
56 Eleonora Rossi
60 Andrea Guerzoni
64 Gianni Moretti

[PROTAGONISTI]
70 Jan Fabre
78 Urs Lüthi
84 Berlinde De Bruyckere
90 Nicola e Claire Savoretti

[SPECIAL GUEST]
96 Luca Trevisani
100 Elena Nemkova
104 Sukran Moral

[RUBRICHE]
110 No man's Land
114 Rapture

[Dossier Luoghi Spazi]
116 MAMbo

121 Editoria

[Progetti&Dintorni]
122 Gillian Wearing
124 Allarmi
126 Bill Viola
127 Ambient Tour
128 Hovercraft
129 Herbert Hamak
130 Acrobazie#3
131 Jeu de l'hombre

[Profili]
132 Roberto Floreani

[EVENTI]
138 Tobias Rehberger
140 Hiroshi Sugimoto
142 Elisa Sighicelli
144 Chiara Dynys
146 Timer 01
148 Aldo Mondino
150 Il Settimo Splendore
152 In pubblico. Azioni e idee degli anni '70 in Italia

[Recensioni]
154 Emergenze
156 Street Art
157 Douglas Gordon
158 Marcel. Lì Antuanez Roca

[IN GALLERIA]
162 Lawrence Carroll
163 Dennis Oppenheim
164 Namaste
165 Roberto Conz
166 Bianco-Valente
167 Arnold Mario Dall'O
168 Antonio Cella
169 Sarah Ledda
170 Erik van Lieshout
172 Nicola Samorì
173 Walter Trecchi
174 Gilberto Zorio
175 Marco Gastini
176 Pablo Vargas Lugo
177 Buell
178 David Krippendorff
179 Thomas Struth
180 Vittorio Corsini
182 Francesco Lauretta
183 Eloisa Gobbo

[New Entry]
184 Arte Boccanera
185 Marena Rooms

[New Opening]
186 Studio la Città
187 Cardelli&Fontana
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The man writing on water, 2006
63 x 78 x 170 cm (7x)siliconed bronze
Trough : Galerie Guy Pieters©Angelos
Photo: Pat Verbruggen

Le Probleme, 2001
60 x 68 x 103 cm matras, jewelbeetle, swanehead
©Angelos

I let myself drain, 2006
Steel, polyester, human hair, glass, textile, pump, filmblood and clothing
location: first floor (space 1 on floorplan Fabre)©Angelos
Photo: Pat Verbruggen

Jan Fabre è uno dei più importanti e straordinari artisti contemporanei belgi ed europei. Molto amato in Italia, sarà presente a Venezia con un’interessante personale, inserita fra gli eventi collaterali della Biennale, organizzata dalla GAMeC di Bergamo e dal suo illuminato direttore, Giacinto di Pietrantonio, che ne firma la curatela.
Scenografo, coreografo, artista visivo, autore teatrale video-artista ed editore, ma soprattutto consilience artist – come ama definirsi – Fabre esplora il mondo attraverso le più disparate tecniche e crede disperatamente nella supremazia dell’immaginazione. Nipote del famoso entomologo, Jean Henry, utilizza gli insetti come allegoria del corpo e dell’esistenza.

