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cura.magazine Anno 4 Numero 12 autunno 2012



Marie Lund

Cecilia Canziani



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO N.12 – Fall 2012

INSIDE THE COVER
DANIEL GUSTAV CRAMER
words by luca cerizza

PORTRAITS IN
THE EXHIBITION SPACE
Alfred H. Barr Jr.
Modern is public
by lorenzo benedetti

SPACES — STUDY CASES
Chapt. 3 – CHRISTIAN BERNARD
MAMCO Geneva
by vincent honore

MAKING AN EXHIBITION
The Installers
by adam carr

TALK
Occupy Art?
by raimar stange

FOCUS
SOPHIE’S COMPLEX
by jean-max colard

LAB
a project by ANNA BARHAM
words by catherine wood

SPOTLIGHT
MARIE LUND
by cecilia canziani

ISABELLE CORNARO
in conversation with fabrice stroun

BABAK GHAZI
Sentimental Matters: An Exposure of Identity
and Recognition
by nicoletta lambertucci

THE EXHIBITION ROOM
TOYOTA
A project by ERIK VAN DER WEIJDE
POP QUIZ

A project by IRIS TOULIATOU
FASHION CURATING
In conversation with Emanuele Quinz
& Luca Marchetti / mosign
by dobrila denegri

BOOKS
Performing the Curatorial. Within
and Beyond Art
by costanza paissan

THE FOX
“So we proceed amidst contradictions”.
Revisiting The Fox (1975-1976), part I
by felix vogel

AGENDA
edited by sara feola

SHORT BIOGRAPHIES
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Illusione o paura?
Gavin Wade
n. 11 primavera-estate 2012


Marie Lund, Stills, 2012
installation view at Clickety Click, Croy Nielsen, Berlin, 2012
Courtesy: Laura Bartlett Gallery, London; Croy Nielsen, Berlin
Photo: Joachim Schulz.

Marie Lund, Level, 2012
installation view at End On, Christian Andersen Gallery, Copenhagen, 2012
Courtesy: Laura Bartlett Gallery, London; Croy Nielsen, Berlin.

Marie Lund, Stills, 2012
installation view at Clickety Click, Croy Nielsen, Berlin, 2012
Courtesy: Laura Bartlett Gallery, London; Croy Nielsen, Berlin
Photo: Joachim Schulz.

PREMESSA
Iniziato sulle pagine di questa rivista come tentativo di restare fedele a un format e al tempo stesso sottrarsene, l’esercizio critico di rispondere a un’immagine specifica e analizzare la poetica di un artista tramite una sequenza di lavori da lui o da lei selezionati si è dimostrato tanto stimolante da indurmi a voler proporre lo stesso modus operandi a un altro artista, e poi un altro e un altro ancora.
Come curatrice, il mio mezzo di espressione principale non è la scrittura. Il mio lavoro consiste nell’articolare oggetti nello spazio, sapendo che lo spettatore finirà per trasformare in una nuova configurazione l’ordine o la sequenza da me proposti. Una mostra è una struttura per definizione precaria, che deve essere appropriata e messa alla prova dal destinatario del mio lavoro, il pubblico. E tuttavia, all’inizio e alla fine, come curatori o spettatori, si è soli di fronte all’oggetto del nostro sguardo, nel rapporto intimo e diretto con l’opera. Quando scrivo, mi interessa rendere visibile questa parte della mia pratica, perché questa relazione – o confronto – è la posizione che critico e pubblico condividono, nel cercare di dare un senso tramite l’osservazione, la parola, la costruzione di una sintassi.

0.
Ho sfogliato a lungo le pagine di Turtles, una pubblicazione e opera a tutti gli effetti, in forma di libro, di Marie Lund. Il suo lavoro, nel corso del tempo, ha continuato a rappresentare per me un problema, a tornarmi in mente, riaffiorando ogni volta che pensavo al rapporto tra immagine e oggetto, pittura e scultura, vexata quaestio degli ultimi cinquanta anni di pratica artistica nel mondo occidentale.
Perché, allora, non invitare Marie a condividere con me questa riflessione, proponendole di mandarmi una selezione di opere che secondo lei mettono in luce la permanenza del codice della pittura in un lavoro come il suo, che affonda le radici nella scultura?

