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Mousse Anno 3 Numero 13 marzo-aprile 2008



Tom Burr

Francesco Vezzoli

Intervista





INDEX

INTERVIEWS / PAG. 9
SIMON STARLING
DAVID NOONAN
SPARTACUS CHETWYND

FOCUS / PAG. 26
PAUL THEK

TOM BURR / PAG. 32
INTERVIEW

CITY FOCUS / PAG. 37
GLASGOW

NATHALIE DJURBERG / PAG. 42
THE PORNOGRAPHY OF PAIN

TRIS VONNA-MICHELL / PAG. 46
INTERVIEW

PORTFOLIO / PAG. 49
SARA VANDERBEEK

LIAM GILLICK / PAG. 53
A QUESTION OF QUESTIONS

SPECIAL GUEST / PAG. 59
MARTIN SKAUEN

JEAN PROUVÉ / PAG. 64
THE UTOPIAN ENGINEER

ÂNGELA FERREIRA / PAG. 68
TROPICAL FETISHISM

MONIKA SOSNOWSKA / PAG. 70
THE SUBTRACTIVE PROCESS

ROMAN SIGNER / PAG. 75
AN EMOTIONAL PHYSICIAN

ANDREI TARKOVSKY / PAG. 78
AMARCORD

SKELETONS IN THE CLOSET / PAG. 81
FLAVIO FAVELLI

INTRODUCING / PAG. 84
IAN TWEEDY

LOST IN THE SUPERMARKET / PAG. 87
NEWS & BOOKS

CORRISPONDENZE / PAG. 102
BERLIN STUDIO VISITS
PARIS-MILANO
LONDRA - MILANO
NEW YORK - MILANO
LOS ANGELES - MILANO
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La pratica di Tom Burr, artista americano del 1963, rappresenta una delle più interessanti riflessioni in circolazione sulla natura del mezzo scultoreo. I suoi lavori - installazioni insieme minimali e scomposte, severe e tuttavia scosse da una fitta umana troppo umana - si alimentano delle biografie di uomini eccezionali come Jim Morrison, Truman Capote, Frank O’Hara e Chick Austin, approcciandole in modo insieme analitico e feticista. In occasione della mostra intitolata “Addict-Love” appena conclusa presso lo Sculpture Center di New York e della personale alla Galerie Almine Rech di Parigi (fino al 19 aprile), abbiamo interpellato un ammiratore d’eccezione, Francesco Vezzoli, chiedendogli di intervistarlo per noi. E ne venuta fuori la cover-story del numero.

Vorrei iniziare citando un testo che hai scritto per Artforum. Non penso ci sia niente di male a citare altre riviste, giusto? È solo product placement! C’era un passaggio che faceva più o meno così: «Il mio lavoro indica il modo in cui è possibile appropriarsi della propria storia attraverso l’appropriazione vicaria di altri linguaggi, stili e identità ».
Sì, sembro proprio io.

Già, e mi piace questa frase. In passato ho letto parecchio sul tuo lavoro, e ho visto molte tue cose, e sono sempre stato colpito dalla scelta dei personaggi che hai usato come riferimenti per le tue opere. Dico questo perché naturalmente anch’io sono un ammiratore di Truman Capote, Frank O’Hara, Chick Austin, e via dicendo. A questo proposito, vorrei iniziare parlando proprio da Chick Austin, una figura che per molti lettori risulterà pressoché sconosciuta. Se non sbaglio, è una delle figure chiave della tua ultima mostra. Vorrei chiederti perché hai scelto proprio lui.
Esatto, Francesco. Vedi, ho fatto questa mostra allo Sculpture Center di New York subito dopo una mostra a Vienna, alla Secession. Mentre ero lì, mi sono ritrovato a pensare molto ad alcune grandi personalità europee, da Kurt Weill a Helmut Lang. Quando poi sono stato invitato allo Sculpture Center, qualche mese fa, mi sono interessato a come il modernismo europeo è stato accolto e filtrato in America agli inizi del Novecento. E, in questo senso, Chick Austin è stato una figura davvero carismatica: diresse questo museo, il Wadsworth Athenaeum di Hartford, in Connecticut, dal 1928 fino ai primi anni Quaranta. Introdusse al pubblico americano molte figure del modernismo europeo, cosa che definirei davvrero sperimentale se fatta ad Hartford, una città decisamente conservatrice. Fu una mossa radicale portare laggiù quei nomi, creando un legame con quello che stava succedendo a New York. E oltre a questo, Austin era una persona dotata di un incredibile carisma e di uno stile unico: direttore di museo, attore... Insomma proprio il genere di personalità multipla da cui tanto sono affascinato.

