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Nero Anno 6 Numero 19 inverno 2009



Lawrence Weiner + Andrew Blake in discussion

a cura di Piper Marshall



free magazine


No. 19 - Inverno 2009

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Film Still da HARD EDGE di Andrew Blake 3 copyright Studio A

Film Still da HARD EDGE di Andrew Blake 3 copyright Studio A

still da Water in Milk Exists copyright Lawrence Weiner 3

Abbiamo scoperto che Lawrence Weiner, uno dei padri dell’arte concettuale, ed Andrew Blake, il re del soft porno statunitense, si erano incontrati a New York per un talk. Il pretesto è stato la presentazione di Water in Milk Exists, un film tra arte e pornografia, realizzato da Weiner un annetto fa. Qui di seguito quello che si sono detti.

AB: Andrew Blake
PM: Piper Marshall
LW: Lawrence Weiner
D1/D2: Domande dal pubblico


PM: In un articolo su I Am Curious (Yellow), un film porno svedese sequestrato non appena importato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60, Vincent Canby del The New York Times scrisse: “Il film contiene scene così esplicite, così oneste, e così spudoratamente sincere che non è pornografia.”

LW: Ho pensato di fare Water in Milk Exists come gesto politico, e alla fine sono davvero fiero del film che ho realizzato. Sono stato condizionato da una serie di idee condivise con Robbe-Grillet. Entrambi, essenzialmente, non vogliamo traumatizzare, né cambiare nessuno con quello che facciamo. Cerchiamo semplicemente di configurare un’altra realtà, che merita di essere considerata. I am Curious (Yellow) è stato un film innovativo.

AB: Quella di I am Curious (Yellow) fu effettivamente un’esperienza che mi cambiò la vita, nel 1972. Non immaginavo si potesse fare una cosa del genere e con questo guadagnarsi da vivere.

LW: Perché no?

AB: Perché ero giovane.

PM: Quali sono state le circostanze, Lawrence, che ti hanno riportato al porno come medium?

LW: Ne avevo fatto uno nel ’79. Allora mettevano le persone in prigione per questo genere di cose, e personalmente non sopporto che qualcuno finisca in galera per il semplice fatto di aver realizzato qualcosa. Così The Kitchen (spazio no-profit e multidisciplinare newyorchese, ndr) mi chiese di fare un film, dato che sapevo come farlo. Lo realizzai con Michael Shamberg ed era intitolato A bit of matter and a little bit more. Ero riemerso dal “pensionamento” per via di un editoriale sul New York Times, quando Noritoshi Hirakawa e Gianni Jetzer si rivolsero a me con l’idea di fare un porno.

PM: Sono stati degli strumenti formali impliciti nel genere porno che ti hanno riportato ad esso? Water In Milk Exists è un film che non ha una struttura narrativa o metaforica. Andrew, molti dei tuoi progetti non sono narrativi e non usano la metafora…

AB: Il mio approccio al film è, in un certo senso, autobiografico. I miei film recenti, degli ultimi due tre anni, sono introspettivi. Ho attraversato momenti difficili dal punto di vista personale e professionale. Ne sono uscito con una maggiore capacità di inserire la mia personalità nei film. Ora faccio film che funzionano per libere associazioni. Prendere un’immagine e accostarla ad un’altra e costruire, costruire, così che diventi una sorta di narrazione oscura, un po’ come l’esperienza dell’orgasmo. I pensieri scorrono nella tua mente, poi c’è un culmine, quel culmine è l’orgasmo.

PM: In questo modo, mostrare il sesso con una donna diventa una metafora di liberazione personale.

LW: Non posso accettare la metafora in nessun caso. Se una cosa non è abbastanza buona in sé, dovrebbe andarti bene comunque. Però se significa altro, e allude a qualcosa, devi farti anche carico dell’intera struttura di valori delle persone che capiscono quella metafora. Una metafora, in qualsiasi struttura, cancella la dignità della cosa che tu per primo stai presentando.

