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Inside Art Anno 8 Numero 76 maggio 2011



Alessandro Kokocinski

Maurizio Zuccari

L'Accademia della vita



The Living Art Magazine


SOMMARIO N. 76

Notizie
Mas, ad Anversa il museo dell’acqua di Giorgia Bernoni

Visto da
Oliviero Rainaldi, tutto scorre di Ornella Mazzola

In cartellone
Expo mondo di Simone Cosimi
Expo Italia di Camilla Mozzetti

Copertina
Fotografia, quale futuro? di Roberto Koch
L’altra vita della Fenice di Giorgia Bernoni
La memoria di niente di Giorgia Fiorio

Primo piano
Alessandro Kokocinski, l’accademia della vita di Maurizio Zuccari

Eventi & mostre
Lo Savio-Festa, analisi dell’incertezza di Freddy Paul Grunert
Roma: “The road”, torna la fiera del contemporaneo di Maria Luisa Prete
Torino: un’espressione geografica, l’unità delle differenze di Francesco Bonami
Catanzaro: Marca, la figurazione libera di Alberto Fiz

Musei & gallerie
Maga, così risorge la Gam di Valentina Cavera
“Atelier + guest”, casa e bottega di Camilla Mozzetti

Vernissage
Le inaugurazioni in Italia di Emma Martano

Indirizzi d’arte
Le esposizioni in Italia di Maria Luisa Prete e Silvia Ussia

Foto
Gli scatti da non perdere di Zoe Bellini
Il corpo come linguaggio, un fisico da scatto di Roberta Valtorta

Talenti
Dacia Manto, lirismo al microscopio di Giorgia Bernoni

Video
Gianfranco Pulitano, la vita straordinaria di Claudia Quintieri

Unpòporno
Pino Settanni, l’occhio del tentatore di Serena Savelli

Argomenti
Net & video: la tecnologia creativa brucia la storia di Lorenzo Taiuti

Mercato & mercanti
Faenza, i mecenati d’oggi di Marilisa Rizzitelli
Aste, l’Olanda a Vercelli di Elida Sergi
Jeff Koons, banalità milionarie di Stefano Cosenz

Mipiacenonmipiace
Il contesto ironico di Aldo Runfola

Formazione & lavoro
Reggio Calabria, la scommessa del sud di Mattia Marzo
Celeste, al supermarket dell’arte di Alessia Cervio

Letture & fumetti
Italia in opera, l’identità attraverso le arti di Bartolomeo Pietromarchi
Alessandro Mari, troppo umana (dis)peranza di Maurizio Zuccari
Pavel Sanaev: «Scrivere è un po’ come partorire» di Claudia Catalli
Chernobyl, il suono del silenzio di Checchino Antonini

Musica & visioni
Moby, scatti e suoni dall’Odissea del mondo di Simone Cosimi
Virgilio Sieni, dialoghi sull’uomo di Elena Mandolini
Giovanni Albanese, la creatività è fisiologica di Maria Letizia Bixio

L’opera benedetta
Deutsche bank, i martedì dell’arte di Benedetta Geronzi

Letture & fumetti
Italia in opera, l’identità attraverso le arti di Bartolomeo Pietromarchi
Alessandro Mari, troppo umana (dis)peranza di Maurizio Zuccari
Pavel Sanaev: «Scrivere è un po’ come partorire» di Claudia Catalli

Architettura
Maxxi, l’architettura in uno scatto di Camilla Mozzetti
Barcellona, città laboratorio di Francesco Talarico

Metropolis
Napoli: Romeo, manca solo Giulietta di Sophie Cnapelynck

Design & designer
Geo Ceccarelli, la curiosità rende liberi di Giulio Spacca
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Quattro cavalieri in cerca d’autore
Maurizio Zuccari
n. 92 dicembre 2012

Lunga vita alle pin up
Serena Savelli
n. 90 ottobre 2012

La modernità come distacco
Félix Duque
n. 89 settembre 2012

L'estate che verrà
Maria Luisa Prete
n. 88 luglio-agosto 2012

Cultura:un manifesto per ripartire
Maurizio Zuccari
n. 85 aprile 2012

Mastromatteo. Il paesaggio in superficie
Maria Luisa Prete
n. 83 febbraio 2012



Angeli caduti, pulcinelli e gesucristi: da una chiesa sconsacrata nel cuore dell’Etruria, il maestro che ha attraversato il ‘900 come in un romanzo combatte a colpi di luce i fantasmi dell’umano sentire, affidando alle sue opere un messaggio di fede e bellezza.