Herbert Muschamp ha scritto una bellissima recensione sulla biografia di Chick Austin, Chick Austin And The Transformation Of The Arts In America. Conosci questo libro?
Devo confessare di non averlo mai letto per intero, ma visto che conoscevo bene Herbert, ricordo questo suo intervento scritto per Artforum, e in particolare un passaggio in cui ragiona proprio sugli aspetti che hai appena descritto, sul fatto che, in effetti, Austin abbia operato come una sorta di ponte culturale. Dice persino che le cose sono state un po’ troppo facili per lui: «Non doveva fare altro che prendere e andare a farsi un giro a Parigi, dare un’occhiata alle gallerie, e mettere insieme un paio di mostre al tavolo di un ristorante, mangiando quel cibo squisito. (Come era semplice, allora, sconvolgere gli americani con le novità). Poi mi sono reso conto di quanto sia stato un vero pioniere a utilizzare l’arte contemporanea, nel bene o nel male, come mezzo di scambio». Ecco, mi interessava molto questo aspetto perché, come hai detto, esistono due facce di questo personaggio: da un lato mi affascina la sua personalità... Come definirla...
Era molto mondano, molto socievole.

Sì, esatto, molto mondano, molto socievole. Al tempo stesso, però, le sue qualità sociali sembrano oscurare il fatto che stava davvero agendo da ponte, che aveva un ruolo culturale importante. Sei d’accordo?
Assolutamente sì, e penso che i cocktail, le cene e i concerti di musica contemporanea che organizzava fossero importanti quanto le mostre, perché contribuivano a elettrizzare la folla e a dare forma a una vera e propria ‘scena’. Pensa che nel 1929 si fece costruire una fantastica villa che Phil Johnson ha definito «la prima casa post-moderna in America». Questo in un momento in cui si faticava ancora ad abituarsi al moderno. La casa era tutta in legno, e il primo piano era arredato interamente in stile barocco. Il piano di sopra invece era Bauhaus, con pezzi di Marcel Breuer e un pavimento in gomma bianca. Potremmo dire che la sua sensibilità si collocava all’incrocio tra barocco e moderno.

O addirittura, potremmo dire: barocco più moderno uguale Surrealismo.
Sì, direi proprio di sì.

Se penso a lui e guardo al mondo dell’arte odierno, mi accorgo che forse, con il suo atteggiamento mondano, ha anticipato la crescita d’importanza delle pubbliche relazioni nel nostro settore.
Probabilmente hai ragione. Sembrava non appartenere al suo tempo, al suo contesto.

Già, ma per fortuna ci sono persone come te che ne ricordano l’importanza. È interessante che qualcuno, all’interno del dibattito odierno sull’arte contemporanea, decida di concentrarsi su questo genere di personaggi. Mi riferisco anche a Capote, che condivide con Austin il fatto di essere stato in qualche modo un disadattato, un outsider, malgrado tutte le connessioni sociali...
Senza dubbio ci sono delle somiglianze: erano entrambi troppo avanti. Quanto a Capote, ho iniziato a rifletterci qualche anno fa (prima che uscisse il film, giuro!). Ho cominciato a pensare all’immagine che mi sono fatto di lui da piccolo, attraverso la televisione. Lo vedevo ai talk show, ubriaco, depresso. All’epoca aveva pubblicato Preghiere Esaudite, un romanzo basato sui segreti di tutta la gente che conosceva nella società newyorchese. Dopo quello sgarro, tutti gli voltarono le spalle e lui entrò in una spirale autodistruttiva.
Mi affascina molto questo genere di personaggi dai risvolti un po’ tragici: perché sì, il mio lavoro ha a che fare con il formato della biografia, ma anche con la storia, con il periodo nel quale questi personaggi hanno operato. Quello che voglio dire è che il lavoro di cui abbiamo parlato ha certamente a che fare con Chick Austin, ma è anche, più in generale, una via per giungere alla comprensione di un’epoca che, come hai detto giustamente, ha molto in comune con quella attuale.

