DROME magazine Anno 6 Numero 17 primavera/estate 2010
L’incredibile essenza del Tempo
David Claerbout non è solo uno tra i più interessanti e noti videoartisti del panorama internazionale, ma anche uno dei più intelligenti indagatori del rapporto esistente tra tempo e medium filmico e fotografico. Per Claerbout questa relazione non è qualcosa di prestabilito, ma un elemento da mettere in crisi, un grimaldello che ci costringe a porci delle domande ma che, allo stesso tempo, riesce ad emozionarci
Sin dai suoi primi lavori (Boom e Cat and Bird in Peace, entrambi del 1996) si percepisce l’interesse per i tempi dilatati, per video in cui apparentemente non accade nulla ma nei quali, proprio questa assenza di eventi, innesca una rimodulazione della nostra percezione del tempo e del reale. Negli anni successivi, la ricerca artistica di David Claerbout, nato a Kortrijk, in Belgio, nel 1969, si orienta verso un atteggiamento più attento all’aspetto tecnico e alla messa in discussione dell’identità stessa del video e della fotografia. In Kindergarten Antonio Sant’Elia, 1932 (1998) o Vietnam, 1967, near Duc Pho (reconstruction after Hiromishi Mine) (2001), vecchie fotografie vengono rielaborate lasciando immobile e bloccato il movimento degli uomini o le azioni da essi create, mentre gli alberi, il paesaggio e, soprattutto, la luce naturale, rendono viva l’immagine attraverso la loro quasi impercettibile vibrazione. Il tempo corre quindi su due binari; un’ambiguità che echeggia anche nell’interrogativo: stiamo osservando una fotografia “animata” o un video “cristallizzato”? Qual è la linea del tempo a cui dobbiamo far riferimento?
Stessi dubbi, seppur inversi, ci assalgono in opere come Arena (2007) o The Algiers’ Sections of A Happy Moment (2008), in cui un medesimo avvenimento, in un unico istante, viene ripreso da un numero impressionante di punti di vista diversi, tali da dilatare il tempo e farci percepire la simultaneità spaziale come progressione temporale. Che sia una partita a basket o un momento di pausa sui tetti di Algeri, lo slide show fotografico crea una narrazione che, pur proseguendo per oltre 20 minuti, ha una durata temporale pari a zero. Non sappiamo se la palla andrà a canestro oppure no, se i volti dei tifosi esploderanno in espressioni di gioia o di delusione, se e come i gabbiani lasceranno il terrazzo… sappiamo solo che il tempo, anche se perduto, può essere ritrovato e, forse, trasformato in poesia.
DROME: Parlaci dei tuoi primi anni di studio, quando ti cimentavi con la litografia… come e quando è nato l’interesse per la fotografia e il video?
DAVID CLAERBOUT: In Belgio, l’incisione, la xilografia o la litografia sono spesso scelte dagli artisti che non hanno intenzione di apprendere la pittura. Ho studiato pittura e disegno molto seriamente da quando avevo sedici anni, ma mi sentivo molto più a mio agio con il disegno e l’acquerello su carta. Non amavo molto la tela. Nei corsi di litografia ho imparato a pensare alle procedure, a pre-visualizzare il risultato, ad essere paziente e a sviluppare un apprezzamento per le qualità alchemiche dei processi di stampa. Ho provato la fotografia, ma l’ho trovata deludente. Volevo sempre modificare il risultato. A un certo punto ho deciso di non produrre niente per un anno intero, passando il tempo ad osservare e animare mentalmente quello che avevo trovato di incompleto in una fotografia. E quello è stato il momento in cui ce l’ho fatta.
D: Hai poi messo in discussione lo statuto della fotografie e del video utilizzando il tempo (inteso come caratteristica fondamentale in questi due media) come strumento d’indagine. Ma il tuo lavoro problematizza anche il tempo della fruizione… Come ti relazioni con il pubblico e con il fatto che, in un modo dove non c’è mai abbastanza tempo, tu richiedi in realtà molto tempo?
DC: Una volta “lo schermo” rappresentava un orizzonte lontano e desiderabile, una distrazione dal duro lavoro “sulla terra”, figurativamente parlando… oggi il lavoro duro è lo schermo, e “la terra” è l’orizzonte.
Ma il tremolio dello schermo stanca gli occhi (sempre figurativamente parlando). Guardarlo a lungo provoca degli interrogativi che sembrano una sorta di regressione e, così la cadenza dei nuovi impulsi è diventata più rapida, il ritmo dei tagli è più simile a quello di un “refresh” dello schermo che a quello di un battito cardiaco. Quindi le domande sono sostituite dagli impulsi. La riflessione filosofica sugli orizzonti è rimpiazzata da piccoli elettroshock. Poi, quando distogli lo sguardo dallo schermo e torni a guardare intorno a te, il tremolio rimane, non importa quanto tu stia cercando di rimettere a fuoco. Paradossalmente, è proprio quella superficie dello schermo che ha attratto la mia attenzione. È lì che vedo un orizzonte.
