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cura.magazine Anno 1 Numero 2 ottobre-dicembre 2009



La critica di Ahlam Shibli al concetto di "casa"

Ulrich Loock



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


Cura. artmagazine
year I – issue 02
October - December

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Viaggio a Tel Aviv: tre luoghi diversi, tre tempi diversi
Journey to Tel-Aviv: Three Different Places, Three Different Times
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Il successo come sconfitta. Riflessioni sull’evoluzione della scena artistica berlinese dalla caduta del Muro
Success As Defeat. Reflections on the Changing Art Scene in Berlin Since the Fall of the Wall
raimar stange

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La testardaggine visionaria di Thomas Kilpper
Thomas Kilpper’s Visionary Stubbornness
marina sorbello

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Opere in libro
Books as Artworks
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GUEST CURATOR
La critica di Ahlam Shibli al concetto di “casa”
Ahlam Shibli’s Critique of the Notion of Home
ulrich loock

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Un’agenda per l’azione pubblica
An Agenda for Public Action
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CONVERSANDO ˜ TALK
I musei che fanno rete in Lombardia
Museums Form a Network in Lombardy
sara schifano

RESIDENZE ˜ RESIDENCIES
Piemonte doc
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Intervista a Dennis Elliot, ISCP New York
Interview with Dennis Elliot, ISCP New York
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GIOVANI CURATORI RACCONTANO ˜ YOUNG CURATORS HAVE THEIR SAY
Naturalia
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In conversazione con Darren Murray
In Conversation with Darren Murray
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LAB
Handwritten
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Stanza d’artista: Donato Piccolo
Artist’s Room: Donato Piccolo
giulia ferracci

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Fashion curating. Intervista a Linda Loppa
Fashion curating. Interview with Linda Loppa
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Michael van der Ham vincitore del premio Vertice, International Talents Support
Michael van der Ham, Winner of the Vertice Award, International Talents Support
dobrila denegri

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Food
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L’arte della sovversione
The Art of Subversion
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Curatorial miscellaneis
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BOTTA E RISOSTA CUT AND THRUST
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President Associazione Artelibro

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Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

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n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012


Ahlam Shibli
Untitled (Trackers no. 1)
Palestine-Israel, 2005
90x60 cm, digital print
Ahlam Shibli
Untitled (Trackers no. 41)
Palestine-Israel, 2005
90x60 cm, digital print
Courtesy: Ahlam Shibli

Ahlam Shibli
'Arab al-N'aim, (Unrecognised no. 1)
'Arab al-N'aim, Palestine-Israel, 2000
60x91 cm, digital print
Courtesy: Ahlam Shibli

