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Mousse Anno 2 Numero 11 novembre-dicembre 2007



Mike Nelson

Alessio Ascari

Intervista





INTERVIEWS / PAG. 8
MIKE NELSON
HARIS EPAMINONDA
NOBUKO TSUCHIYA

FOCUS / PAG. 22
TEHCHING HSIEH

URS FISCHER / PAG. 28
INTERVIEW BY MAURIZIO CATTELAN

CITY FOCUS / PAG. 32
WARSAW

ALTERNATIVE TOPOGRAPHIES / PAG. 37
KRASINSKI AND STAZEWSKI’S STUDIO

PIOTR UKLANSKI / PAG. 40
PORTRAIT OF AN ARTIST AS A BAD BOY

INTERVIEW / PAG. 43
FLORIAN SLOTAWA

ANTHONY MCCALL / PAG. 46
SPACE OF PERCEPTION

CAROL BOVE / PAG. 49
METAPHYSICAL VINTAGE

SLATER BRADLEY / PAG. 52
POP MELANCHOLY

RICHARD PRINCE / PAG. 59
UNITED STATES OF MIND

DAID ALTMEJD / PAG. 62
UNKNOWN PLEASURE

PORTFOLIO / PAG. 66
LARRY CLARK

GILBERT & GEORGE / PAG. 68
OH SHIT!

LARA FAVARETTO / PAG. 72
WHY ARE YOU HERE?

INTRODUCING / PAG. 74
FRANCESCO GENNARI

SKELETONS IN THE CLOSET / PAG. 77
ALESSANDRO PESSOLI

LOST IN THE SUPERMARKET / PAG. 81
NEWS AND BOOKS

CORRESPONDENCES / PAG. 97
BERLIN STUDIO VISITS
PARIS-MILANO
LONDON - MILANO
NEW YORK - MILANO
LOS ANGELES - MILANO
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Per Mike Nelson (1967) scultura significa installazione, e installazione significa ambienti a grandezza naturale - corridoi, scale, spazi vuoti o stipati che lo spettatore è chiamato a esplorare. Non è l’unico che lavora in questo modo, certo. Ma il suo approccio è originale: né claustrofobico e dark come Gregor Schneider, né interessato principalmente all’architettura come Monika Sosnowska e Hans Schabus, Nelson ha sviluppato uno stile psicologico e narrativo, in cui un labirinto di spazi si incarica di costruire un giallo di cui non avremo mai la chiave. Reduce dal progetto realizzato a New York per Creative Time – un intero edificio nel Lower East Side trasformato in opera -, si appresta a concorrere per la seconda volta al Turner Prize. Che sia quella buona? Auguri.

Cominciamo delle tue origini. Dove sei nato? Dove sei cresciuto? E in che modo il luogo da cui provieni ha lasciato il segno sul tuo lavoro?

Sono nato a Loughborough, una città commerciale nelle East Midlands. Ma non credo che la cosa abbia influenzato granché il mio lavoro. Anche se il fatto di essere stato tirato su in un ambiente rurale, in un’area pesantemente industrializzata e con un’alta concentrazione di immigrati di prima e seconda generazione provenienti soprattutto dal subcontinente indiano, può sembrare una cosa non senza importanza.

Quando e come hai iniziato? Hai frequentato una scuola d’arte? Com’erano le tue prime cose? Ricordi le prime mostre?

Ho frequentato l’Università di Reading prima e il Chelsea College of Art poi. Tra i due ci sono stati due anni in cui ho lavorato come costruttore. Reading era molto sperimentale e specializzata in installazione. Chelsea aveva un approccio più orientato verso la scultura. È stato qui che ho realizzato il primo lavoro che è stato esposto: si intitolava Cast Concrete Wall in Context, e consisteva nella documentazione fotografica di un muro in cemento costruito fuori da una casa a South London, il cui motivo ornamentale dominante era una svastica. Questo lavoro si aggiungeva a una serie cominciata all’epoca della mia prima laurea, incentrata sugli errori di interpretazione legati ai simboli culturali.

Parlami della tua installazione per Creative Time. Partiamo dal titolo, A Psychic Vacuum. Come è nato?

A Psychic Vacuum deve il suo titolo a due punti di riferimento collegati tra loro: prima di tutto a un vecchio lavoro, The Coral Reef, al quale si riallaccia in modo diretto, e poi al libro di Stanislav Lem sul quale è basata la struttura narrativa della mostra, e che ha lo stesso titolo,A Psychic Vacuum appunto. Si tratta di una serie di recensioni di libri inesistenti, il cui primo capitolo è una recensione del libro stesso. The Coral Reef era un lavoro che indagava diverse ‘forme di credo’, dai fondamentalismi alla dipendenza da droghe, all’estremismo politico. Il titolo faceva riferimento al complesso e delicato insieme di strutture che esistono al di sotto della superficie marina (una metafora per l’ideologia dominante, il capitalismo, che tiene nascosta la ‘barriera corallina’). Per New York l’idea era quella di rivisitare questo lavoro, che era stato fatto prima dell’11 settembre e prima delle bombe a Madrid e Londra.