D: I tuoi lavori hanno sicuramente un rapporto con sperimentazioni video di artisti come Andy Warhol, in grado di portare all’estremo alcune caratteristiche del mezzo filmico. Ma, a mio parere, hanno anche radici più lontane, nei dipinti fiamminghi del Seicento, nei quali nature morte o scene di interno sono immerse nel silenzio e nell’atemporalità. Riconosci una vicinanza in questo modo di sentire, oppure no? Pensi di contribuire a cambiare la percezione del tempo?
DC: Ho assimilato molto della storia delle immagini (es. la pittura) nel mio lavoro, ma io andrei cauto con i confronti, perché sminuiscono i diritti delle mie opere paragonandole alla pittura e quindi alla “Storia” (della pittura). Apparentemente, questo accostamento potrebbe sembrare nobile. Infatti, è un fraintendimento il modo in cui gli artisti usano il medium tipico del loro periodo. Non mi piacerebbe essere un interprete contemporaneo della vecchia scuola.
I titoli di molti miei lavori si riferiscono a tempi e luoghi specifici, citando le didascalie di vecchie fotografie. L’ambizione che c’è dietro è, tuttavia, comporre luoghi e momenti che possono andare oltre l’aneddoto. Il video, essendo un medium basato sul tempo, produce immagini che vengono dimenticate rapidamente. Il mio interesse pittorico sta nel comporre immagini che non compaiono nella memoria a caso, ma come costruzioni. Lo strumento del regista è la memoria, non la pellicola. Ammiro molto il modo con cui il regista francese Robert Bresson ha lavorato, riuscendo a creare una recitazione e una scena splendidamente artificiali. Ad una prima visione i suoi film ti fanno sentire a disagio per un’apparente mancanza di realismo psicologico, ma con le successive visioni ne comprendiamo la bellezza. L’ascolto ripetuto è considerato naturale nella musica, e come in Bresson è tutta una questione di ritmo. La richiesta di “commuovere” e “toccare” lo spettatore crea immediatamente delle tensioni scorrette nella produzione di film. E poiché la produzione cinematografica è la più forte creatrice di cultura del nostro tempo non dovrebbe sorprendere che le arti visive tendano anch’esse ad esprimersi in maniera rapida ed emozionale, e, quindi, ad essere rapidamente dimenticate. Questa è la mia resistenza e il mio contributo.
D: C’è spesso un’ambivalenza in molte tue opere tra ciò che si muove e ciò che è fermo, tra passato e presente, tra tecnologia modernissima e vecchie immagini, tra fotografia e film, tra l’istante e l’eternità. Come concili questi contrari?
DC: Durante la mia infanzia il divorzio dei miei genitori mi ha insegnato molto riguardo la riconciliazione dell’irreconciliabile. Mentre i miei fratelli prendevano le parti di uno o dell’altro, io non lo facevo. I miei genitori sono stati la mia scuola.
Di recente, qualcuno mi ha detto che io offro una via di uscita consolante all’inevitabile e assoluto paradosso (quello, per esempio, di Marchel Duchamp). L’energia della modernità è stata generata dal conflitto (guardiamo al principio del motore a scoppio, o alla guerra come strumento di progresso, o alla crisi come parte di un ciclo di congiunture positive...). Poiché io non credo nel conflitto di polarità, la mia posizione non è così attraente per la cultura contemporanea. Così, mentre la polarizzazione è al centro del pensiero politico e spirituale, c’è in realtà una terza energia. Non so se io sono sulla sua scia, ma sento di star acquietando le dispute tra sinistra e destra. La mia preoccupazione è rallentare le retoriche di entrambe le parti.
D: Una volta il tempo era scandito solo dal sorgere e tramontare del sole… i tuoi lavori hanno un rapporto molto importante con la luce naturale e il suo studio. Pensi che il Tempo della Natura e il Tempo dell’Uomo siano in conflitto?
DC: Sì, sono in conflitto. I media con cui lavoro sono stati concepiti dal “Tempo dell’Uomo”, per dirla con i termini che hai giustamente usato. Il ritmo, tuttavia, è quello della natura.
Il tempo dell’uomo, detto anche “tempo atomizzato”, può essere diviso in piccole porzioni “negoziabili”. Ogni persona è nata possedendone alcune, e – tristemente - le perde inevitabilmente e velocemente. Questo produce una logica di perdita, che, se ci pensi, è stranamente paradossale rispetto alla sua sorellina: la logica dell’efficienza.
Il mio lavoro destabilizza coloro che pensano al tempo in termini economici. Io penso al tempo come ad un grande e chiaro testimone, che uccide generosamente ogni storia o mito insignificante. Ed è questo il motivo per cui mi piace lavorare con il linguaggio filmico e la fotografia – così piena di storie e di miti.
D: Un’ultima domanda, più leggera… Quale è, secondo te, il peggior modo per sprecare il tempo?
DC: Le ossessioni.