Il lavoro di Ahlam Shibli ruota attorno a una domanda fondamentale: “Cosa significa essere a casa?”, e all’inverso, “Cosa significa non essere a casa?”.
Si tratta di un interrogativo inevitabile ai nostri tempi, visto che una delle esperienze più incisive del XX secolo è stata la perdita del senso di casa, come elemento certo, affidabile e garantito. Questo smarrimento generalizzato, nel caso di Shibli, è evidenziato e acuito dalla sua biografia personale. L’artista è cresciuta in un villaggio della Bassa Galilea “sotto la prima occupazione”, come dice lei stessa, durante l’occupazione delle terre palestinesi e il trasferimento di ampie porzioni della popolazione araba per opera degli ebrei, che nel 1948 avevano fondato lo Stato di Israele. I suoi primi lavori tendono quindi a descrivere le situazioni caratteristiche del contesto a lei vicino.
Dall’inizio, Shibli ha definito il suo compito come “un’indagine sulle condizioni di vita del popolo palestinese sotto la dominazione israeliana”. Questa formula, però, come anche l’utilizzo della fotografia con modalità documentaristiche, deve essere interpretata in un modo peculiare. In un contesto artistico/culturale globale in cui la “ricerca” e il “documentario” confezionati come “progetti” hanno assunto uno status accademico, l’uso che ne fa Shibli manifesta un modo di pensare fondato sull’osservazione del particolare. Anche se la sua pratica assume la forma del documentario, il punto focale del suo lavoro non è un inventario di situazioni date, un resoconto di circostanze sociologiche o etnologiche, e tanto meno l’illustrazione di un sapere culturale preconcetto. Al contrario, scattare fotografie significa per lei creare una riserva di immagini che in un secondo momento, osservate nel complesso e nei loro rapporti vicendevoli, rivelano un testo sotteso che le rispettive situazioni di solito nascondono.
Il lavoro di Shibli descrive il desiderio generalizzato di trovare una casa e il fallimento causato da qualsiasi tentativo di trasformarlo in realtà. L’artista ha espresso questa frustrante dialettica con una battuta: “Where there is a home, there is no house; where there is a house, there is no home.” Il lavoro Unrecognised (2000) mostra le lotte sostenute da diverse famiglie palestinesi per avere una casa in un luogo in cui lo Stato vieta loro di installare i servizi minimi dell’abitare, quindi di costruire case degne di questo nome sulla loro stessa terra. Considerati intrusi, a queste persone è negato il diritto ad essere riconosciuti e rappresentati dalle autorità politiche. In sfregio a chi le tratta come se non esistessero, tuttavia, queste famiglie adornano le loro baracche con pennellate variopinte, coltivano giardinetti e allestiscono una delle loro misere camere per il ricevimento degli ospiti.
Molti scatti di Shibli, mostrando l’esistente, riflettono dal punto di vista estetico – confermano e al tempo stesso confutano – il discorso ufficiale della rappresentazione negata, producendo fotografie che velano tanto quanto svelano: le persone sono rappresentate meno spesso degli oggetti, e, quando appaiono, vengono generalmente ritratte in momenti di inattività, nascoste dalla penombra o con il viso coperto da un foglio di carta.
Il lavoro Trackers (2005) parla dei volontari palestinesi nell’esercito israeliano, che scelgono di tradire il loro popolo in cambio della possibilità di costruire una casa per sé, mentre The Valley (2007-2008) riguarda l’attività edilizia che distrugge la montagna che un tempo proteggeva il villaggio natale di Shibli, altra conseguenza della cancellazione dei diritti territoriali palestinesi.
In questi lavori, la frustrazione del desiderio di avere una casa appare condizionata dalla storia - una storia che conferma l’identità del popolo palestinese e legittima le sue rivendicazioni. Questa nozione di “casa” deve essere considerata in rapporto diretto con l’argomentazione ebraica che postula una “Terra di Israele” sulla base di una ricostruzione storica alternativa atta a negare l’identità del popolo palestinese e il suo diritto ad abitare la propria terra, e soprattutto deve essere intesa come una dei pochi strumenti di lotta contro la politica israeliana di pulizia etnica, apartheid e sottrazione dei servizi minimi.
Nei successivi lavori, Shibli ha ripensato e spostato geograficamente il concetto territoriale e collettivo di “casa” nato in una società tradizionale sottoposta a un processo di distruzione che mina le sue stesse fondamenta. Eastern LGBT (2006) ritrae individui il cui orientamento sessuale devia dalla norma dei paesi musulmani in cui vivono, Pakistan, Palestina, Libano, Turchia, Somalia, etc.
Il corpo dell’individuo è considerato la sua prima e più intima casa, e da questo punto di vista la casa vincolata a un popolo e un territorio rivela la sua natura oppressiva. Dato che la loro origine socio-culturale impone un’identità sessuale che non permette di sentirsi “a casa” nel proprio corpo, le persone fotografate da Shibli sono costrette a lasciare la propria “casa” per emigrare in posti in cui possono abitare il corpo scegliendone il genere a seconda delle loro preferenze individuali, di lesbiche, gay, bi- o transessuali – possibilità che trovano nei locali di Tel Aviv, Zurigo, Londra, o Barcellona. Queste micro-società di persone unite dalla volontà di decidere il proprio genere per il tempo limitato di una notte nel luogo “extraterritoriale” di un night-club, possono dunque essere considerate la loro “vera” casa – per forza di cose in conflitto con le norme delle loro comunità d’origine, in cui si trovano confinati per il resto del tempo.
