Con-fine (2007-2013) Anno 6 Numero 25 estate 2012
Apparentemente il silenzio dovrebbe essere pura assenza di suoni e rumori. Una parentesi tra brusii, parole, note e segnali acustici di vita. Come se tutto fosse naturalmente sospeso in un primordiale stato di neutralità. Invece le cose non stanno così. Il silenzio è tutt’altro che una condizione di partenza sulla quale si innestano poi le sonorità del quotidiano. Il silenzio è il momento terminale di una lunga lavorazione, la mèta di un sacrificio inteso nel senso di rinuncia volontaria all’emissione acustica, incredibilmente difficile da perseguire e da ottenere. E’ necessario un lungo e faticoso lavoro di depurazione, di sottrazione, di immobilizzazione. E comunque non sempre il risultato è il silenzio, anzi, il più delle volte è una sua mediocre approssimazione. Il silenzio è piena assenza, non povera presenza. Non pare sufficiente dire ‘stare in silenzio’ dato che questa proposizione si limita al divieto di parlare. Bisogna pensare più ad un ‘fare silenzio’ dove non solo non vi sono discorsi in atto ma anche dove l’ambiente circostante deve percettibilmente divenire insonorizzato.
Apparentemente il silenzio dovrebbe anche corrispondere ad una mancanza di contenuti. Se nell’eliminazione progressiva di atti sonori vediamo un’espressione del silenzio, nella abolizione di un messaggio possiamo generare un silenzio semantico Ma è davvero possibile costruire un silenzio di significati? Non è piuttosto vero che ogni cosa ha senso, silenzi compresi? E inoltre, non è che alcuni tipi di silenzio consentono la costituzione di un dialogo, di uno scambio? Nei casi in cui la comunicazione viene sospesa, per mancanza di codici condivisibili o per cause esterne, il silenzio è un problema comunicativo, di relazione, di scambio. La reciprocità del dialogo si avvale di molti linguaggi, di appropriati codici e, nelle lacune tra essi, si può formare una bolla di silenzio che semplicemente non è altro che assenza di veicolo comunicativo, arresto del dispositivo relazionale.
Ci sono silenzi cromatici, silenzi grafici, silenzi gestuali. E l’arte è un bacino particolarmente fertile per l’emergere di forme di silenzio inattese. Tra i più celebri e immediati esempi che si possono trovare nell’arte contemporanea, la ricerca del silenzio -in una particolarissima accezione- è sfociata nelle cancellature di Emilio Isgrò. La Costituzione Cancellata, realizzata nel 2010 in occasione della sua personale a Verona, Isgrò non solo tappa la bocca alla Costituzione Italiana ma afferma il diritto di ciascuno, artista in primis, di attivarsi alla ricerca di un significato diverso delle cose anche mediante l’imposizione di un silenzio, in questo caso, solo apparentemente tipografico. In passato scultori e pittori d’ogni tempo hanno elogiato il silenzio attraverso la sua personificazione come nel dio greco Arpocrate o nella dea romana Angerona, ma, a partire dalla referenzialità dell’ eloquente gesto di posare l’indice sulle labbra, tutt’altro che silenziose erano quelle opere. Proseguendo in quella che potrebbe essere davvero un’interessantissima storia dell’arte costruita sul fil rouge del silenzio, le epoche meno antiche videro artisti di corte che generavano silenzi nei campi non protagonisti delle loro opere pittoriche. Erano silenzi visivi che consentivano l’isolamento della scena principale, del soggetto ritratto, per esaltarne lineamenti, potere, regalità come nei ritratti in cui lo sfondo di colore neutro lasciava spazio solo per la voce del soggetto immortalato. Oppure costruivano il silenzio, ne restituivano l’idea, presentando scenari naturali, immacolati sotto il profilo acustico. Si tratta di silenzi che ovviamente rispecchiano il desiderio di non-interferenza tra gli elementi del dipinto e, tornando ad oggi, sono silenzi che ancora funzionano come campiture sulle quali nessuna interpretazione può radicare riferimenti alla realtà sonora. Si pensi ai monocromi di Malevic o Rauschenberg o ai tagli di Fontana eseguiti su tele bianche o nere o rosse, per citare i casi più eclatanti. Sono particolari occorrenze di silenzi molto diversi tra loro e che si comportano in maniera autonoma rispetto al brusio del corpus di opere nel loro insieme.