Se c’è una corrispondenza tra arte e vita, eccola. È nell’opera e nel vissuto di Alessandro Kokocinski. Nasce nelle terre leopardiane da padre polacco e madre russa, transfughi dai grandi sommovimenti del secolo breve e presi tra le maglie di quell’immane carnaio che fu la Seconda guerra mondiale. Cresce tra gli indios delle foreste amazzoniche e i saltimbanchi d’un circo equestre che gli danno un mestiere e l’amore per quello che sarà, in divenire. Attraversa i recenti drammi “made in Usa” del ‘900 latinoamericano, come la repressione del peronismo in Argentina e il golpe di Pinochet in Cile, quell’11 settembre 1973 che fu per decenni data cardine della storia e della sinistra, prima d’affogarsi nel calderone mediatico d’un altro 11 settembre. Poi scampa la pelle girovagando l’Europa, finché sbarca di nuovo a casa nostra e riscopre il Belpaese che gli ha dato i natali. Si commuove sotto le arcate del Colosseo, piglia casa a Tuscania, la Tuscena etrusca, dove trasforma una dimora vescovile in un palazzo da sogno, e apre bottega in una chiesa sconsacrata, ora consacrata alla sua arte. Di tutto questo peregrinare, di questa vita che è un romanzo, tele e fondali, angeli caduti e mascherone di creta, pulcinelli, generali e gesucristi stanno lì, alle pareti di San Biagio, a testimoniare con soave matericità l’insostenibile peso dell’essere, l’accademia della vita. Un’arte che si fa beffe del postmoderno e delle avanguardie, affonda a piene mani tra i grandi del passato e non – Ribera, Goya, Chagall, Bacon – per trarne fuori bellezza e dolore, un personalissimo codice con cui combattere a colpi di luce i neri fantasmi dell’umano sentire. Così, catastati alle pareti, prendono corpo il monumento per i “desaparecidos”, che sarà collocato nella piazza della città universitaria di Buenos Aires, ombre d’uomini sorvolati dall’angelo sghignazzante della morte, o il gruppo scultoreo dedicato a Giordano Bruno che sarà esposto a palazzo sant’Elia, a Palermo.

«Avevo iniziato con una donna, nel momento in cui la plasmavo ho cominciato a vedere la forma del filosofo. Questo trittico, con un grande quadro al fondo, rappresenta il rapporto con la terra e le stelle, il suo aspetto poetico. Ho scoperto questo lato fantastico del personaggio che trascendeva le cose terrene, per me è un esempio di vita».

Eccolo, un altro aspetto del suo essere e fare. Rifare, rompere e rimescolare le proprie opere, anche a rischio di perdere un committente, come qualche volta è capitato. Ed è un’emozione, la sua fucina d’arte, anche quando racconta il buio, specchio d’una storia grande e terribile, del paradiso e dell’inferno al suo interno, come lui stesso afferma. «La mia è una storia bella e sfortunata allo stesso tempo, dico sempre: sono il mio cielo e il mio inferno. Sono passati poco più di sessant’anni da quando sono nato, alla fine della Seconda guerra mondiale, ma sembrano secoli. E ai giovani quel cataclisma pare un film o un romanzo, non sanno cosa sia Auschwitz. La memoria è corta».