1.
Caro lettore, sto barando: questa immagine non fa parte della selezione di Marie. Questa opera, però, mi ha catturato fin dal giorno in cui l’ho vista a Torino nel 2010, tanto che l’ho esposta per ben due volte. The Review (2009) è una tela di cotone di 1,2 x 7,8 metri, posizionata su un piedistallo, dipinta a mano con indaco, erba guada, legno di noce, legno di campeggio, legno di Cuba, robbia, seguendo la lista dei colori citati nella recensione di una mostra di pittura astratta del 1952. Stante su un plinto ligneo, The Review funziona come riflessione sul modernismo e il suo canone, tramite il passaggio dal piano pittorico al campo scultoreo. Questo cambiamento di stato è reso possibile da un testo, fattore che nel contesto di questo articolo assume quasi la valenza di metafora, come se una sostanza materiale si potesse trasformare in un’altra attraverso una riflessione critica sull’opera stessa, come se la critica avesse un potere generativo. Nel lavoro di Marie Lund, l’interesse per la superficie, e per lo iato tra astrazione e rappresentazione, che è affine alla mia riflessione sulla dialettica tra immagine e oggetto, significativamente, spesso si concretizza e prende forma attraverso un passaggio per il testo.

2.
Nel momento in cui scrivo, Handles è ancora incompiuto. Questo nuovo lavoro è composto da tre diverse versioni tratte da una figura di donna che inarca la schiena di Auguste Rodin, realizzate in bronzo. Le figure sono modellate e colate in uno stampo, e poi lasciate allungare, tenendole in verticale, dalla gravità per qualche minuto finché il materiale non si indurisce.
La verticalità della pittura è qui al servizio di gravità e peso, e l’oggetto che ne risulta è incapace di reggersi in equilibrio e deve essere appoggiato alla parete: sospeso nel punto di collasso (e ridefinizione) della pittura quanto della scultura, questo lavoro cambia continuamente stato, perché si serve e gioca con la specificità (e retorica) di entrambe le discipline, come modo di rinegoziare la propria posizione.
Queste sculture, in origine figurative, una volta trattate come immagini diventano quasi astratte. L’astrazione è del resto presente anche in The Review, nell’atto di dare la concreta materialità di un colore alla sua descrizione, mettendo così alla prova la corrispondenza tra ideale e reale, che è un aspetto ricorrente del lavoro dell’artista. Tuttavia, se The Review aveva bisogno della mediazione di un terzo termine – il testo –, in questo caso tra pittura e scultura viene articolato un rapporto diretto e biunivoco. (Così funziona anche, in modo ancor più letterale, A Page to a Corner, un wall painting ottenuto immergendo una scultura nella vernice e poi rotolandola sulla parete). Non è irrilevante che la fonte di Handles sia proprio Rodin, perché il suo lavoro incarna l’esordio di un nuovo canone, quello della scultura moderna, e al tempo stesso la sua crisi.
A ben vedere, il lavoro finale – tre diverse versioni dello stesso canone – rimanda a un altro personaggio cardine del contemporaneo, perché evoca Trois Stoppages Etalon di Marcel Duchamp.

3.
Settings è una serie di quattro schermi di seta su telai di alluminio, simili a quelli usati per la stampa serigrafica. Parte di un nuovo gruppo di opere, Settings è stato concepito nello stesso periodo di Handles (bronzo allungato) e Stills (tende usate e consumate, montate su telai di legno di dimensioni corrispondenti alle finestre su cui erano montate).
Settings conserva l’aspetto della pittura (e c’è qualcosa in questi lavori che rimanda agli Stoffbilder di Blinky Palermo, anche se non riesco a formularlo con precisione), pur allontanandosene nell’esposizione, o meglio nell’‘utilizzo’: l’intelaiatura leggera e la superficie fragile sono funzionali alla loro prestazione. Come nella serigrafia, questi schermi non sono dipinti, ma mezzi, supporti di un segno. Appoggiati a un blocco di cemento che fa parte del pavimento della galleria in cui saranno esposti, su una scala usata durante il restauro dello spazio, su un appendiabiti e una pila di sedie lì trovate, agiscono come contrassegni, trasformando un volume in un’immagine, un’immagine in un oggetto.

