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cura.magazine Anno 6 Numero 18 autunno-inverno 2014



Cosa può fare una scultura?

Cecilia Canziani



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO CURA. No.18

FALL 2014

Cover by Camille Henrot

INSIDE THE COVER
Camille Henrot
words by Ruba Katrib

PORTRAITS IN THE EXHIBITION SPACE
Harald Szeemann.
The exhibition in the exhibition
by Lorenzo Benedetti

SPACES—Study Cases
Museo Experimental El Eco
Vincent Honoré in conversation with
Mauricio Marcin

TALKING ABOUT
Spectator Novel…
If on a winter’s night a spectator
by Jean-Max Colard

LAB
A project by Claudia Wieser
text by Mark Emblem

SPOTLIGHT
Alex Da Corte
in conversation with
Kim Nguyen

LAB
A project by Oliver Laric

SPOTLIGHT
Jordan Wolfson
in conversation with Adam Carr

SPOTLIGHT
Takeshi Murata
in conversation with
Alex Gartenfeld

SHOW AND TELL
Falke Pisano – What can a sculpture do?
text by Cecilia Canziani


LAB
A project by Zak Kitnick
text by Clément Delépine

FOCUS
The Golden Madonna,
Playboy March 1974
an essay by Anna Gritz
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012

Illusione o paura?
Gavin Wade
n. 11 primavera-estate 2012




0.

In una conversazione originariamente pubblicata sulle pagine di Shifter Magazine, c’è uno scambio di battute che ho trovato esilarante. Falke Pisano e Charlotte Moth stanno discutendo dei loro lavori recenti, e Charlotte racconta come si svolgerà la sua prossima giornata: l’attrezzatura è pronta per le riprese, lei incontrerà l’operatore, si prenderanno un caffè e aspetteranno di vedere cosa succede. Falke le chiede se non abbia sempre un piano e Charlotte risponde: “No, non ho un piano, Falke!”. Ciò che mi piace in questo rapido scambio di battute è che mi sembra quasi di vederle, per quel poco che le conosco: le loro diverse personalità, il loro lavoro e l’intimità che rivela quel ‘Falke’ alla fine della risposta di Charlotte. Mi rendo conto che ho incontrato il lavoro di Falke molte volte, e più o meno in tutti i luoghi che ho visitato per lavoro o piacere negli ultimi anni, anche se l’ho conosciuta di persona solo poco tempo fa, l’inverno scorso, mentre lei e Judith Hopf partecipavano al secondo ciclo di mostre al Praxes Center for Contemporary Art di Berlino. Nel tempo che ho passato lì, ho potuto godere di un approccio privilegiato al lavoro di Falke. Non ero la curatrice della mostra, ma potevo assistere alla sua preparazione e mantenere una visione semi-distaccata ma informata sul progetto in divenire. Per la seconda mostra del ciclo, Falke Pisano ha presentato una struttura di canne di bambù decorata con tessuti che nel tempo cambiavano aspetto e posizione, forma e funzione. Ricordo il momento in cui, da quella che a un certo punto sembrava una valigia senza fondo, si è messa a estrarre stoffe di ogni tipo, di diverse consistenze, colori, pesi e motivi, che provava sulla struttura di bambù, aggiustandole, spostandole, togliendole e rimettendole. L’impalcatura di bambù, collocata in un angolo della stanza, è diventata una struttura animata che stranamente mi ricordava Parangolés di Hélio Oiticica. Quello che stava facendo, in definitiva, non era tanto diverso da quando organizza i suoi diagrammi nello spazio, seleziona immagini per i suoi collage, monta i video inquadratura per inquadratura, eppure in qualche modo la diversità del materiale impiegato – più grezzo, in apparenza meno rifinito – mi ha fatto riconsiderare la mia lettura dei suoi lavori, suscitandomi il desiderio di scriverne per conoscerli più a fondo. Ma come affrontare una pratica che sembra così codificata, già indicizzata e organizzata dall’artista stessa, senza rischiare di perdersi nelle strutture da lei create?
Il piano è che non c’è piano, se non seguire impressioni sparse, incontri fortuiti e da lì – per citare Moth – vedere cosa succede.