PM: Andrew, sono molto curiosa di sapere in che modo, secondo te, il corpo femminile interviene in questa sorta di liberazione.

AB: Scelgo le modelle in base alla mia sensibilità. E la mia regia, con il tempo, è diventata dominazione. Quando dirigo sono un dominatore, e le mie modelle sono fondamentalmente delle sottomesse.

LW: E’ una cosa politica o è personale?

AB: Personale.

LW: Ho un problema. Faccio le cose affinché queste abbiano un senso. Se fossi su un’isola deserta, senza possibilità di essere trovato, probabilmente cercherei, nel modo più piacevole possibile, di passare il tempo e pensare. Ma non mi preoccuperei di fare nessun tipo di documentazione di ciò che sto facendo, o di qualsiasi altra cosa. Se invece avessi anche la minima possibilità di essere trovato, allora probabilmente farei sculture e altre cose, e le metterei insieme dandogli una struttura, affinché questa possa essere trovata. Finché realizzo cose, subisco un’influenza dall’esterno. Non ho mai fatto un’opera d’arte per il fatto che questo fosse ciò che realmente volevo. Credo di non volere nulla. E’ come un totale nonsense esistenziale. Non l’ho mai ammesso ma, ripensando dalla prima proiezione pubblica del film a Basilea, ho capito che non desidero nulla. Ho ancora delle curiose fantasie in testa, come andare in un posto, senza che nessuno sappia chi sono o cosa possiedo, e farmi una bella scopata. Quando passa, credo, salterò su un altro vagone [Ride].

AB: Mi piace l’idea di scovare talenti. Ci piace essere in contatto con persone giovani… Sì, ci piace essere in contatto…

LW: Questa è un po’ troppo facile.

AB: Ti stavo provocando. Ma adoro scegliere le persone con le quali lavoro. Ho degli standard molto alti, e mi piace un certo tipo di corpo. Seleziono uno ad uno i vestiti da far indossare, e questo è in sostanza quello che faccio. Non posso intellettualizzare più di quanto abbia già detto. Mi sento più vicino ad un artista decorativo. Guardo un corpo femminile come un oggetto e basta, come un bell’oggetto.

LW: Anche a me piacciono le ragazze, ma che c’entra questo con il fare film?

AB: Per me è la scusa per fare quello che ti ho detto.

LW: Andrew non mi deludere, per favore. A noi piacciono i corpi dei ragazzi e delle ragazze; ragazzi che vestono come le ragazze; ragazze che vestono come ragazzi… ma non me ne può fregare di meno. A dirti la verità, sensualmente, la maggior parte delle cose mi attizza. Ma non mi sognerei mai di fare un film solo perché ho qualche tipo di desiderio. Se lo volessi, uscirei e andrei in un bar di motociclisti per conto mio e vedrei se ne esco vivo, ma non ci farei un film o una mostra.
Credo che con la metafora si finisca per accettare i valori culturali dominanti e i significati legati alle cose. Penso invece che fare arte, fare film o qualsiasi altra cosa, vuol dire non dover accettare la cultura dominante.

PM: Però non ci sono molte quarantanovenni in Water in Milk Exists.

LW: Sì, ma solo per un fatto pratico. Ho chiesto alle persone che frequentano la mia classe se volevano partecipare e loro hanno accettato. Così ho scritturato uno studioso di Mondrian, uno storico dell’arte, un’artista, una ballerina, una costumista. Il risultato è stato che l’età media degli interpreti non era così diversa da quella che avrei voluto.

AB: Forse ti è piaciuto anche il processo di realizzazione del film, e questo magari è il motivo per cui l’hai fatto di nuovo?

LW: Non mi piace fare mostre e fare film. Ma sono fiero di me stesso dopo averli fatti. Non so come spiegarlo. Viste le mie radici, se non fossi nato nel South Bronx, ci sarebbe stata una buona probabilità che mi sarei accontentato di pensare alle cose invece di farle. Ma non è andata in questo modo, no? Anche per te non è andata così, giusto?

