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DROME magazine Anno 7 Numero 18 inverno 2011



Robin Rhode

Silvano Manganaro

Il Gioco infantile dell’Arte



arti/culture/visioni


SOMMARIO DROME magazine 18 -
the CHILDHOOD issue


copertina / cover:Jacqueline Roberts

PRÉLUDE

INTRO Liesje Reyskens, JeongMee Yoon, Julie Blackmon, Jacqueline Roberts
INFANZIA / CHILDHOOD   

JONATHAN MEESE // synusi@blog RICCI/FORTE // EROISMI E LORDURE NELLE LETTURE E NELLE SCRITTURE BAMBINE / HEROISM AND REPUGNANT VISIONS IN CHILDREN’S BOOKS //

portfolio FRP2 - I BAMBINI / CHILDREN // ROBIN RHODE // STEFAN CONSTANTINESCU // NEDKO SOLAKOV // MARIE HENDRIKS by Patrice Maniglier + Barbara Polla // LPU // LINO DIVAS // SIMEN JOHAN // GÖKSIN SIPAHIOGLU // GEORGIA GALANTI inspired by DROME //
portfolio EUGEN LAITENBERGER - FAMILY ALBUM // DOLL PARTS // LORENZO MATTOTTI // L’AIRONE DALLA CORONA NERA / THE BLACK-CROWNED NIGHT HERON // A TRIBUTE TO H.C. ANDERSEN by Kimberley Ross // APPRENDERE LA MODA / LEARNING FASHION // FRONT // D SIGN // MAI MIYAKE inspired by DROME // ANDREA AYALA by Dobrila Denegri // CARNIVÀLE by Stefan Giftthaler

DROMELAND: TRACKLIST // FRESH INK // STRIP // KIOSQUE // DIGITALVIDEODROME // PRO FOUND //D TOUR //HIPPODROME //MEMENTO // SYNDROME
 
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Robin Rhode, tone Flag, 9 C-prints face-mounted with Plexiglas on aluminum panels, 12 x 18 inches each panel (30.48 x 45.72 cm)
courtesy of Perry Rubenstein Gallery, New York

Robin Rhode photographed by Albrecht Noack for DROME magazine

Dalle strade di Città del Capo ai più importanti musei del mondo, riuscendo a fondere fluidamente street art, film, fotografia, happening e disegno, per dar vita all’illusorio e all’impossibile. Benvenuti nel mondo di Robin Rhode

I giochi più semplici sono anche i più belli: regole facili, strumenti essenziali e un po’ di fantasia per completare il tutto. I bambini in questo sono campioni imbattibili: bastano un’ombra sul muro, una nuvola nel cielo, pochi oggetti quotidiani assemblati fra loro per dar vita a straordinari mondi immaginari. Molti artisti hanno inseguito questa prodigiosa capacità infantile; da Kandinskij a Mirò, da Klee a Picasso, è stato un tentativo continuo di imitazione, non tanto (o non solo) sul piano estetico e formale, ma soprattutto su quello emotivo e mentale.
Ed è proprio questa semplicità creativa e immaginativa che riesce a raggiungere magistralmente Robin Rhode, facendoci assistere ad uno spettacolo che ha tutte le carte in regola per ricordarci i giochi fatti dai bambini disegnando con il gessetto sull’asfalto nero. Ma le sue video-animazioni (certamente i suoi lavori più famosi, anche se non gli unici) non sono solo questo: sono anche un esplicito riferimento alla sua adolescenza da “colored” (termine usato in Sud Africa per indicare le persone di razza mista) oltre che, più in generale, dei richiami espliciti alla situazione politica e sociale del paese in cui è nato, il Sud Africa appunto, 34 anni fa.
Trasferitosi ormai a Berlino - pur lavorando con gallerie americane e inglesi - Rhode continua a realizzare mondi fantastici in cui la vita, come in un gioco, si risolve in una sequenza di immagini che ricordano i film muti delle origini o un certo tipo di animazione, in grado di creare scenari che stimolano la fantasia dello spettatore, ma che rimandano anche ad un sottotesto più articolato e drammatico: povertà urbana, libertà personali e cultura giovanile di strada. Un mondo semplice e complesso allo stesso tempo, che abbiamo cercato di farci raccontare, in attesa di scoprire alla Fiac, Canon, un suo video inedito presentato nella collettiva “Chambres à part IV”…

