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cura.magazine Anno 4 Numero 11 primavera-estate 2012



Illusione o paura?

Gavin Wade

in conversazione con Caroline Achaintre



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO N.11
SPRING-SUMMER 2012


— PART ONE —

01
INSIDE THE COVER
ADRIEN MISSIKA
words by julien fronsacq

34
PORTRAITS IN
THE EXHIBITION SPACE
Arnold Bode and the Perfect
Combination of History,
Environment and Contemporary
by lorenzo benedetti

44
SPACES – STUDY CASES
Chapt. 2 – EMILY PETHICK /
THE SHOWROOM London
by vincent honoré

56
MAKING AN EXHIBITION
On the Work and Role Play
of Graphic Designers
by adam carr

— PART TWO —

70
AROUND
Asier Mendizábal and the
Enigma of Ideology
by josé luis corazón ardura
Only Politically-Oriented
Pop Art Painting?
by raimar stange

90
FOCUS
THE ENDLESS HOUSE
Mark Manders
by maria barnas

— PART THREE —

109
LAB
Written Associative Performances
a project by DINA DANISH
curated by post brothers

118
ANDROID®
Quadratisch. Praktisch. Gut.
by riccardo previdi

122
LAB
Jamie Shovlin: Artist’s Pages
text by martin holman

130
SPOTLIGHT
Fantasy or fear? In Conversation
with Caroline Achaintre
by gavin wade


Possibilities and Fantasies of the
Forgotten and Fetish Object.
In Conversation with Anna
Franceschini
by ilaria gianni

148
THE EXHIBITION ROOM
a project by INVERNOMUTO

156
FASHION CURATING
In Conversation with
VALERIE STEELE
by dobrila denegri

164
BOOKS
Avital Geva’s Conceptual
Experiment with Books and Space
by ory dessau

170
AGENDA
edited by sara feola

176
SHORT BIOGRAPHIES
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012


Caroline Achaintre, Trip-Dip, 2012
exhibition view at Arcade, London
Courtesy: Arcade, London.

Caroline Achaintre, Shopper, 2012
ceramic, steel, 41 x 31 x 39 cm
Courtesy: Arcade, London © the artist.

Caroline Achaintre, Crow, 2012
ceramic, 26 x 19 x 9 cm
Courtesy: Arcade, London © the artist

Le sculture di Caroline Achaintre oscillano tra il primitivo e il carnevalesco, tra il rigore artistico e la paccottiglia seriale. Non senza ammiccare all’ormai sbiadito confine tra astrazione e raffigurazione, l’artista londinese è andata plasmando una serie di ceramiche anamorfiche che si rifanno alle esplosioni visive dei suoi tappeti, in foggia di aquile trasformate o delle tele indigene di Frank Stella. I recenti lavori a parete in tela e argilla sfruttano il potere insito nella fisionomia della maschera, le allusioni provocanti, minacciose, erotiche e incerte del rito e della routine, specchio di una realtà fatta d’illusione e paura.

Gavin Wade Ci sono rituali quotidiani che associ alla produzione artistica?

Caroline Achaintre Mi piace cominciare presto. La mattina ho un’esplosione di energia; di solito comincio dagli schizzi per poi passare ad altro.

G.W. Stavo leggendo il testo di Oscar Tuazon per una mostra dal titolo Scott Burton, in cui Tuazon cita Burton che afferma: “La base, o piedistallo, è una forma specializzata di tavolo”. Il che mi porta a chiederti quale sia il tavolo – o la base – nei tuoi lavori. Il corpo umano è un surrogato del piedistallo nelle tue opere?

C.A. Sì, proiettandoti in qualcos’altro, o dietro qualcos’altro. Così l’altro diventa il potenziale mezzo della transizione.

G.W. Intendi che gli spettatori proiettino sé stessi nell’opera o immagini di essere tu a ‘indossare’ l’opera o diventarne la forma?

C.A. Gli spettatori o chiunque altro immagini. Io non rifletto me stessa nella mia arte in modo cosciente.

G.W. Nello stesso testo, Tuazon cita Brancusi, che definisce le sue opere con l’espressione “scultura pragmatica”, suggerendomi così la domanda su quale nome dare ai tuoi lavori. Si possono definire pragmatici? Strambi? O sono sculture dell’orrore?