Di fronte a un’opera di Mark Rothko, “Magenta, Black, Green on Orange”, del 1949 si possono ipotizzare due tipi di silenzio: quello proprio dell’ambiente circostante necessario alla lettura dell’opera –si potrebbe ascoltare questo quadro nel brusio o nel frastuono?- e quello dell’astrattismo non come opposizione formale alla narratività di una immagine, anzi, ma come magnificenza cromatica che, estesa, dilatata, uniforme e piena, è una vera forma di silenzio visivo. Quale quella che si può trovare in ambienti immensi e incontaminati come lo sono il cosmo o i fondali marini.
Ma una vera e propria attivazione linguistica del silenzio parte ineluttabilmente dagli spazi vuoti, sia visivi che sonori, necessari alla comprensione di ogni linguaggio. Il silenzio grafico che si frappone tra una parola e un’altra ci consente di leggere. Sarebbe davvero ardua impresa quella di leggere un intero romanzo se tra le singole parole non ci fosse uno spazio che ci indica dove finisce un termine e dove ne inizia un altro. Sono vuoti che permettono la comprensione del testo e che stabiliscono ritmi e pause. Anche nel linguaggio verbale vi sono dei brevissimi intervalli tra una pronuncia e quella successiva. Per costituirsi come sistema significante, il linguaggio necessita di momenti vuoti. Anche se questi sono ridotti a frazioni infinitesimali di isole tra due suoni o a millimetri di carta bianca tra due lettere nere. A partire da questa minuscola eppure fondamentale esistenza, il silenzio diventa a poco a poco artisticamente autonomo e diviene protagonista con John Cage e il celebre 4’ 33’’ del 1952 che tanto scalpore suscitò negli ambienti più restii alla sperimentazione musicale in quanto si trattava più di un’opera teatrale che di una composizione tout court. Un brano, la cui durata è stata assolutamente determinata dal caso e che innalzò a primo attore l’assenza di suoni, lo svuotamento dalle note, la sottrazione di ogni eco acustica. Coltivare la poetica del silenzio, a metà dello scorso secolo, non è stato solo un esercizio da musicisti. George Steiner pubblicò nel 1961 La fuga della parola e nel 1965Il silenzio e il poeta due saggi sui confini tra il dicibile e l’indicibile, tra la presenza e l’assenza, nelle diverse accezioni che il termine può acquisire in relazione al linguaggio. “Il silenzio è un’alternativa. Quando nella polis le parole sono colme di barbarie e menzogne, niente parla più forte della poesia non scritta” .
Silenzio inteso dunque come assenza di un messaggio da trasmettere. Rifiuto di un codice da usare. Come arresto di una fluidità comunicativa. Come isola tra due rumori, tra due atti di linguaggio: siano essi emissioni acustiche, siano gesti, siano, appunto, cromatismi. La sottrazione all’opera di un segno leggibile, di un contenuto, sono le basi teoriche sulle quali ad esempio Robert Rauschenberg propose i suoi monocromi degli anni Cinquanta. Grandi tele che avevano l’unico scopo di riflettere la luce dell’ambiente circostante e che nulla volevano dire se non, in uno specchio diafano, ciò che già c’era. Un forma visiva di logoclastia la sua, applicabile a tutti i tipi di linguaggio nel momento della sospensione, nella negazione di una qualunque attività. Ma anch’egli forse ha raggiunto una estrema forma di ‘sottovoce’, prossima al silenzio ma non tale. Giunti fin qui, siamo pervenuti all’ unico grande obiettivo: la parola silenzio non corrisponde a nulla di reale. Il silenzio totale non esiste, il silenzio assoluto è impossibile da creare anche all’interno delle più ardite sperimentazioni scientifiche. E’ sempre in rapporto a qualcos’altro che si può affermare l’esistenza di un certo silenzio, una parvenza di mancanza di suono o di messaggio. Silenzio è ciò che viene prima di ogni suono e ciò che lo segue inesorabilmente. E’ ciò che ne determina la durata e il senso, il ritmo e la pregnanza. Una pausa silente rende forti le note che ne scaturiranno, scandisce il tempo di una sentenza, esalta il senso delle parole che verranno pronunciate. L’unico approdo concettuale che ora persiste sta nel fatto che, pur non esistendo, il silenzio ha il diritto di essere ascoltato.