Quello per Creative Time appare innanzitutto come un lavoro sull’America. Nell’installazione c’è una bandiera a stelle e strisce insanguinata, una foto di JFK dietro un vetro rotto, una mappa del paese strappata a metà... E poi addirittura ‘mostri nazionali’, come il serial killer Zodiac. È una sorta di discesa agli inferi. E quello che si delinea non è il sogno, ma l’incubo americano. Qual è la tua idea degli Stati Uniti?

In realtà ho un grande amore per l’America, e credo nell’ottimismo con cui è stato immaginato lo Stato moderno, anche se adesso quello spirito sembra incredibilmente lontano e per certi versi perduto. Prima di visitare l’America per la prima volta, cosa che ho fatto intorno ai vent’anni, pensavo che fosse come il pianeta del film Doppelganger, un B movie scritto da Gerry Anderson che avevo visto da bambino, in cui un pianeta alieno, collocato nella posizione diametralmente opposta alla Terra, si rivelava una sua esatta replica con l’unica differenza che tutto era rovesciato, come in uno specchio. Questo minuscolo cambiamento enfatizzava enormemente la differenza tra i due mondi, molto più di quanto non facessero le tradizionali rappresentazioni della vita extraterrestre. Quando poi sono riuscito a visitarla, l’America, devo dire che non sono rimasto deluso.
Per quanto riguarda il dettaglio della bandiera americana, che viene usata come coperta per un cane in una stanza piena di ossa mezze masticate, può sembrare che con quell’immagine io abbia calcato la mano. Ma sono convinto che la circolazione della bandiera a stelle e strisce di questi tempi sia investita di una carica oscura, nonostante la maggior parte degli Americani, che stanno al di fuori delle principali metropoli, ne siano piuttosto inconsapevoli.

Di fronte (anzi, meglio: dentro) a molti dei tuoi lavori si ha la sensazione di poter osservare da sopravvissuto i resti di una società lontana, dissolta, decaduta. L’impressione è quella di assistere al più spaventoso dei futuri possibili: la fine dell’umanità. In che modo ti immagini il futuro?

Il film La Vita e la Morte del Colonnello Blimp di Powell e Pressburger ha attestato il passaggio della guerra nel ventesimo secolo da qualcosa di strutturato in modo simile allo sport a qualcosa che si realizzava in forme di genocidio come l’Olocausto. Ora ci troviamo in uno stato di guerra perenne, avviato dalla Guerra Fredda che è stata una specie di prova generale del presente. E la situazione promette di peggiorare nel futuro.

C’è qualcosa di profondamente teatrale nel tuo lavoro. Perché se è vero che manca l’azione, c’è però un set, una scenografia. In una tua installazione ci si può sentire come il pubblico di uno spettacolo, uno spettacolo immersivo piuttosto che frontale. Cosa puoi dirmi a proposito?

Le mie prime sculture, fatte all’inizio degli anni Novanta, erano concepite come materiali di scena di film inesistenti. I lavori immersivi che sono seguiti sono nati come set per questi materiali di scena, e all’interno di essi lo spettatore, con il suo contributo sia fisico che mentale, finiva per essere l’ingrediente decisivo; dava una scossa al lavoro e apriva la strada a una miriade di potenziali interpretazioni, sia da un punto di vista visivo che esperienziale.

Il tuo lavoro si inscrive in quella tradizione inaugurata da Ilya Kabakov con la sua “installazione totale”. Che connessioni ritieni ci siano tra il suo lavoro e il tuo? Quali pensi siano eventuali punti di contatto o di distacco?

Naturalmente Kabakov mi ha influenzato molto, soprattutto i suoi lavori dalla fine degli anni Ottanta ai primi Novanta. Però i suoi lavori si basavano su narrazioni molto lineari, spesso esasperate da testi attraverso i quali lo spettatore doveva leggere il lavoro e avanzare attraverso di esso. Ho sempre usato l’esempio dello scritto di H.P. Lovecraft sul sovrannaturale in letteratura per illustrare la differenza fondamentale con il mio lavoro: è un testo in cui l’autore descrive le sue narrazioni non come traiettorie lineari, ma piuttosto come un insieme di suggestioni. Un parallelo cinematografico potrebbe essere l’opposizione tra i registi Andrei Tarkovsky e Sergej Parazanov; anzi penso che questo confronto sia fondamentale per capire il mio lavoro.

L’idea stessa di installazione ‘immersiva’ si fonda sulla portata narrativa degli oggetti, sugli effetti provocati dal loro accostamento e dal loro posizionamento nello spazio. Mi chiedevo, quindi, quanto sono importanti per te, quanta energia e quanta accuratezza dedichi alla fase di raccolta e selezione. E poi, più banalmente, dove li vai a trovare, quali sono le tue fonti.