C.A. Sicuramente non pragmatici. Io sono pragmatica, non la mia arte. Sono opere intense, al tempo stesso seducenti e ripugnanti; strambe, sì, mi piace! Anche grottesche. Il mio lavoro sembra sempre oscillare tra due opposti: rigido e viscoso, bello e raccapricciante, figurativo e astratto… Credo nel dualismo. I pezzi costituiti di pelo hanno quasi sempre un’essenza duplice, di solito convivono almeno due elementi in un’opera. Coesistenza. Mi piace l’idea di viscosità, la condizione tra solido e liquido: non essere più solido, ma non ancora liquido. Stati di transizione: un po’ come stare tra due stanze, instabile, scomodo. Allo stesso modo, le mie opere stanno tra l’arte e l’artigianato, il che per molti risulterebbe senz’altro scomodo.

G.W. In un suo recente intervento, Thomas Demand, interrogato sul tema della bellezza, ha detto di riconoscerla “nell’atto di affrontare consapevolmente i difetti o nel lasciarli così come sono, e nell’acquisire un’intuitiva certezza su quali cose tagliare fuori e quali tenere”. Vedi anche tu l’essenza della bellezza emergere nelle tue sculture attraverso i difetti?

C.A. Nei difetti, certo, e anche nella capacità di essere abbastanza aperti da ammettere la spontaneità e le libere associazioni. Bisogna fare lo sforzo necessario per essere/fare qualcosa senza andare in pezzi. Il gesto cristallizzato, la fragilità e il carisma.

G.W. Pensi che i tuoi lavori abbiano un legame con la poesia o che ne contengano l’essenza? O sono pensieri diversi quelli che animano la creazione e la ricezione dell’opera d’arte?

C.A. Forse non si tratta proprio di poesia, è più l’illusione dell’altro, l’esotico. E il senso dell’umorismo, il gusto per il gioco.

G.W. È un’esplorazione sul senso di liberazione e quindi dalla realtà? L’antropomorfismo delle tue forme scultoree rientra in una strategia consapevole per rendere animata l’opera d’arte?

C.A. Sì, anche se la parola “strategia” è un po’ forte. Il lavoro è finito o ‘riuscito’ quando mi anima, mi diverte o mi commuove. Insomma, quando prende vita, il che può anche succedere a forme, cose o anche parole del tutto astratte e non antropomorfe.

G.W. Ritornando alla questione del tuo lavoro a cavallo tra arte e artigianato, mi sembra che le tue opere sfruttino, tanto nella presentazione quanto nel processo produttivo, forme e metodi tipici dell’artigianato. Vorrei chiederti perciò se ci sono particolari momenti nella storia dell’artigianato o del design da cui trai ispirazione o che consideri importanti rispetto al modo in cui ti permettono di capire la realtà. Quali domande vorresti che questi processi di produzione artigianale generassero?

C.A. Be’, mi piace Ettore Sottsass e il gruppo Memphis. E mi piace molto una certa produzione artigianale, anche se raramente è fonte di ispirazione. Sicuramente le maschere africane da cui ottenere intense stampe per tessuti. Mi piacciono i motivi complessi e i contrasti. Sento di essere attratta dagli insiemi formati da tanti frammenti e parti ripetute. Alludi provocatoriamente al mio processo di creazione artigianale? Be’, i processi artigianali parlano spesso di tempo e intensità, di personale e soggettivo, e questo mi piace. Ma l’artigianato non è neutrale (la gente ne è attratta o respinta), specie in un contesto artistico. E questo mi piace ancora di più.

G.W. Hai citato l’Espressionismo tedesco e la scultura inglese post-bellica come fonti di ispirazione delle tue opere. Quali aspetti dei due movimenti alimentano il tuo lavoro?

C.A. Dobbiamo tornare indietro all’idea di primitivismo e alla tensione tra astrazione e figurazione. Di quanto poco ci sia bisogno per rendere un oggetto figurato e di quanto in là si possa spingere l’astrazione. La geometria della paura.

G.W. Il tema del primitivo mi affascina, dal momento che la trovo una posizione molto sofisticata. Pensi che le tue opere attingano direttamente alle cosiddette forme primitive o piuttosto si nutrano del primitivismo filtrato dall’arte e dalla cultura del XX secolo? Mi domando quanto sia nebuloso oggigiorno il concetto di estetica primitiva.

C.A. Ottima domanda. Credo che il mio interesse si orienti a un rinnovato primitivismo letto in chiave contemporanea e all’attrazione per l’altro, l’esotico, la nuda forma. Come conseguenza del colonialismo, oggigiorno esistono in tutto il mondo occidentale molte collezioni etnografiche che, se pure non politicamente corrette, sono indubbiamente affascinanti. Frammenti di oggetti in scenari modernisti e post-modernisti. In luoghi del genere, la sovrapposizione tra i due mondi è la fonte di ispirazione principale.