Viviana Siviero: Nel 2003 la GAMeC di Bergamo celebrò i 25 anni della sua attività, con un’antologica - Gaude Succurrere Vitae. Film e disegni 1977-2001 - a cura di Giacinto di Pietrantonio, Jan Hoet, Thierry Raspail e Rosa-Maria Malet. Che cosa ha segnato l’inizio della sua carriera e com’è diventato uno dei principali artisti contemporanei belgi?
Jan Fabre: Sono nato ad Anversa nel ’58, ove ho studiato alla Royal Academy of Fine Art e al Municipal Institute of Decorative Arts and Crafts. La mia infanzia è stata straordinaria e sono stati i miei genitori ad educarmi all’arte: mio padre portandomi alla Casa di Rubens come allo zoo, incitandomi a disegnare e facendomi ascoltare jazz; mia madre iniziandomi alla letteratura francese, da Baudelaire a Rimbaud, e alla canzone d’autore di Édith Piaf, Brassens e Brel. Da mio padre, quindi, ho ereditato la cultura dell’immagine e da mia madre quella del linguaggio, in tutte le sue forme più alte. La nostra casa è sempre stata teatro di animate discussioni politiche e artistiche ed io, giovanissimo, ho trovato il mio primo spazio in un laboratorio auto-costruito nel giardino dei miei genitori (De Neus/Neuslaboratorium, 1978). Lì ho iniziato a disegnare giorno e notte e a fare i primi esperimenti sul mio corpo e sugli animali che collezionavo, mettendo ad esempio le ali di una betulla su di un ragno.
Tra il ‘77 e il ‘78 ho inaugurato la mia prima mostra e realizzato alcune azioni ad Anversa e Amsterdam; in seguito sono stato invitato da alcuni docenti di filosofia americani a farne altre e non mi sono più fermato. Dalle performance al teatro il passo è stato breve e anche se quest’ultimo, ovviamente, ha regole e codici molto diversi, il desiderio di moltiplicare il mio corpo e indagarne ogni stadio è stato più forte di ogni ostacolo. Per questo mi considero un consilience-artist, un artista che esplora i legami tra scienza e arti visive, scrittura, performance e teatro. In passato, questo tipo di contaminazione non era accettata mentre oggi un’intera generazione di artisti e curatori persegue proprio la concordanza, la continua sperimentazione. Nei secoli, il mio paese ha dato i natali ad artisti eccezionali, dai Primitivi Fiamminghi a Thierry De Cordier, Luc Tuymans, Kris Martin, Berlinde De Bruyckere, David Claerbout e Wim Delvoye, solo per ricordarne alcuni.

L’allestimento dell’antologica fu curato da lei in persona: quali furono le motivazioni di questa scelta?
La scenografia di Gaude Succurrere Vitae era concepita come un labirinto caleidoscopico, che mi ha, sono stato obbligato a dividere l'intero corpus di 225 disegni, creando due nuovi percorsi, in Italia - GAMeC di Bergamo - e in Spagna - Fondazione Mirò di Barcellona - poiché le esposizioni si svolgevano in contemporanea.
Alla GAMeC ho realizzato da solo la “drammaturgia” della mostra, che era al tempo stesso mentale e fisica, suggerendo un rite de passage, che trovava il suo contrappunto nel percorso espositivo, volto a definire la memoria fisica del corpo. Per realizzarlo sono stato sempre presente durante l’allestimento, per curarne ogni dettaglio: dalla collocazione dei disegni alle dinamiche delle proiezioni e delle luci. Ogni disegno e ciascun film erano presentati in spazi autonomi, per amplificarne il carattere formale e favorire la massima concentrazione.

Da giugno a settembre la GAMeC le rende nuovamente omaggio, trasferendosi di fatto a Venezia con una grande personale allestita a Palazzo Benzon, dal titolo Anthropology of a Planet…
Il fulcro della mostra è il cervello umano, che ho indagato e celebrato nei Brain Drawings (2007), nelle sculture più recenti e nel nuovo film, presentato in anteprima a Venezia, Is the brain the most sexy part of the body? (2007), un confronto con lo scienziato americano Edward O’Wilson. Credo che il XXI secolo sia l’epoca della scoperta delle profondità del reale e quindi l’era del cervello, che noi abbiamo soltanto iniziato ad indagare e conquistare.
È il cervello la vera terra incognita, il pianeta di cui ancora ignoriamo l’antropologia. Le mie opere su questo tema sono un invito a cercarne una maggiore comprensione attraverso una prospettiva vicina; spero possano essere uno stimolo per ridefinire la nostra condizione umana e credere nel potere del pensiero. Sogno una nuova era, basata sull’immaginazione e non sul potere politico ed economico. È questo il fil rouge che unisce le mie nuove sculture esposte a Palazzo Benzon: il cervello come metafora e punto di partenza, in primis per svelare il mio universo immaginifico. Per questo nella mostra ho creato una relazione tra ogni spazio espositivo, ponendo anche in dialogo i miei lavori con gli affreschi e le opere permanenti della collezione: ad esempio, in una sala con la lotta di Atena ho collocato un mio bronzo, Sanguis/Mantis Landscape (Battlefield, 2004) mentre in un’altra ho sviluppato l’idea dell’essenza delle cose, pensando ai nostri liquidi corporei, inducendo un confronto tra alcuni elementi: Tear Sculptures (Ivana, Annabelle, 2006) – tributo alle antiche guerriere e alla bellezza della terra - Tear Drawings (2000-2006) – mia personale idea di lacrime e un autoritratto (I let myself drain, 2006) in cui io compaio sanguinante con il mio naso contro un’opera di un antico maestro. Qui mi sono confrontato con la storia dell’arte attraverso il mio stesso sangue, per concretare una lezione di umiltà e l’idea di orgoglio. The man writing on water (2006) è, invece, un’opera realizzata con sette vasche da bagno in bronzo: nella seconda il sottoscritto è intento a scrivere nell’acqua con un dito. Altre opere presenti nell’esposizione sono una riflessione sui simboli culturali e sulle antiche iconografie, come Messengers of death decapitated (2006) ove sette gufi impagliati dagli occhi umani suggeriscono uno stadio di vita post mortem o Het Reclamerei Van De Dode Straakatten (2007) in cui i gatti impagliati, seduti o sdraiati (metafora della donna, del non asservimento e della saggezza) sembrano venire alla luce, grazie alla loro capacità di resistenza e all’ausilio del latte che li attende, nutrimento materiale e spirituale.

