Next Exit Anno 7 Numero 69 giugno-luglio 2009
Intervista a Massimiliano Gioni
Ha rifiutato i consolidati schemi dell'arte. Ha rifiutato la provinciale visione italiana. Ha rifiutato il gioco delle solite lobby.
Ecco Massimiliano Gioni uno "young blood" dell'arte che è arrivato lontano. A New York...
Si presenta a Milano Massimiliano Gioni all’obiettivo della nostra fotografa in occasione della mostra di Tacita Dean, presentata alla Fondazione Trussardi lo scorso maggio. Ci racconta qualcosa di sé il poco più che trentacinquenne giovane direttore dei progetti speciali per il New Museum contemporary Art di New York e direttore artistico della Fondazione Trussardi, e già direttore della Biennale di Gwangju in Corea del sud che si terrà a settembre. Lo consideriamo un rappresentante del genio italiano nel mondo.
Da Milano a New York. Come si arriva a gestire uno spazio come il New Museum, esiste una formula per il successo?
NO, NON ESISTE una formula per il successo, e anzi quando si pensa di costruire mostre o istituzioni con una formula molto spesso si fallisce. Posso solo dire che si tratta sempre di un lavoro di un team, di una collaborazione molto intensa, e forse l’unica formula è cercare di fare ciò che ancora non c’è.
Sei tra i più interessanti curatori internazionali, per i media.
Ma come è iniziato ?
È INIZIATO più che altro attraverso la scrittura, anche perchè fino a qualche anno fa, particolarmente in Italia, la figura del curatore ancora non esisteva e c’erano ancora pochissime istituzioni nell quali lavorare. Quindi sono partito dalla scrittura, dalla critica, a Flash Art: ma rispetto alla critica come giudizio forse da subito mi interessava la critica come collaborazione, come confronto. In fondo un editor, compone già delle mostre nella testa e su carta: crea percorsi di senso, collegamenti. Alle mostre sono arrivato più avanti, dopo un po’ di gavetta come assistente curatore. Ciò che mi è piaciuto subito dell’organizzazione delle mostre è la combinazione di competenze diverse che richiede e soprattutto l’idea di una forma di “action criticism”, di critica di azione, in cui oltre alle parole si devono usare i fatti, le risorse, i soldi, gli spazi e si creano così nuovi contesti
per l’arte e per gli artisti.
La tua carriera per certi aspetti è stata fulminante, quali sono stati i fattori acceleranti?
MA NON SO SE è stata fulminante. A me sembra di avere iniziato a lavorare un sacco di tempo fa, magari non da curatore, ma di avere iniziato a lavorare da molto. Forse il fattore accelerante è stata questa autodisciplina, questa etica a volte anche ossessiva del lavoro, che mi porto dietro da un po’. Poi, il fatto di essere andato all’estero da solo per la prima volta a vivere già a 15 anni deve avere aiutato: mi ha abituato a viaggiare e così quando mi sono spostato a New York nel
1999 ero (forse) più abituato, anche se naturalmente avevo anche molta paura perché non è che avessi grandi risorse. Devo molto anche ad alcune persone che mi hanno aiutato, incoraggiato, ascoltato. A New York quando sono andato a vivere Maurizio Cattelan, Francesco Bonami e Ali Subotnick sono stati amici e colleghi generosissimi. E poi altre persone come Beatrice Trussardi o Dakis Joannou mi hanno dato grandi opportunità quando ero giovanissimo. Quindi forse anche
un po’ di fortuna. Non so. Quando elenco queste cose sembra sempre di fare il discorso al mio funerale, quindi magari parliamo d’altro.
Sei un italiano che ha raggiunto successo all'estero. Ti consideri un cervello in fuga dalla patria?
NO, PERCHÉ IN ITALIA, con la Fondazione Trussardi, credo di avere fatto alcune delle mie mostre più interessanti e di aver svolto un lavoro che non sarebbe stato facile svolgere all’estero. A volte la mancanza di istituzioni – pensa a Milano – può in realtà rivelarsi un vantaggio perché apre la possibilità a nuovi scenari. Detto questo, certo mi pesa e dispiace che l’Italia non sia riuscita a creare un tessuto di musei e istituzioni come in Germania o come in Svizzera. Ed è vero che se non fossi andato all’estero probabilmente in Italia avrei fatto molto meno. IN REALTÀ non credo ci sia un carattere particolarmente italiano in quello che faccio. Forse chi vede il mio lavoro dall’esterno può giudicare meglio. Anzi devo dire che molto spesso mi hanno criticato anche per non essere abbastanza italiano e per non invitare italiani alle mostre che curo. A me poi interessa più
dove l’arte ti può portare, non solo da dove viene.
Direttore Special Exhibitions al New Museum of Contemporary Art di NY. Ci racconti una mostra speciale?
IN REALTÀ il mio incarico, dal titolo forse un po’ troppo lungo, significa che posso avere un rapporto più libero con il New Museum: ad esempio mantenere il mio incarico di direttore della Fondazione Trussardi a Milano o intraprendere un progetto come la biennale di Gwangju. Di recente al New Museum ho curato, con Laura Hoptman e Lauren Cornell, una mostra intitolata Younger Than Jesus, che è la prima esposizione a fare il punto sull’arte prodotta dalla generazione nata attorno al 1980, la cosiddetta generazione Millennial.
Qualche anticipazione per la Biennale di Gwangju?
È ANCORA troppo presto per fare anticipazioni. Ti posso dire che sono appena tornato dal mio primo viaggio di ricerca a Seoul e Gwangju ed è bellissimo ritrovarsi a lavorare in un posto in cui l’Occidente sembra cosi lontano: vedere un mondo che esiste senza di “noi”, è un ottimo modo per ridimensionare le proprie aspettative. Un grande amante dell’Oriente, Alighiero Boetti, diceva che bisogna lasciare il certo per l’incerto…