G.W. Quando parli di geometria della paura, penso alle prigioni e alla tensione tra costruttivismo o modernismo e controllo statale ma anche oltre, forse alla relazione tra ricerca di astrazione nella forma e nel pensiero, all’astrazione e al fallimento del capitalismo nel consegnare il futuro promesso. È qui che la forma primitiva e il manufatto, l’artigianato, diventano utili o nuovamente essenziali? Sullo sfondo dell’odierna astrazione economica?

C.A. Mamma mia! Pensi in termini molto più politici di quanto faccia io. Associo queste parole – e il titolo – agli scultori inglesi dagli anni Cinquanta in poi, come Henry Moore e Helen Chadwick. Ma più di ogni altra cosa, mi piace il suono del titolo. Quando si parla di animismo, semplicemente si mettono in relazione forme e sentimenti.

G.W. Mettere in relazione forme e sentimenti sembrerebbe necessario per sostituire la situazione odierna in cui le forme sono associate al valore economico. C’è una sorta di immediatezza in tutto questo: un semplice, eppure negletto, ordine del giorno eliminato dalle politiche sociali. I sentimenti sono sempre la cosa più difficile da valutare. Questa soggettività passibile di valutazione sospetto che sia in un certo senso il punto cruciale del tuo lavoro. Come si coniuga questa relazione ‘forme-sentimenti’ alla scelta dei materiali?

C.A. Entrambi i materiali – l’argilla e la lana – hanno una sorta di aura. Non sono una fanatica della New Age, ma in un certo senso la questione dell’aura è vera. I miei lavori a parete in pelo irradiano calore – si tratta in ogni caso di una prerogativa della lana – ma è merito anche dell’intensità dell’insieme che consiste di così tanti elementi singoli. Ciò crea un bel contrasto con l’essenza più cupa di quei pezzi. E ancora, l’argilla usata in modo non industriale acquisisce un’energia soggettiva proprio nel momento in cui qualcuno la manipola a mano. Sono l’espressività e l’immediatezza contenuti nel gesto che convogliano il messaggio, non la pianificazione. È un processo che ha a che fare col caso anche se necessita di controllo, insomma una tensione di cui è bello far parte. A dire il vero la cosa si applica anche ai miei acquerelli, un campo con infinite possibilità di sperimentazione. Libertà e apertura nel processo creativo sono ciò che renderanno poi l’opera gioiosa e soggettiva agli occhi dello spettatore; si può proiettare molto in un’opera, per fortuna anche le persone stesse. Il che è tutto non verbale.

G.W. I tuoi titoli hanno una forte energia vitale. Come rispondi quando ti chiedono di spiegarli? Per esempio, cosa sono “She-Balls”?

C.A. I miei titoli vengono dallo stesso flusso di libere associazioni da cui vengono anche le mie sculture, in un modo piuttosto dadaista: il suono delle parole è importante almeno tanto quanto il loro significato. “She-Balls” è un omaggio alle donne audaci e ai titoli demenziali.

G.W. Proprio come il titolo della tua mostra di quest’anno da Arcade: Trip-Dip. Adoro questo titolo. Anche in questo caso c’è qualcosa di primitivo che oscilla tra linguaggio e forma. Come sei arrivata all’idea di una forma onomatopeica?

C.A. È stato veloce e divertente. In un certo senso metto a fuoco le parole, anche se poi alla fine è il suono che decide se vanno bene o no. E poi hai ragione: il processo creativo prende le mosse da quella dimensione espressiva e primitiva verso cui mi sento così attratta, semplicità, ritmo e anche rima. E senti che belle queste parole, “ritmo e rima”: splendide! Le lettere cominciano a muoversi immediatamente.

G.W. C’è una narrazione che si va delineando tra i tuoi lavori? Nelle tue creazioni c’è un così ricco assortimento di elementi, che quando prendono vita durante la mostra, sembra che davvero ci sia una coesistenza tra questa vasta gamma di personaggi, e forse anche di vite.

C.A. Sicuramente c’è una narrazione tra i miei personaggi, che è solo parzialmente sotto il mio controllo. La singola scultura è un oggetto e un soggetto al tempo stesso. In termini animistici, tento di dare a quegli oggetti vuoti e fragili una vita e un’anima proprie. Ancora una volta torniamo al dualismo soggetto/oggetto, che però ha anche attributi di ambigua materialità. Questo dialogo di materiali all’interno della scultura (come nella vernice nera lucida, nella pelle di vernice nera o semplicemente nella pelle e ceramica) è ciò che attende alla sua personificazione. I personaggi prendono vita grazie ai loro omologhi, quindi ancora una volta si tratta di una miscellanea di programmazione e sperimentazione. L’incertezza è una parte importante delle mie opere, siano esse ceramiche, disegni o tappeti, proprio per creare lo strano oggetto esotico: l’altro.