Madre russa e padre polacco, dall’Europa all’America e ritorno. Come andò?
«Mio padre resisté con l’esercito polacco all’invasione sovietica del ’39, i patrioti sopravvissuti furono deportati nei campi di lavoro della Siberia. Da lì finì in Africa dove combatté contro i tedeschi, sotto la bandiera inglese, poi a Montecassino. Con mia madre si conobbero subito dopo la guerra, dovette rapirla da un campo profughi perché non fosse riportata in Unione sovietica, diventando così un disertore, e dal loro incontro eccomi qua. Vagando per l’Italia riuscirono a imbarcarsi su una nave carretta per il Sudamerica, eravamo profughi come quelli di oggi, fu una traversata di due mesi con parecchi morti. A un anno mi sono ritrovato nelle foreste a nord dell’Argentina, i miei genitori cercavano dei coloni russi emigrati lì alla fine dell’800 ma si sono persi, siamo stati adottati da una tribù Guaranì. Per me era una meraviglia e una grande contraddizione, da un lato si viveva di quello che offriva la natura, in una vita comunitaria. Così non ho avuto modo di fare scuole classiche, però ero un analfabeta colto, non avevo visto un libro ma conoscevo la storia e la letteratura europea e russa. E non capivo cosa potesse esserci di là dalla foresta, i miei mi parlavano di grandi palazzi, del Rinascimento, dell’arte italiana, io pensavo che delirassero. Vivevo guardando le stelle, in questo mondo fantastico che ho sempre portato con me: con la poesia nel cuore, nella mente, nella vita. Ma l’arte ha sempre fatto parte della mia vita, mia madre era pittrice, mio nonno scenografo, anche la loro vita era dedicata all’arte. Poi, un giorno, i miei mi hanno affidato a un circo, per salvarmi. Non li ho rivisti per decenni. In Argentina militavo in un gruppo trotzkista, l’Erp. Sono arrivato in Cile nel ’69, giusto in tempo per le elezioni politiche vinte da Allende, a cui ho partecipato anima e corpo. In America ho avuto una grande fortuna, non solo perché sono rimasto vivo a differenza di tanti miei compagni, la vita mi ha dato molto più di quello che mi aspettavo e l’arte anche la possibilità di dimenticare, ma oggi faccio fatica a essere felice. Quella vita primitiva mi manca, in quegli anni infantili ho avuto un’impronta che mi rende difficile vivere in questa epoca contrassegnata dal consumismo. Come artista e testimone del mio tempo combatto il mercantilismo che condiziona in modo assurdo anche il campo dell’arte. Si guarda al successo e non all’emozione, che oggi fa molta paura. Ciò che emoziona spaventa, e questo lo trovo antiumano».

Dopo il golpe di Pinochet il ritorno in Italia, l’arte.
«Per fortuna mi trovavo in Europa già prima del golpe, facevo una mostra di disegni politici in Germania. Francia, Inghilterra, poi sono approdato in Italia, a Roma. Davanti al Colosseo ho pianto, perché non avrei mai pensato di poter camminare per le strade della Roma imperiale. Qui ho trovato grandi amici: Rafael Alberti che mi ha accolto come un figlio, Riccardo Tommasi Ferroni che mi ha introdotto alla grande arte italiana. Ho cominciato a copiare i grandi del Seicento, poi ho conosciuto Annigoni, Pasolini, Moravia, Levi, Calabria, Sughi. Una lista enorme. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno, dare e avere è quello che fa etica la vita. Certo, oggi i giovani si trovano in una situazione più difficile, di maggiore incertezza, allora c’era più progettualità, un futuro possibile. È un momento drammatico da un punto di vista umano e politico, c’è una regressione alla meschinità, alla volgarità. L’uomo si è allontanato da sé stesso, da Dio, non come religione ma come idea del confronto con qualcosa di straordinario. E l’arte vola molto bassa perché è condizionata dal vile metallo, dal mercato organizzato da personaggi che guardano solo al profitto. Tutto ciò mi dà paradossalmente forza, fa sì che continui a combattere attraverso la mia arte».

Claudio Strinati, tra i critici che si sono occupati di te, ha detto che i tuoi personaggi tormentati sono lo specchio di certa condizione umana.
«Beh, sì, ho avuto una vita non facile, ho visto la morte negli occhi, dunque il dramma fa parte di me, il chiaroscuro è una conditio sine qua non della mia esistenza».

Per Vittorio Sgarbi sei un ateo capace di rappresentare lo spirito religioso. Il tuo rapporto con la fede?
«Non sono ateo di sicuro, né praticante. La religione ha tante case, Dio una sola. Come artista devo avere fede per realizzare un’opera che trascenda l’aspetto umano, nel momento creativo la fede è un elemento indispensabile. Non potrei farne a meno».

Ancora, secondo Philippe Daverio nelle tue opere scopri il rito e ridai vita al mito.
«Sono il prodotto di una storia che amo, della grande mitologia dell’uomo che parla con il cosmo, ha viaggiato con l’anima. Per questo ho scelto l’Italia, il paese con il patrimonio artistico più grande del mondo. Non a caso vivo a Tuscania, dove l’uomo ha saputo coniugare l’aspetto architettonico al paesaggio senza aggredirlo. Vivo qua perché ho bisogno di bellezza, sarebbe impossibile stare in un’altra parte del mondo. La bellezza è così importante nell’arte perché l’arte aiuta a vivere».