AB: No, infatti. Vengo da una famiglia proletaria e sono prevalentemente un autodidatta. Ogni cosa che ho imparato, l’ho imparata attraverso prove, errori e in base ai miei gusti personali. Dopo il college ho bazzicato nella TV per molto tempo. Non ero appassionato di ciò che facevo finché non ho trovato questo medium cosiddetto porno. Che è ciò che veramente mi appassiona. Amo uscire e girare. E adoro montare. Giro in pellicola su una piccola macchina, la Bolex. La mia macchina è molto vecchia. E’ proprio bella, è come un orologio svizzero. Mi viene da pensare che non sono poi così innamorato delle donne che filmo. Forse sono innamorato della tecnica, della Bolex, della pellicola, della chimica, della “telescenicità”, del montaggio.

LW: Io sono interessato ai materiali, e dopo tutti questi anni (siamo entrambi abbastanza avanti con gli anni) inizio a capirci qualcosa. Ma non è questo il punto. Quello che mi interessa realmente è il messaggio. Non penso che l’aspetto materiale del dipingere o del filmare sia ciò di cui stiamo parlando. In fondo con il nostro lavoro non facciamo altro che chiedere ad un altro essere umano di concederti del tempo reale, e in quel lasso di tempo lo inseriamo in una situazione. In quel momento, fai in modo che lo spettatore entri in dialogo con qualcosa che lo influenzi. Addirittura facciamo in modo di instaurare un dialogo con qualcuno che non capisce nemmeno cos’è il sessismo, il razzismo o il fascismo.

AB: Detesto queste cose.

LW: Sì, lo so. Credo che io e te fondamentalmente siamo dalla stessa parte della barricata, ma per motivi diversi. Penso che a te piacerebbe portare tutti dalla stessa parte perché è quella giusta. A me piacerebbe avere tutti sul lato giusto della barricata perché penso che è lì che inizia tutto. E c’è una differenza.

AB: Beh, per quanto mi riguarda sto liberando me stesso attraverso il lavoro.

LW: A me non me ne può fregare di meno.

AB: Ok, forse ho detto una gran stronzata.

PM: Fino a che punto il tuo processo di liberazione personale ha a che fare con questioni di identità sessuale? Andrew, nei tuoi film ritrai le donne principalmente come oggetti.

AB: Esclusivamente, ora. Voglio essere la presenza maschile sulla scena. Non mi si vede, ma sono il regista dominatore. Voglio essere il solo uomo sul set. Questo è il solo modo in cui sviluppo il mio lavoro e lo amo così com’è.

LW: Quando una persona sta lavorando su una struttura, lavora per soddisfare qualcun’altro. Quando faccio una mostra in un museo, vorrei soddisfare il mio curatore, e non ci vedo nulla di sbagliato in questo. Non lo vedo in termini di ruolo dominante, tu invece lo vedi come ruolo dominante e questo è interessante. E’ la differenza tra i tuoi film e i miei.

AB: Sì, ma io non ho un curatore che mi guarda le spalle. Faccio ogni cosa da solo, letteralmente. C’è mia moglie, forse, ma perché lei ormai sa come farlo. Effettivamente non realizzo film che penso possano soddisfare il pubblico. Voglio solo soddisfare me stesso. E se mi soddisfano, soddisferò anche il pubblico.

LW: Quando ero un giovane artista, incontrai de Kooning. Era un uomo interessante; abbastanza intelligente e mi prese solo per pulire il suo studio. Quando fummo lì mi disse: “Ti dirò qualcosa che non ho mai detto a nessuno: non posso dipingere senza indossare…” Aveva uno strano cappello della belle époque, o qualcosa del genere, con le piume. Se lo mise e lo vidi dipingere. Un’altra volta stavo bazzicando in un bar e qualcuno disse: “Non posso lavorare se non indosso queste scarpe.” E aveva uno strano paio di scarpe ai piedi. Alla fine me ne andai pensando che non me ne importa nulla di queste cose. Per me i quadri non sono un feticcio. Mentre per te i film sono più o meno un feticcio.