1.
Ovviamente, è difficile trattenersi dal violare le regole per rendere l’esercizio della scrittura più interessante per sé stessi. Dunque, invece di parlare singolarmente dei tre lavori che Falke ha scelto per me, li considererò come una totalità.
Raccolti in una cartella che mi ha consegnato su una chiavetta USB, sotto il titolo ‘Cosa può fare una scultura’, ci sono tre lavori, tutti parte della serie The Body in Crisis, un ciclo inaugurato nel 2011, e che, rispetto alle precedenti Figures of Speech, mantiene una struttura più aperta. Partendo da Figures of Speech come base metodologica, questo nuovo ciclo si sviluppa come una narrazione proliferante – anche se non lineare – e rizomatica centrata sul corpo come soggetto politico nel corso del tempo e in specifici momenti storici.
Il primo lavoro per ordine di realizzazione, Structure for Distance (Obstacles), consiste in una serie di tavole, dipinte di nero con una striscia bianca in alto, che si presentano e funzionano come un indice, contrassegnate da una descrizione dei sei momenti storici che saranno ulteriormente esplorati nel corso della sua indagine in fieri.
Le tavole sono inclinate, ad altezza del ginocchio, e presentate a intervalli regolari. Sono intitolate “ostacoli”, il che ci permette di vederle sia come sculture che come strutture performative, un passaggio spesso intrinseco agli elementi mutevoli di Falke Pisano: “inciampiamo” letteralmente in momenti della storia in cui il corpo si trova in crisi. Structure for Repetition (not Representation) è una serie di tavole di un metro per due, collegate in cima da una struttura triangolare in legno che regge dei tendaggi neri. La struttura sostiene e insieme nasconde le altre componenti del lavoro, occupando lo spazio con la sua forma a spirale e moltiplicando i punti di vista. Se dal punto di vista formale si distanzia dall’indice, Structure for Repetition funziona come un archivio, perché si presta a raccogliere appunti – in forma di collage, disegni e ritagli – per l’attuale indagine di Pisano sul corpo in crisi, e così diventa, nel tempo, una sorta di armadio della memoria di passati che devono ancora accadere. È accompagnata da una serie di disegni a gesso su lavagna – tracce impermanenti, note che forse potrebbero essere riviste, e alludono anche a una cornice pedagogica.
Prison Work (2013) è il terzo e più recente lavoro del ciclo che mi viene proposto di analizzare. Consiste di due volumi cubici distanziati, uno di ferro e vetro oscurato, il secondo in metallo verniciato a polvere e legno. La forma delle due sculture evoca – o meglio, è ispirata – dalla bizzarra posizione di un carcere recentemente dismesso a Philadelphia, che, come si vede nel video di accompagnamento, da una veduta aerea risulta sfasato rispetto alla griglia urbana. Nonostante ciò che uno potrebbe pensare, non è la prigione, ma la città a essere stata costruita di traverso rispetto alla prigione, quando negli anni Trenta Philadelphia crebbe fino al punto di raggiungere la zona abbandonata in cui il carcere era stato costruito un secolo prima. Il triangolo formato dalla parete del penitenziario con la strada rappresenta una presa di posizione spaziale che indica una dissociazione (o convergenza) della società rispetto al carcere, attivata da qualsiasi cittadino cammini verso l’esterno (o all’indietro) rispetto all’angolo in cui si uniscono la parete e la strada. Le due sculture possono essere similmente inscritte l’una nell’altra; le loro pareti trasparenti o opache, le loro aperture e superfici chiudono e aprono la vista sui diagrammi esposti, che circolano senza sosta da uno all’altro, ripercorrendo in senso visivo e performativo l’assunto, reso esplicito dalla prima frase del video, che il Penitenziario e la Società, lungi dall’essere istituzioni separate, si incontrano sullo stesso terreno, perché entrambi sono soggetti alle leggi economiche globali.

2.
Verso la fine del saggio Il piacere del testo, Roland Barthes propone di includere la “scrittura ad alta voce” come forma di piacere testuale, e sostiene che essa rivela “la grana della voce”, una stereofonia della carne, la manifestazione del corpo del parlante, più attinente alla sua realtà materiale che al senso, al linguaggio. In molti lavori di Falke risuona la sua voce, una voce distinta, apparentemente distaccata e tuttavia pervasiva. Una voce che avviluppa il lavoro e crea uno spazio speciale in cui lo spettatore resta sospeso, e che sembra sovrapporsi agli altri elementi che compongono il lavoro.
Una voce narrante sovrascritta da testo e immagini, e quindi parzialmente cancellata quando altri elementi, strettamente legati a quello che lei sta dicendo, ma che visivamente agiscono come interruzioni, ribadiscono e cancellano, sottolineano e distraggono.
E ciò che resta allo spettatore del video, o al pubblico della sua performance, è la voce come puro suono.
La voce nel lavoro di Pisano è un promemoria, un modo di riraccontare a sé stessa – e quindi a noi – la storia che altrimenti (al tempo stesso) racconta attraverso gli oggetti, le immagini e i diagrammi.

3.
Considerati nel loro insieme, i tre lavori adottano tutti una grammatica e una strategia minimalista: strutture modulari centrifughe, scandite nello spazio e che richiedono allo spettatore una partecipazione attiva capace di mettere insieme tutti gli elementi. Se Structure for Distance (Obstacles) evoca il linguaggio formale di Richard Serra, Structure for Repetition (not Representation) e Prison Work ricordano gli L-beams di Robert Morris, da un punto di vista tanto formale quanto operativo, perché mettono in questione il rapporto tra percezione ed esperienza nello spettatore – un aspetto che ricorre in quasi tutti i lavori di Pisano.
Eppure questi oggetti non esistono semplicemente come volumi, ma anche come dispositivi che da un lato si interpretano come diagrammi, dall’altro sostengono come strutture espositive, offrendo allo spettatore lo stesso contenuto in un’altra forma. Ricordare la struttura di bambù (che, come mi è stato detto, non è propriamente da considerare un lavoro) può servire come esempio dell’uso della scultura nella pratica di Pisano. Lì, la struttura mutava forma, e anche funzione, diverse volte nel periodo in cui è stata esposta, rivelando la sua natura di modello utile a mettere alla prova forme, funzioni, spazio e pubblico, e, infine, il medium stesso, in una misura che un artista di rado concede a un lavoro.
Ho menzionato di sfuggita il lavoro di Hélio Oiticica, ma a ben vedere, non c’è forse un’affinità tra le sculture accessibili di Pisano, e i Permeables dell’artista brasiliano, sia a livello formale sia in un senso più profondo, dato che il Movimento Neo Concreto, quando incorporava le strategie dell’Arte Concettuale, considerava il corpo un tema artistico esplicitamente politico?
Cosa fa, allora, una scultura? Le sculture di Falke sono in ultima analisi strutture narrative, che con delicatezza costringono lo spettatore a prendere posizione davanti al contenuto annunciato dal lavoro; sono elementi che manifestano il contenuto, organizzano il materiale – e, tuttavia, agiscono come oggetti.