DROME: Quanto la tua infanzia in Sud Africa è stata fondamentale per il tuo lavoro? In che modo il contesto socio-politico ha influenzato la tua formazione? Riflettendo su un contesto più personale, che cosa ricordi dei giochi e del tuo mondo immaginario durante la tua infanzia africana? In qualche modo continua ad esercitare una certa influenza su te o sul tuo lavoro?
ROBIN RHODE: Sotto molti aspetti, le nostre esperienze infantili plasmano gli uomini che saremo domani. La situazione socio-politica in Sud Africa ha avuto un effetto deleterio sull’educazione, in quanto la maggior parte della popolazione non ha avuto la possibilità di accedere ad un livello superiore di educazione, o all’arte. Personalmente, non ricordo di aver vissuto numerose esperienze traumatiche durante la mia infanzia in Sud Africa, ho avuto un’infanzia fortunata e serena, e di questo devo ringraziare la mia famiglia. Eravamo lontani dalla dura realtà politica, i giochi e il divertimento erano all’ordine del giorno. I giochi di ruolo e la gestualità sono stati i veri protagonisti della mia infanzia. La gestualità, come anche il racconto di barzellette, si basava sull’aspetto performativo, solo in seguito, nella mia vita da adulto, ho capito che questi erano tutti meccanismi psicologici tipici di una società divisa da agitazioni politiche. In quei momenti la natura umana escogita dei mezzi creativi che diventano uno sfogo, una strategia per sopravvivere. In quanto parte di una generazione sud-africana definita gioventù post-apartheid, siamo stati piuttosto fortunati a poter ridere, divertirci, approfittare delle crescenti possibilità che seguirono la fine dell’apartheid, mentre la generazione precedente ha dovuto affrontare una realtà piena di incertezze e ferite psicologiche.

D: Quanto è importante, nelle tue opere, l’aspetto performativo rispetto al lavoro finale?
RR: L’aspetto performativo è importante in quanto la forma umana funziona di più come metafora dello spazio dove l’opera prende forma. Personalmente considero la forma umana come una complessa componente performativa in quanto riflette lo sviluppo della narrazione del disegno. La performance e la relazione fisica con il disegno, o ciò che io definisco “lo spazio del disegno”, è fondamentale affinché l’osservatore riesca a comprendere l’idea di fondo, non sempre nella sua interezza, e comunque ad accostarsi all’evocazione dell’opera. L’aspetto rappresentativo deve comunicare la condizione umana quotidiana, a volte esserne un’estensione, in altri esempi deve plasmarla come se fosse una sostanza malleabile nelle mani dell’osservatore.

D: Le tue opere sono una combinazione di realtà e finzione, tra oggetti reali e disegnati, presenze concrete e ombre dipinte… Come spieghi questa relazione?
RR: Quando si prende in considerazione l’unione di realtà e funzione, bisogna anche riflettere sulla relazione tra arte e realtà. La finzione potrebbe rappresentare l’esplorazione e l’espressione del mondo interiore personale in sintonia con i processi di frammentazione e individuazione di una realtà sociale. È sempre più difficile riuscire ad afferrare la nostra realtà, a causa della rapidità e intensità dei cambiamenti che investono la società e la cultura. Il senso di appartenenza e di solidarietà cresce rafforzato nella nostra realtà tormentata e confusa: fare arte oggi è come saltare senza una rete di protezione dentro la modernità contraddistinta da ombre (sempre più in aumento) colme di sorprese e di possibilità, che un tale salto implica.

D: Una delle cose che accomunano il gioco infantile verso l’arte adulta è, o dovrebbe essere, il piacere dell’esperienza creativa… ti diverti mentre lavori alle tue opere? Cosa ti piace di più del tuo lavoro?
RR: Mi diverto molto mentre lavoro. A volte può essere più piacevole e appagante anche osservare l’opera finale in tutta la sua interezza. Il motivo sta nel fatto che durante il processo creativo possono venir fuori nuove idee. Il processo creativo diventa un punto di riferimento per l’esperienza artistica, guidando quindi l’artista in una dimensione più profonda di possibilità concettuali, sia che si tratti della natura implicita del mezzo artistico o anche la percezione dell’io performante nel momento dell’atto creativo.

D: Uno dei tratti tipici dell’infanzia era la capacità che avevamo di inventare e creare interi mondi con ciò che avevamo a portata di mano: oggetti semplici che, come per magia, diventavano ciò che desideravamo. Usi materiali e tecnologie piuttosto semplici e, attraverso piccoli elementi, riesci a creare delle “situazioni” straordinarie. Quanto è importante per te la “semplicità”?
RR: L’elemento della semplicità, o piuttosto dell’essenzialità, diventa un processo di editing, di riduzione delle nostre stracariche esperienze emotive, fisiche e psicologiche. Cerco di non rendere eccessivamente complicato il mio processo creativo: più semplice il processo, migliore il risultato. Credo che la lotta interna al processo artistico sia di grande importanza: questo senso di leggerezza, concentrandoci sull’essenziale, ci offre una visione più chiara di dove e chi siamo, e della sfida che affrontiamo. Servirsi di ciò che è a portata di mano, per l’artista rappresenta una sfida a guardare più in profondità, a scavare alla ricerca di nuovi significati, a inventare ed esercitare la natura intuita del processo artistico.

D: L’infanzia è anche il momento delle aspettative incredibili, di un futuro pieno di possibilità. Quando eri bambino, cosa ti sarebbe piaciuto diventare?
RR: Ero attratto dall’avventura, pensavo che diventare un archeologo sarebbe stato interessante, scoprire e fare ricerche sul nostro mondo passato. Poi ho avuto in regalo un vecchio telescopio e così sono rimasto affascinato dall’astronomia. Volevo essere uno scopritore, qualcuno che avrebbe sfidato e scoperto nuove frontiere. Ero anche molto creativo e realizzavo spesso disegni o schizzi, ed è proprio qui che ho mostrato il mio talento. Non avevo altra scelta se non quella di prendere in considerazione il mondo creativo, ed ora, da uomo adulto, posso dire di non avere rimpianti.