PM: Stai dicendo che Andrew, nei suoi film, tende ad utilizzare le donne come oggetti feticci.

LW: Si tratta di fare un prodotto che mostra un oggetto a qualcuno – che mostra qualcuno. Lo so che posso sembrare una persona a cui non piacciono gli oggetti. Invece mi piacciono. Se leggi una delle mie frasi (molte opere di Weiner consistono in una serie di frasi, ndr), esse diventano oggetti nel momento stesso in cui entrano nel tuo sistema.

PM: Andrew, dicevi che una parte della tua biografia rientra nei tuoi lavori e questo lo colleghi ad un aspetto personale. Mentre nelle tue opere, Lawrence, tutto ciò avviene sicuramente di meno. Però anche tu hai usato un libro per bambini, in Bit of matter a little bit more, un libro che era per tua figlia Kirsten. E lo stesso in Water in Milk Exists, dove hai deciso di usare Henry the Navigator. Mi chiedevo il perché.

LW: Ho trovato questo libro, che avevo fatto per mio nipote alla sua nascita, chiamato Henry the Navigator and the sea of Sand. Fu realizzato a San Antonio ed era in spagnolo e inglese. Quando mi chiesero perché avessi fatto un libro a San Antonio, in spagnolo e in inglese, non seppi cosa rispondere. Mi ricordo che ero con Ed Ruscha e Joe Good ad una mostra che facemmo ad Austin e qualcuno mi disse: “Perché stai facendo la locandina in Spagnolo e in Inglese?” Io risposi: “Beh, tu come parli alla tua cameriera?” E la donna rispose: “Non lo faccio. I miei bambini lo fanno.” Allora l’ho fatto per i bambini. Questo libro era stato costruito in modo che potesse essere usato da mio nipote come protezione dal sole, dalla sabbia, dal vento, dalla pioggia e dalla neve.

PM: Vorresti quindi rapportarti alla pornografia, che occupa un posto complicato nell’immaginario popolare, come ad un’altra struttura protettiva?

LW: Usavo la pornografia nel modo in cui è intesa da tutti, cioè scopare, scopare e succhiare nelle diverse forme, come fosse un paesaggio. Quel paesaggio doveva diventare qualcosa di normale. Viviamo in un’epoca dove le persone muoiono di fame, vengono uccise e dove i bambini perdono gambe e braccia. E tutto ciò di cui si parla è di come viene tolto un reggiseno ad una povera attrice. La nostra vita non dovrebbe essere fatta di queste cose. Ci stiamo riferendo alle culture Europee, che è il motivo per cui Water in Milk Exists è stato proiettato a Basilea. Su ogni copertina di ogni magazine in Germania, e su metà di quelle italiane, c’è una donna con delle tette enormi. Ma se mai queste implicassero un po’ di piacere – non sto parlando di niente altro che di piacere – allora diventerebbero molto offensive.

PM: Penso che questo ci riporti all’idea della pornografia degli anni ’70, come controcultura. Lawrence, credo che questo è ciò a cui volevi avvicinarti con il tuo primo film e mi domando se, con quest’ultimo, pensi di poter ottenere qualcosa di simile e se è ancora possibile data l’odierna mercificazione del porno.

LW: Tu, Andrew, ritieni sia controcultura?

AB: No.