Nella sua carriera, tre edizioni della Biennale di Venezia (1984, 1990, 2003), due della Biennale di Istanbul (1992-2001) e di Documenta a Kassel (1982-1992)…?
Ognuno di questi eventi è stato straordinario ma, devo confessarlo, l’edizione del ’92 di Kassel è stata un’esperienza per me molto speciale, non solo perché era curata dall’amico Jan Hoet (direttore del Museo d’Arte Contemporanea di Ghent, oggi Smak) ma anche poiché mi diede l’oppurtunità di presentare la mia sculturaLuister/Listen (1992) insieme alla seconda parte della trilogia The Minds of Helena Troubleyb, Silent Screams Difficult Dreams (1992). Proprio nel Teatro di Kassel, ho presentato il film in anteprima mondiale ad un pubblico internazionale di “addetti ai lavori” espandendo quindi lo spettro delle mie ricerche nello stimolante milieu culturale della kermesse. Luister /Listen (1992) in particolare, è formato dalla mia testa in cera sormontata da due corni in vetro blu, ad evocare la testa di un diavolo che ascolta la propria mente e l’universo e da 21 mani sparse in serie di 7, in tre sale espositive: ciascuna impugna un vetro blu, invitando il visitatore ad ascoltare il mondo esterno.

Il suo legame con l’Italia sembra rinnovare quell’età dell’oro che legò i fiamminghi alla nostra nazione all’epoca delle grandi corti…
L'Italia ama il mio lavoro, specialmente in seno al teatro, perché credo vi si rintracci la tradizione rinascimentale dell’uomo-universale…O, almeno questo è quanto ho letto sul mio lavoro. Gli italiani possiedono un innato senso della bellezza e quindi percepiscono come topos naturale, ad esempio, la mia idea di guerriero della bellezza. Dalla mostra Over the Edges (SMAK, Ghent, 2000) ho coltivato un fitto scambio d’idee con Giacinto di Pietrantonio, scrittore eccellente e fine intellettuale…Amo lavorare in Italia perché voi, come noi fiamminghi, avete un talento per l’improvvisazione e una sensibilità spiccata per il dettaglio, luogo ove per definizione si celano gli opposti.

Cosa rappresenta per lei la parola arte e come valuta la situazione contemporanea, specialmente il mercato dell’arte?
Mi considero un artista provinciale poiché vivo e lavoro ad Anversa e sono deciso a continuare a farlo in futuro. Qui ho le mie radici e sono ancora molto ispirato dal suo complesso background culturale. E l’arte è la mia risposta al mondo, l’unico luogo in cui vivo: a livello sociale sono “morto” da vent’anni, poiché ispiro ed espiro arte ogni singolo attimo della mia vita. Sono un servo della bellezza. La scultura Dependes (1979-2002) che è esposta a Venezia, tratta efficacemente questo tema; mia madre mi ha insegnato che le parole sono un mezzo di scambio migliore dei soldi quindi non sono mai stato molto interessato alle dinamiche di mercato.