Non avevo preparato questa domanda, ma quello che hai appena detto mi fa pensare a una cosa. Devi sapere che al momento sto elaborando un lavoro su Dalì, e qualche tempo fa ne parlavo con una curatrice spagnola per la quale nutro il massimo rispetto. Parlavamo di questo mio interesse per Dalì: le ho spiegato che mi piaceva, in modo forse un po’ ingenuo, la copertura mediatica del personaggio. Perché anche Dalì andava sempre in Tv, e forse possiamo dire che il tipo di ricordo che tu hai di Capote io ce l’ho di Dalì. Il punto è che questa curatrice, essendo spagnola, aveva un ricordo molto più complesso di quella storia, perché per lei si portava dietro numerose implicazioni con la situazione politica, il regime, e via dicendo. Ecco, la cosa più interessante è vedere persone di grande sensibilità e creatività scendere a compromessi una volta giunti a uno stadio avanzato della loro carriera e della loro vita. È questo che mi interessa di ciò che hai appena detto: il fatto che per te il momento più affascinante nella storia dei personaggi di cui ti sei occupato è proprio quello della caduta. O sbaglio?
No, non sbagli. E questo vale anche per i miei riferimenti alla figura di Kurt Weill. Sai, all’inizio tutto quel giro condivideva una certa idea di teatro, tutti si sono confrontati con forme d’arte popolari. Anche Weill, aveva iniziato con Brecht a Berlino, in un contesto in cui l’innesto della cultura popolare nello spettacolo era davvero radicale. Ma poi ovviamente, dopo la Seconda guerra mondiale, tutto cambiò, e Kurt Weill decise di trasferirsi negli Stati Uniti e si dedicò a una serie di musical per Broadway che ottennero grande successo. La vita e l’opera di Kurt Weill hanno segnato un momento di passaggio, e hanno indicato una nuova direzione, una nuova traiettoria.

Okay, abbiamo parlato del tuo lavoro e di tutti i riferimenti che contiene, quindi vorrei menzionare l’unico di cui non abbiamo ancora parlato: Frank O’Hara. Potresti parlarmi del tuo interesse per lui?
Prima di tutto, la mostra allo Sculpture Center di New York è incentrata sul Novecento. Se Chick Austin rappresenta gli anni Trenta, Frank O’Hara era invece una figura centrale della New York School negli anni Quaranta e Cinquanta. Si occupava sia di poesia che di pittura, era un direttore di museo, un curatore, uno scrittore. Ancora una volta una personalità dalla sensibilità frammentata: il fatto che spostasse continuamente la propria attenzione da un’attività a un altra è un elemento davvero importante per me. Addict-Love, il titolo della mia mostra, è anche il titolo di una sua poesia, così come i titoli di tre lavori esposti. Ma in verità, più che il contenuto delle sue poesie, sono stati il suo stile, la sua personalità a interessarmi. E sono questi gli aspetti che ho cercato di rievocare nella mostra, più che la sua produzione effettiva.

Bene, mi sembra che abbiamo fatto il punto. Ora però vorrei sottoporti a una specie di gioco. Ho fatto un po’ di ricerca su diverse riviste e ho trovato una cosa interessantissima: il questionario di Proust sottoposto da Vanity Fair a Jasper Johns. Quindi vorrei concludere l’intervista facendoti alcune domande tratte da questo questionario. Ti va?
Sì. Tra l’altro Jasper John è un mio vicino di casa.

Beh, io questo non lo sapevo ma vorrei che rimanesse nell’intervista, così la gente saprà che ho dei poteri paranormali. Allora, cominciamo: qual è la tua idea di felicità perfetta?
La felicità perfetta è non essere infelici. Ma è una risposta evasiva, me ne rendo conto...

Qual è la tua più grande stravaganza?
Direi la pigrizia. E le scarpe.

Il tuo stato mentale attuale?
Pacifico.

La tua attività preferita?
La mia attività: fare arte.

Quando e dove sei stato al massimo della felicità?
Per il quando, direi in questo periodo. E per il dove, credo di poter dire a casa mia.

Ottimo. Qual è la persona vivente che disprezzi di più?
Troppe perché me ne venga in mente una.

In quali occasioni ti capita di mentire?
Quando non voglio ferire i sentimenti di qualcuno.

Qual è il bene più prezioso che possiedi?
Direi il mio cane, se non suonasse così brutale definirlo un ‘bene’.

Jasper è stato molto più brutale di te. Ha risposto: «Il mio frigorifero».
Beh, deve avere un gran bel frigorifero.

Sì, penso anch’io. Chi sono i tuoi scrittori preferiti?
Frank O’Hara, Ned Rorem, Virginia Wolff.

Chi è il tuo personaggio di fantasia preferito?
Winnie the Pooh.

Il tuo peggiore rimpianto?
Aver sprecato del tempo.

Chi sono i tuoi eroi nella vita reale?
Le persone che mi sono vicine, i miei amici più cari.

Ed eccoci arrivati all’ultima. Qual è il tuo motto?
Posso servirti un drink?