LW: Tutte le persone che erano in strada, negli anni ’50 nel Mississipi, durante gli anni ’60 a New York, e tutti gli altri, non erano controcultura, erano parte integrante della cultura. Sono molto interessato alla teoria del caos, perché c’è un enorme errore in essa; in effetti, ciò non è positivo. Ma è quello che ci ha resi tutti responsabili: sappiamo che se tocchi qualcosa puoi cambiarla. Sappiamo che ogni interazione provoca qualcosa nelle persone. Ma in effetti non è questo il punto. Il fatto è: Galileo ha ragione o si sbaglia? Siamo il centro dell’universo o non lo siamo? E il porno la mette proprio su questi termini. Io sono cresciuto nel South Bronx, con gente che si sparava e si ammazzava. L’unica cosa che mi è stata insegnata è: “Lawrence, se si rende necessario, puoi ammazzare chiunque. Una vita non può valere molto dal momento che tutti ne hanno una. Ma se tu umili qualcuno, fai una gran cazzata.” E ancora adesso provo a fare arte pensando in questa maniera.

AB: Io vivo per fare del corpo un paesaggio. Sono una persona decorativa molto superficiale. Questo è ciò che mi fa sballare e che mi eccita.

LW: Mi rubi la battuta. Ho sempre detto che la ragione per cui la mia arte ha qualche valore per gli altri è che sono una persona molto poco profonda.

D1: Quello che vorrei sapere è il ruolo del linguaggio in relazione all’oggetto, secondo voi. Lo chiedo perché tu, Lawrence, consideri il linguaggio come qualcosa che ha un valore uguale a quello di un oggetto, o come l’oggetto stesso, e tratti il linguaggio come tale, cosa che non credo abbia un corrispettivo nella pornografia. Il solo punto d’incontro che riesco ad immaginare sono alcuni film di Andy Warhol e la sua totale incapacità di capire che un film come Blow Job non potesse avere un richiamo sulle masse. Era fortemente convinto che fosse un film sul desiderio. Il fatto che non fu recepito così, e che rimase relegato nell’ambito dei film d’arte, era qualcosa che, credo, lui non abbia compreso come una chiara divisione. Credo che il costruire un ponte su questa divisione sia l’argomento di questa conversazione.

LW: La ragione per cui mi fa molto piacere sedere qui con Andrew è che lui ha deciso di usare il linguaggio del corpo e il linguaggio visivo come un patois (una lingua considerata non standard, ndr). In effetti, io non penso sia un patois, ma un linguaggio. E’ la ragione per cui uso simboli in quello che faccio, e per cui la gente li comprende. Sono convinto che se riesci a mantenere la struttura della tua frase il più semplice possibile, tutto funzionerà. Ogni cosa è vista come un patois. Oggi il patois è parte della vita. Andrew usa il patois e usa tutti gesti di cui tutti conosciamo il significato, che lo condividiamo o meno. Io, invece, uso un linguaggio che non ha significato. E’ solo sul significato.

AB: Grazie, Lawrence. Hai spiegato il mio lavoro molto bene. Ha a che fare con il linguaggio. Un linguaggio che è sessuale, viscerale, emozionale. E, per esprimerlo, mi è semplicemente capitato di scegliere le donne.

LW: Che cosa cerchi di comunicare alle persone, quello che non devono fare o quello che devono fare?

AB: Non provo a dire nulla che non vogliano fare o che già non fanno per conto loro. E non provo a fare la fotografia di ciò che c’è. Provo a ritrarre ciò che non c’è. Ci sono così tante opzioni.

LW: Ho paura che sia l’orgasmo che l’eccitazione siano semplicemente un materiale. Li prendo e li elaboro, in modo che questi mi possano mostrare qualcosa che non so fare, e far emergere quel cosiddetto paradiso nel quale si suppone ci troviamo.

AB: Beh, voglio dire, ci sono cose meravigliose ovunque intorno a noi, e mi capita semplicemente di inserire le donne in quel contesto, sia che si tratti di architettura o di moda, tutto qua.

D2: In termini funzionali alla masturbazione, le mie prime esperienze con il porno sono legate ai filmati gratuiti di 40 secondi che si trovavano su Internet. Nel caso dei tuoi film, Andrew, la tua stessa presenza è così accentuata che è difficile per lo spettatore immedesimarsi. E nel caso di Lawrence, sono stupito che la stia mettendo in termini di comparazione così spicciola. A me i 40 secondi di clip porno non mi offrono altro che le mie stesse fantasie di ritorno, il che è diverso dalla varietà di pornografie che tu prevedi.