Tendo a collezionare tutto. Pezzi di legno di recupero, porte, lampadari. Rintraccio, raccolgo e trasporto tutto da solo. Trovo questo processo molto importante.
I luoghi in cui trovo queste cose variano da città a città, ma in genere sono sempre posti ai margini del mainstream, sia da un punto di vista economico che geografico.

I tuoi lavori sono pieni zeppi di fantasmi, non credi? Ogni oggetto, ogni elemento presente nelle tue installazioni si porta dietro un odore, una vita, una storia. È come se - in un certo senso - stessi cercando di riesumare morti...

La maggior parte dei miei lavori cercano di rivelare il senso di una certa situazione, di un certo momento e di un certo luogo, e spesso è come se fossero ambientati nel passato. Potrebbero quasi essere descritti come opere di fantascienza del passato. Altri lavori, invece, tentano in modo più evidente di riesumare qualcuno o qualcosa: gli Amnesiacs per esempio, la gang di motociclisti immaginaria che ho usato per il lavoro presentato al Turner Prize.

Parlami del lavoro che questo ottobre hai realizzato per il Tur-ner Prize. C’è un’inversione di marcia rispetto ai lavori passati, o sbaglio? Perché l’installazione si può osservare solo attraverso un foro in una parete. Non c’è immersione, e quindi in un certo senso viene a mancare una delle caratteristiche più marcate del tuo lavoro...

Amnesiac Shrine or the Misplacement (A Futurological Fable): Mirrored Cubes - Inverted - With The Reflection of Their Inner Psyche as Represented by a Metaphorical Landscape. Questo è il titolo intero del mio lavoro per la mostra del Turner Prize, che continua una serie di lavori realizzati negli ultimi due anni i cui titoli hanno in comune il prefisso Amnesiac Shrine. Stavo cercando di applicare ai miei lavori una struttura narrativa capace di emulare quella usata dagli scrittori sovietici di fantascienza per dribblare la censura. La saga era quindi basata sul romanzo Solaris di Stanislav Lem, una magnifica meditazione sulla perdita e sul senso delle cose.
Inoltre, ero interessato da tempo all’idea di reliquiario, ed è un’immagine che ho usato spesso nei miei lavori (per esempio in The Deliverance And The Patience del 2001). Ho sentito che era arrivato il momento di fare un lavoro interamente basato su questo. Il punto di partenza sono stati i reliquiari voodoo, con la loro commistione di iconografia cattolica e africana.

Parlami infine di The Pumpkin Palace, il lavoro che hai esposto all’ultima edizione di ArtBasel. Per quanto mi riguarda, è stato uno dei lavori più coinvolgenti, più potenti dell’intero Grand Tour di quest’estate. Come è nata l’idea? E cosa puoi dirmi dei vari ambienti che lo compongono?

Inizialmente The Pumpkin Palace è nato in collaborazione con Ralph Rugoff al CCCA Wattis Institute di San Francisco. L’edificio si trovava nella vecchia stazione degli autobus della compagnia Greyhound, e le strade intorno erano pieni di autobus abitati, compresi un paio di autobus-chiesa. Mi è sembrato quindi che usare uno di quegli autobus avrebbe collocato il lavoro in una dimensione quasi architettonica.
All’epoca le truppe americane avevano cominciato a bombardare l’Afghanistan, e a me è tornata in mente una questione che mi aveva sempre affascinato. Essendo cresciuto negli anni Ottanta in una piccola città nel mezzo dell’Inghilterra, sapevo quanto massiccio e diffuso fosse l’uso di eroina in quel periodo. Un motivo che spiegava la sua diffusa disponibilità era appunto la sua esportazione illegale da parte di ricchi scià durante la rivoluzione iraniana nel 1979.
Ecco, l’idea che un evento di respiro globale potesse influenzare un individuo che si trovava in una piccola città ed era culturalmente e geograficamente estraneo a quello stesso evento, mi portò a formulare delle connessioni con gli eventi del tempo: con il bombardamento dei Talebani, le infrastrutture che avevano controllato e limitato la crescita del papavero officinale sono state distrutte, permettendo ai coltivatori diretti e ai signori della droga di aumentare a dismisura le colture, riversando il prodotto sul mercato americano e su quello europeo.
L’autobus utilizzato per The Pumpkin Palace è stato smontato, riverniciato come un ospedale mobile della Mezzaluna Rossa Internazionale, e trasformato al suo interno in un covo di fumatori d’oppio. Il titolo fa riferimento a una porta che ho trovato, che proveniva da una base militare ad Hunters Point. Era una vecchia porta con sopra dipinta l’immagine di una zucca di Halloween. Questo costante interessamento per l’orrore, che io considero alla base della narratività anglo-americana, è ciò a cui ho sempre fatto allusione riguardo alla nostra relazione con il mondo islamico: i Musulmani hanno preso il posto che era dei comunisti durante il maccartismo, e delle streghe prima di loro, e sono diventati l’uomo nero o il nemico ignoto, come se venissero fuori dalle pagine di Poe, Lovecraft o Stephen King.