4.
Da questo punto di vista, questi tre lavori sono termini equivalenti di un’equazione, ognuno dei quali comprende in sé i termini del problema da risolvere, e agisce come termine dialettico se considerato in rapporto agli altri.
Una volta incorniciate, le tende di velluto e cotone di Stills perdono non solo la loro funzione, ma il loro potenziale scultoreo; appiattite, diventano immagini (i Settings servono in questo contesto a ricordarci che un tempo queste superfici erano cortine, ed erano oggetti). Trasformate in immagini, però, e appese in verticale, queste tele assumono l’aspetto della pittura astratta modernista, e il materiale di cui sono fatte si traduce in idea. Lo slittamento dalla rappresentazione all’astrazione, dall’orizzontale al verticale, dal volume all’immagine, dalla scultura alla pittura (e – ogni volta – il contrario), circola in questi tre gruppi di lavori, ponendo continuamente in questione la specificità di ciascun linguaggio dall’interno.

5.
Guardando uno dei pezzi più scultorei che Marie ha scelto di sottopormi, Beginning Happening (2011), inizia a risuonare l’idea di un’opera come termine di paragone, se la considero in relazione al suo nuovo gruppo di lavori. Posate su piedistalli, queste rocce non lavorate sono abbinate a oggetti quotidiani che sembrano essere stati scelti per qualche specie di assonanza con le qualità della pietra, ma la cui configurazione è radicata nella documentazione geologica delle rocce, dove l’oggetto funge da parametro di misura per indicare la scala dell’immagine.
Sono in un certo senso la descrizione di una scultura potenziale, un’immagine corrispondente al lavoro – se mai fosse realizzato – in tre dimensioni. Un parametro di misura che trova in sé i propri termini. E, incidentalmente, una natura morta. Considerate accanto a Settings, queste due serie di lavori appaiono come il negativo una dell’altra.

6. 7.
Eppure l’aspetto performativo, la sensazione che il suo lavoro sia un fermo immagine, un momento isolato di un processo è intrinseco a questi lavori: una natura morta, ma solo temporaneamente. Un’immagine, per quanto provvisoria, e allo stesso tempo un oggetto in potenza.
È spesso il gesto che allude al passaggio dal bidimensionale al tridimensionale. Level (2012) vi accenna in modo diretto e intuitivo attraverso la sua sostanza materiale, e trova una controparte nella serie Marine Painting (2010-): lastre di marmo spezzate in due e presentate metà appoggiate alla parete, metà sul pavimento, in modo da occupare lo spazio attorno all’angolo che le unisce, la piega che indica la coesistenza di pittura e volume.
(Una considerazione en passant: come i Marine Painting evocano con la loro stessa materialità un ipotetico paesaggio, Beginning Happening può anche fungere da punto di riferimento della pittura di genere. Un frammento marmoreo steso in orizzontale con un manico sopra può ben ricordare, da lontano, il litorale costellato di conchiglie, piume e pezzi di vetro lasciati a riva dalla marea nei quadri di De Pisis).

8.
Ceci n’est ce pas una documentazione di The Very White Marbles (2010-), ma la sua traduzione in un nuovo mezzo espressivo, e un lavoro del tutto nuovo. Se The Very White Marbles era una serie di rielaborazioni di sculture trovate, queste tre stampe A2 patinate in oro utilizzano la stessa strategia, esplorando un altro potenziale aspetto della fonte, attraverso la sua ulteriore trasformazione in immagine. Questo passaggio, tuttavia, riconferma la scultura come il campo privilegiato di indagine di Lund ed evoca, sembrerebbe di proposito, la terza figura di una genealogia da cui origina la scultura contemporanea: se l’installazione scultorea di The Very White Marbles giocava già con la scultura modernista, questa riarticolazione fotografica rimanda a Brancusi.
La scultura di Brancusi ha a che fare con lo spazio, ma anche con il tempo, quello dell’esperienza (che la fotografia può registrare, evocare, suggerire), tracciando così un sentiero – o meglio aprendo un nuovo passaggio – verso la scultura contemporanea, un’intuizione che nello stesso periodo stava mettendo in pratica Duchamp, seppure con diversa metodologia.

9.
Face (2012), una serie di sculture composte di lastre di vetro e scatole di strumenti musicali, sembra quasi voler rendere visibile questa geneaologia (decisamente Kraussiana) che accosta Duchamp a Brancusi.
In questa serie, il vetro incornicia l’oggetto, tracciandone il contorno. “La forma” dice l’artista “è dispiegata, per cui non occorre passeggiarvi attorno, ma si può cogliere nel suo insieme dalla singola prospettiva offerta dalla lastra di vetro. Quasi come se l’oggetto volesse essere un’immagine”. Quasi come se la superficie liscia, chiusa, impermeabile dei volumi di Brancusi incontrasse i disegni prospettici che fluttuano nello spazio trasparente della parte inferiore de Il Grande Vetro di Duchamp.