Pensando al suo lavoro, non può non venire alla mente immediatamente il coinvolgimento di insetti, soprattutto coleotteri. Questo viene collegato alla sua parentela con il famoso entomologo Jean-Henry. Su richiesta della Regina del Belgio, ha realizzato l’opera Heaven of Delight decorando il soffitto della sala dei ricevimenti del Palazzo Reale di Bruxelles…
Sono stato il primo artista dopo Rodin ad essere invitato a creare un lavoro permanente nel Palazzo Reale. Ho incontrato la Regina Paola del Belgio nel ’97 a Palazzo Grassi, durante una collettiva sull'arte fiamminga e danese. Il mio lavoro Heaven of delight (2002) è una scultura per il soffitto della Sala degli Specchi, composta da 1.400.000 scudi di scarabei.
Il loro colore è così naturalmente complesso da mutare continuamente, in rapporto alla luce della sala: la scultura è un disegno senza requie, che cambia incessantemente, un dipinto di luce. I modelli del mio lavoro, hanno preso corpo dal mio universo visuale, costellato di gufi, globi, angeli, insetti, arcobaleni, ali, mentre il titolo è ovviamente un omaggio al Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch…

Al centro dei suoi lavori sono alcune tematiche fondamentali che coinvolgono la vita e morte, la rinascita, la precarietà e il mutamento, con una particolare attenzione nella creazione di connessioni fra campo scientifico ed umanistico. La sua opera si concentra su una sperimentazione continua, che spesso coinvolge la materia, da sempre cara ai fiamminghi: disegni fatti con il sangue o addirittura con lo sperma…
I fiamminghi, i primi ad inventare la pittura ad olio nella società occidentale, sono i miei maestri. Capaci di costruire un universo pittorico inedito e specifico, possono essere anche considerati i primi body artist occidentali, basti riflettere alle opere sulla passione di Cristo o sui supplizi dei martiri. Sono in debito con questi grandi maestri perché l’intuizione principale della mia ricerca gravita proprio intorno al corpo umano. Le loro opere mi inducono a riflettere sull’immaginazione, lo spazio, le deformazioni anatomiche, l’ideologia politica attualizzandole nel nostro tempo.

Disegni, Videoinstallazioni, Performance, Danza: impossibile tentare di inserire questi lavori in uno schema di categoria…
Non sono un artista eclettico ma un consilience-artist. Consilience significa «un salto al di sopra della conoscenza, tessendo gli accadimenti e i fatti basati sulla teoria attraverso diverse discipline, per creare un comune spazio d’indagine». È una teoria sulla complementarietà della conoscenza, sviluppata da Edward O' Wilson, entomologo e filosofo, nel suo capolavoro Unity of knowledge.
Il mio lavoro si è sempre sviluppato in relazione allo studio degli insetti, alla riflessione sul loro comportamento, uso dello spazio, conquista di un territorio e strategia bellica in rapporto a quello degli uomini e, nello specifico, applico questa conoscenza ai miei danzatori. Attraverso l’osservazione degli insetti e al loro utilizzo nelle mie opere, ho sviluppato una consapevolezza che apre nuove prospettive alle mie coreografie: è dalle mie sculture che ho imparato a comprendere i miei scritti ma non mi considero un artista ibrido o multimediale poiché impiego, semplicemente, il media che sento adatto all’idea che intendo indagare, che sia disegno, scultura, installazione, film, testo o teatro. Per questo la mia ricerca non è legata meramente alle mode o al concettuale ma posso accettare l’epiteto di mistico contemporaneo, che spesso è utilizzato per descrivere il mio lavoro.

Nonostante l’estate sia alle porte, può darci qualche anticipazione sui futuri appuntamenti che la riguardano?
Da due anni mi preparo per una grande esposizione, con opere più o meno recenti, al Louvre di Parigi, insieme al responsabile per l’arte contemporanea, Marie-Laure Bernadac (26 marzo 2008). Stiamo lavorando sull'intero percorso delle sezioni delle Ecoles du Nord dove si potranno incontrare “per caso” capolavori dei maestri fiamminghi e danesi, quali Van Eyck, Hugo Van der Goes, Rogier Van der Weyden, Hans Memlinc, Bosch, Rubens, Van Dijck, Hals, Rembrandt, Vermeer… Con le mie opere nelle sale del museo, evoco gli spazi e al tempo stesso li saturo di nuovi contenuti: nella sala dedicata a Rembrandt, ad esempio, ho creato una stanza di carni con Meat Pieces instaurando una sinergia tra antico e contemporaneo che induce il visitatore a cercare nuove letture e interpretazioni delle opere permanenti e delle mie. Oltre al progetto al Louvre, sto lavorando ad una nuova opera per il Festival di Salisburgo di fine agosto.


Jan Fabre è nato ad Anversa, nel 1958, dove vive e lavora.

Evento in corso:
Anthropology of a Placet, a cura di Giacinto di Pietrantornio
Palazzo Benzon (Canal Grande)
S. Marco 3927 – Calle Benzon, Venezia
Info: 035 399528
www.gamec.it
Fino al 23 settembre 2007