Oltre la bellezza, lo stile e il messaggio.
«Ho imboccato la strade della classicità, fatta di tele e pennelli, dalla Magna Grecia al Seicento in cui mi riconosco. Ho deciso di rispettare la storia della memoria come ricchezza, non come le avanguardie che hanno cercato di distruggere la bellezza. Continuare a fare arte è complicato, non so dove andare, non credo di avere un messaggio, faccio quello che sento col cuore, con l’emozione, poi è lo spettatore a giudicare».

Una doppia personale a Roma, alle gallerie Spazio 120 e Purificato. Che presenti, su cosa lavori?
«Non faccio progetti, alle volte vengo nello studio e non so che farò, quando sono qui le mie idee mutano, si convertono. Comincio dipingendo un soggetto e finisco facendo altro, non credo sia una ricerca stilistica o di linguaggio, è solo interna, essere o non essere. Domandarmi chi sono, questa è la mia preoccupazione. Certo, il mio lavoro sfocia in un messaggio o in un linguaggio, ma la mia preoccupazione è sapere cos’è la mia anima, la mia bellezza, il mio paradiso e il mio inferno, come ripeto sempre. Dunque lascio alla giornata, al sentimento, alla provvidenza di condizionare e muovere il mio essere per plasmare le paure e le fantasie, le cose belle in qualcosa di tangibile che può essere una tela, o la scultura che ho scoperto da poco. In uno dei miei viaggi sono stato in Cambogia, con un gruppo di studio sui templi buddisti, e lì mi sono trovato “frente a frente” con la scultura khmer. Ho avuto una grande folgorazione, come san Paolo sulla via di Damasco. Mi è rimasto il desiderio di plasmare la materia con le mani. Poi ho scoperto, qui a Tuscania, la creta, materia nobile a cui mi sono dedicato anima e corpo».

Anche senza un progetto c’è una nuova frontiera, parafrasando Kennedy: il video, il cinema.
«Sono in qualche modo uomo di teatro, nasco come scenografo in Argentina, a Buenos Aires un giovane regista, Marco Bechis, quello di Garage Olimpo, mi ha proposto un cortometraggio sulla mia opera e la vita avventurosa vissuta in America Latina, compresa quella fatta da circense. Le discipline artistiche sono varie, il circo è una di quelle che si è evoluta senza allontanarsi da sé stessa, non ha rotto né dissacrato le sue origini, la sua memoria. Mantenendo il rigore non è rimasto quello di un tempo, vedi il “Cirque du soleil”. Nel circo non si può bluffare come nell’arte contemporanea, dove uno si alza e può dirsi artista. È importante elevarsi attraverso l’intelletto, sviluppare il proprio talento. Invece si fa di tutto per abolire la capacità di trasmettere l’amore per la vita. Quello creativo è un momento molto bello, fluttuante tra la conoscenza e il mistero, l’ispirazione. Non capita tutti i giorni ma quando succede è bello».

Per cosa vorresti essere ricordato?
«Per uno che sapeva fare il suo mestiere, scolpire e dipingere bene è importantissimo. Se poi riesco a farlo comunicando emozioni, tanto meglio».


LE MOSTRE
Tra sacro e profano

Doppia personale per Alessandro Kokocinski e Paola Princivalli Conti alla galleria Spazio 120 di Roma. Tra sacro e profano, questo il titolo della mostra, intende indagare il significato profondo dell’arte, il suo ruolo sociale e al contempo mistico. Simbolismo e poetica allegorica sono motivi insiti nell’opera dei due artisti, sviluppati però con tecniche e visioni opposte. Di Kokocinski sono presenti, oltre al grande dipinto Prometeo, già esposto a palazzo Venezia, carte, sculture e tele in gran parte inedite.

Il cielo celato
Ancora a maggio Alessandro Kokocinski presenta, sempre a Roma, una rassegna dei lavori recenti, circa 40 opere, alla galleria 20 Artspace. Il cielo celato, titolo della mostra, esprime l’aspirazione verso il sublime che raggiunge negli ultimi lavori un elevato livello di consapevolezza e di maturità. L’installazione La scala di Giacobbe, sei pannelli formati dalle figure angeliche, otto sculture mostrano l’aspetto ascensionale dell’esposizione, mentre i venticinque dipinti rappresentanti clown, equilibristi, Arlecchini e Pulcinelli costituiscono il blocco terragno, il magma da cui trae slancio e sostanza la rappresentazione.