AB: In altre parole, non ti riesci a tirare le seghe con nessuno di noi due?

D2: No, tu [Andrew] stai parlando di voler far sì che le persone facciano qualcosa ma non stai dicendo cosa questo sia. E tu [Lawrence] stai evitando di dire che le persone si masturbano con il porno.

AB: Nel mio caso, se non si eccitano, allora vuol dire che non sto facendo bene il mio lavoro.

D2: Rispetto ad un filmato anonimo su Internet, è il tuo eccitamento che viene condiviso per suscitare eccitazione…

AB: Io non sto prendendo in considerazione Internet in questo momento. E’ là, ma non è il mio ambito.

LW: Questa è la differenza tra l’avere il diritto e avere l’autorizzazione. L’avere diritto è che tutti effettivamente dovrebbero essere in grado di masturbarsi con qualsiasi cosa. Non ci vedo niente di giusto o sbagliato in questo, sembra essere semplicemente il naturale ordine delle cose. L’avere l’autorizzazione è qualcos’altro: è quando puoi sinceramente guardare qualcosa e mettertici dentro nel modo che vuoi, all’interno di qualsiasi struttura sociale hai deciso di far parte, giustificarlo e continuare ad eccitarti.

D2: Andrew, quando il film è finito, finisce lì per te? O continua nel controllo e nella relazione che hai con il pubblico?

AB: No. Non è che non penso al pubblico, ma voglio che il pubblico sia eccitato secondo i miei termini. Questo è ciò che intendo per “dominazione registica”. E anche questo mi entusiasma. Vedi, a me piace avere il controllo sui miei pupazzi, che siano essi le modelle o gli spettatori.

PM: Non penso che questo sia molto diverso da un episodio nel tuo film, Lawrence, quando in una scena, non mi ricordo bene le parole, qualcuno dice: “Beh, che cosa succede se non lo facciamo?” E uno degli attori dice: “Lawrence s’incazzerà con noi.”

LW: No, non so a cosa ti stai riferendo… loro dicono: “A Lawrence farà molto piacere.” Conosco bene il film.

AB: Ho modelle che dicono la stessa cosa, oppure le sento sul set, è chiaro, loro vogliono soddisfarmi ed è così anche nel caso di Lawrence.

LW: Ma questo non è il punto della conversazione. Il punto di questa conversazione è: perché mai dovrei fare un film che mi riporta ad una situazione in cui ero nel 1976? E’ perché credo sia l’ora di dire che quando parliamo di realtà parallele, dobbiamo dire che le realtà parallele sono ciò che un tempo consideravamo apartheid. Tutte le realtà hanno invece lo stesso valore.

PM: Vuoi dire che il lavoro di Andrew privilegia la sua propria realtà, rinunciando a proporne altre?

LW: Imputiamolo alla mia incapacità d’espressione. Non stavo assolutamente criticando Andrew. Sono un suo vero fan. Stavo dicendo che ho fatto un’altra scelta lungo la stessa strada, dallo stesso lato della stessa barricata. Non capisco le persone che vogliono fare le cose perché se la sentono. Non mi stavo mettendo in una posizione diversa da quella di Andrew, stavo dicendo solo che non lo capisco. Ma sai una cosa veramente strana: non c’è differenza tra qualcuno che porta avanti un cambiamento nella società perché questo lo eccita, e qualcuno che porta avanti un cambiamento nella società perché pensa che ci debba essere un cambiamento nella società. Si tratta dello stesso cambiamento.


The Swiss Institute New York comissioned the film WATER IN MILK EXISTS from Lawrence Weiner in 2008.
The first edition DVD can be ordered online at: www.swissinstitute.net
Thanks to Gianni Jetzer, Piper Marshall