Segno Anno 33 Numero 225 giugno-agosto 2009
I sopravvissuti di un sogno
Mio figlio Matteo abita a Bali, isola dell’Indonesia posta, miglio più miglio meno, dall’altra parte del mondo che siamo abituati a considerare. Mio figlio è diventato strabico nel senso che con un occhio vede l’Italia, l’Europa e una certa parte delle Americhe, con l’altro occhio è impegnato ad osservare la sua realtà abitativa che, per noi europei, è la vecchia Isola di Mompracem o L’Isola del tesoro o Lilliput o quella di Robinson Crosue, insomma abita in un luogo che siamo abituati a vedere con gli occhi di tanta letteratura.
Naturalmente un giornalista o un economista ci racconterebbero di Bali nelle modalità obbiettive che il loro ruolo gli compete, ma Matteo è un artista ed è anche un “vecchio artista visionario” come se ne poteva incontrare nella Parigi fine ‘800.
Mi spiace spiazzare così, con questa provocatoria affermazione, tutti i suoi estimatori che lo collocano – in parte a ragione – come uno dei primi inventori dell’Arte digitale e come un protagonista della ricerca degli ultimi anni. Queste due affermazioni non sono poi così in contrasto con la mia come apparirebbe in un primo momento.
Ma, pensando a Matteo, non posso fare a meno di pensare a quel grande Galileo Chini che lavorò alla corte del Re del Siam (attuale Tailandia) nei primi del novecento. Anche lui visionario, attratto dalla luce dorata dell’Equatore, dalle atmosfere di un tempo mitico.
Ma in un mondo globalizzato parlare di esotico non ha più senso perché tutto convive ed è presente. Sto cercando di raccontare quell’aspetto particolare del lavoro di Matteo che non può mai prescindere dall’elemento di stupore, le sue immagini sono sempre un coup de théâtre che per emozionare e commuovere sono immerse in una “natura esotica”. Con questo termine di “esotico” intendo quel mostrarsi in un mondo parallelo, più vero del vero come solo la fotografia può darci, ma allo stesso tempo, assolutamente irreale.
In altre parole Matteo scava nel sogno e cosa c’è di più “esotico” del sogno??Tutta la grande pittura ha usato l’immaginifico come elemento per catturare lo spettatore a partire dalla pittura sacra fino ai surrealisti. La pittura - passatemi il termine perché per me è pittura - di Matteo, crea una sorta di cortocircuito perché si rifà alla grande pittura antica ma ha la lucidità impietosa del contemporaneo.
Se con l’olio su tela potevamo evocare certe visioni, con la lucentezza digitale siamo dentro la visione.
Ecco, la parola “visione” è calzante rispetto al lavoro di mio figlio. C’è una lucidità feroce e impietosa che l’artigiano lavoro di pennello poteva solo evocare.
I personaggi delle sue “visioni” sono abitanti di altri luoghi o non luoghi, appartengono ad un futuro carico di presente, un futuro dolente fatto di continui naufragi e, come Robinson, si organizzano sull’Isola con il materiale scampato alla tempesta. Nei suoi lavori c’è sempre presente la tempesta appena finita, sia che i personaggi abitino in una reggia e si vestano di abiti teatrali, sia che vaghino tra manufatti postatomici. C’è sempre il provvidenziale baule restituito al naufrago dai marosi. Ora è pieno di trine e pizzi, ora di tuniche o di stracci, alle volte, dopo il fortunale, il mare lascia sculture non finite, libri illeggibili, macchine volanti di paesi stranieri. I sopravvissuti se ne appropriano cambiandone i segni.
Il sogno di Matteo s’interrompe proprio nel momento del ritrovamento inaspettato, che sia il corpo dell’amico morto o del figlio di una Mater Dolorosa, che sia la scatola Proustiana del tempo che fu o i reperti di civiltà sconosciute, il sogno è troppo forte per essere continuato.
Possiamo immaginare la sorte che toccherà a tutti i suoi personaggi: una vita da naufrago.
Proprio questo presentimento ci scuote guardando Matteo. Ma non è la facile previsione del Day After, perché invece, ci racconta quello stato di sospensione angosciosa che viviamo tutti i giorni dove cerchiamo di placarci con vecchi pizzi e ciarpame raccattato sulle rive dell’oceano. Cerchiamo salvezza prendendo improbabili abiti che possano rappresentarci, comprando oggetti che diano un senso, un’immagine di noi. Matteo rappresenta proprio noi ora, in questo tempo. Siamo noi quelle ragazze dalla barba appena fatta vestite da regine, siamo sempre noi odiosi prelati che ostentano il potere, siamo madri/madonne di figli sciagurati, bambinette attonite davanti a fantasmi, madri che sanno di non poter proteggere i propri figli in balia degli eventi, siamo pazzi naufraghi, pazzi di dolore per il paradiso perduto.
Ecco la forza, al di là del grande fascino estetico, di Matteo. Risuonano i versi di Jacopone da Todi, canta l’orrore ancestrale già cantato dagli antichi, racconta del solito Ulisse e della sua Itaca dove non c’era più spazio per lui e per la sua amata.
Un sogno, un incubo appena accennato da pochi elementi inquietanti, un’attesa fatta di un tempo infinito, una grande solitudine dove ci si può perdere, uno spazio pittorico occupato da noi stessi come in uno specchio dove ci ritroviamo rappresentati come antichi martiri imploranti.