Nei suoi lavori più recenti, ancora inediti, ai quali ha dato il titolo provvisorio The Trauma (2009), Shibli contesta esplicitamente l’autorità della storia come forza capace di legittimare un concetto di “casa” basato sull’unità di un popolo e i suoi diritti territoriali. L’individualismo basato sul genere sessuale dei soggetti di Eastern LGBT ricompare, stavolta in persone legate a storie diverse e conflittuali, mentre l’universo effimero dei locali notturni si ripete in altre costruzioni sociali sorrette da un esuberante simbolismo. The Trauma parla della recente storia della cittadina di Tulle nella Francia centrale, con le sue contraddizioni e le sue ripercussioni attuali. Il 9 giugno 1944, Tulle fece da teatro a un’atroce rappresaglia da parte delle S.S., che impiccarono novantanove abitanti ai lampioni e ai balconi della strada principale e ne deportarono altri centoquarantanove nei campi di lavoro in Germania, dove molti di loro morirono. Questo evento traumatico è commemorato una volta l’anno da lunghe celebrazioni e in modo permanente da una grande quantità di elementi memoriali, tra cui placche stradali, toponomastica, monumenti, iscrizioni tombali e un museo.
Giunta a Tulle, Shibli ha notato che le celebrazioni dedicate alla resistenza all’occupazione nazista e alla sofferenza dei civili sotto le continue rappresaglie erano spesso strettamente imparentate alle commemorazioni delle guerre francesi in Indocina e Algeria. Il concetto stesso di “casa”,
legittimato da rivendicazioni storiche, è stato demolito da una domanda: “Come mai le stesse persone che hanno lottato contro l’occupazione delle loro case e sofferto tante atrocità da parte della potenza occupante si sono trovate, nel giro di poco tempo, a combattere in Indocina e in Algeria contro persone che a loro volta pretendevano di essere libere e per questo hanno subito una dura repressione – stavolta inflitta dal popolo che si era ribellato ai tedeschi?”. È inquietante individuare nelle fotografie di Shibli le somiglianze che rendono quasi indistinguibili le celebrazioni in omaggio agli sforzi degli eroi della Resistenza, alle sofferenze dei “martiri” e ai “sacrifici” dei militari nelle guerre coloniali – queste immagini suggeriscono una retorica ufficiale che occulta gli interrogativi sulla legittimazione storica sotto lo sventolio di bandiere.
In seguito, Shibli ha trascorso due mesi e mezzo a Tulle per cercare e fotografare persone che sono state colpite da quei tragici eventi o le cui storie personali incarnano i conflitti sepolti sotto il carico simbolico imposto dalla società, che tenta di promuovere una superiore unità tramite una permanente allusione alla morte (morts pour la France), una donna, sostenitrice dell’OAS (1) nell’atto di mostrare diapositive della sua giovinezza vissuta da pied-noir in Algeria, un Harki (un collaboratore algerino dell’esercito francese nella guerra di Algeria) che mostra la bandiera della sua associazione di reduci, un cosiddetto “operaio volontario” proveniente dall’Indocina e portato in Francia negli anni Venti, alcuni ex combattenti nella Resistenza, figli e figlie di uomini che sono stati impiccati o deportati in quel 9 giugno del 1944. Attraverso le storie individuali, Shibli mette a nudo la sbalorditiva incoerenza della storia, il cui ruolo a sostegno di qualsiasi rivendicazione territoriale viene quindi pesantemente contestato. In alcuni scatti – una famiglia di origine algerina che visita una vicina famiglia pied-noir dichiarando che l’Algeria è casa loro; la figlia di immigrati algerini nel suo soggiorno “tipicamente francese”, che dichiara di sentirsi a casa ovunque si trovi – traspare un diverso concetto di “casa”: casa è il posto in cui gli individui si rispettano a vicenda e si accettano per ciò che sono.
Un tratto distintivo della critica del concetto di “casa” da parte di Shibli – critica nel senso kantiano di studio delle condizioni di possibilità – è l’uso di immagini fotografiche che per loro natura sono il regno del particolare. Il suo procedimento consiste nel decifrare i segni e individuare le contraddizioni profonde che appaiono sotto la trama visibile della realtà accessibile all’immagine fotografica. In certi casi, guardando a posteriori le sue fotografie, Shibli si è trovata a dover correggere alcune idee preconcette. Per esempio, fotografando gli ospiti di un orfanotrofio polacco (Dom Dziecka. The House Starves When You Are Away, 2008), si era aspettata di trovare bambini segnati dall’assenza e dalla perdita della propria casa. Quello che ha trovato, invece, erano gli indizi di una imprevista “società dei bambini”, che portava uno di loro a dire: “Questa non è dom dziecka [casa dei bambini – il nome dell’istituto], è dom [casa]”.
Il rapporto di The Trauma con i travagli della storia ha reso particolarmente impegnativa la realizzazione del lavoro. Come si può fotografare la storia? Shibli ha ritratto una grande quantità di monumenti, tombe e iscrizioni, i principali strumenti di mediazione storica da parte della società – spesso non aliena dalla distorsione ideologica – e ha chiesto alle persone di portarla nei luoghi in cui era successo qualcosa di significativo per le loro storie individuali, o di rivivere le loro esperienze passate. L’aggiunta delle didascalie si è rivelata una caratteristica fondante di questo lavoro.
Più significative in questa serie che in altre sono le foto dei documenti esibiti dai testimoni di Shibli a sostegno del loro racconto: fotografie, lettere, certificati, giornali, manifesti, cartine e via dicendo. Questi documenti di solito venivano mostrati durante la conversazione, o sollevati di fronte alla macchina fotografica dai loro proprietari, spesso assumendo un rilievo superiore all’immagine delle persone stesse. Questo non solo è servito a raccogliere dati importanti, ma ha consentito a Shibli di riflettere sul suo stesso mezzo di documentazione, ridefinendo la posizione del documento fotografico in rapporto ai fatti storici: questi fatti non sono accessibili nella loro realtà originaria ma solo nelle tracce grafiche che lasciano dietro di sé. La stessa fotografia di Shibli non prova uno stato di cose ma si presenta come ulteriore momento in una sequenza di tracce. Il mezzo documentario si trasforma così in uno strumento di contestazione dell’autorità di uno status quo storico, e più precisamente di quella storia che vuole legittimare i concetti tradizionali di “casa”.


Nota
1) L’OAS è l’Organizzazione Armata Segreta francese che si opponeva all’abbandono dell’Algeria.