Con-fine (2007-2013) Anno 4 Numero 16 dicembre 2009 - febbraio 2010
Anni fa (Biennale 2007), mentre passeggiavo fra le calli veneziane, mi imbattei in un palazzo che aveva la facciata completamente rivestita da uno strano tessuto dai colori sgargianti e brillanti di tonalità rosse e oro e dalla consistenza particolare, abbastanza morbido da adagiarsi delicatamente sul palazzo, ma nello stesso tempo rigido, tanto da mantenere una propria particolare consistenza.
L’effetto generale era decisamente piacevole, in quanto, essendo una bella giornata estiva, il tessuto luccicava sotto il sole, irradiando dei propri magici colori tutta la piazzetta antistante il palazzo. Sembrava un enorme mantello regale o un modernissimo piviale, un oggetto, insomma, degno di decorare e rivestire la sontuosa reggia di un personaggio illustre e potente.
Avvicinandomi, tuttavia, notavo che non si trattava di un vero e proprio tessuto, ma di un sapiente e raffinato assemblaggio di piccoli oggetti, che – ad un’osservazione più attenta – ho riconosciuto benissimo, ma sulla cui valenza estetica non avevo mai riflettuto. Il tessuto, infatti, era realizzato attraverso una raffinatissima trame di tappi a corona di bottiglie, schiacciati, appiattiti e ricuciti insieme con del filo di metallo.
L’autore è un artista ghanese, Brahim El Anatsui (Ghana, 1944) che da anni realizza opere al confine fra arte ed artigianato utilizzando materiali di recupero, prima legno e argilla, e ultimamente scarti di prodotti industriali, come tappi ed etichette colorate.
L’eccezionalità delle sue opere sta proprio nel triplo spiazzamento mentale, temporale e culturale che crea agli occhi del pubblico, soprattutto se occidentale. L’inganno visivo iniziale – i tessuti sono volutamente così grandi che esigono, prima di tutto, di essere visti da lontano (come ‘antichi’ arazzi su pareti o festosi panneggi su regali dimore) – illude l’osservatore di trovarsi di fronte ad un’antica opera destinata ad un notabile e rimane spiazzato – e forse anche po’ deluso – quando si accorge che il suo splendore apparente è dovuto al luccichio di scarti urbani. La nostra società consumistica, che già fatica a riciclare regolarmente i propri rifiuti, mal tollera di trovarseli di fronte anche in una galleria d’arte, e soprattutto di dovere apprezzare l’intrinseco valore estetico di un oggetto decisamente contemporaneo, ma realizzato con un’antichissima e nobilissima arte. Lo spiazzamento risulta ancora maggiore, infine, quando l’occidentale constata che si tratta di un artista africano: la nostra conoscenza di questo continente è ancora talmente superficiale e soprattutto ingenua e romantica, che a stento ammettiamo la possibilità che qualcuno abbia deciso di declinare la propria genuina e sana tradizione ‘tribale’ in arte di riciclo di prodotti considerati consumisti per eccellenza.
Il riferimento diretto, invece, per le opere di El Anatsui non possono non essere i tessuti Kente, usati in Africa Occidentale, ed in particolare in Ghana, per realizzare toghe a strisce larghe da avvolgere intorno al corpo o da appoggiare sulla spalla sinistra durante particolari cerimonie religiose. La loro peculiarità – oltre una complicata tecnica di tessitura – è la presenza di ricami che riportano e tramandano, spesso attraverso motti o proverbi, la storia della famiglia, il ruolo, il rango sociale della persona che indossa l’abito. El Anatsui recupera e rinnova, come fa da sempre, un’antica tradizione, la tessitura, elevandola dal piano tribale a quello universale. Solitamente riservata agli uomini, questa antica pratica condensa in sé, simbolicamente, storia, tempo e reminescenze culturali e individuali. Ancora oggi, infatti, in Africa Occidentale, il bambino piccolo - nudo ed infante - non appartiene al mondo degli uomini, se non quando avrà ricevuto in dono un filo di cotone come segno del legame che lo unisce al mondo degli esseri umani. Crescendo riceverà poi dei frammenti di tessuto che prenderanno progressivamente posto sul suo corpo. Questo primo abito definisce il suo nuovo status di individuo che diventerà presto adulto: il tessuto rappresenta, pertanto, il prolungamento del suo corpo e viene concepito come "l'altro" della persona.
Allo stesso modo i Kentedi El Anatsui vengono ‘indossati’ dal mondo che in questo modo ci parla di sé, attraverso l’utilizzo, la distruzione ed il riutilizzo di materiali che ne costituiscono, a ben pensare, la sostanza. I ricami e motti tradizionali sono sostituiti dagli oggetti recuperati, che costituiscono, in ultima analisi, la metafora della vita stessa dell’uomo e della società capitalista. Il fatto, inoltre, che l’estensione dei tessuti occupi pesantemente e condizioni in modo inequivocabile l’ambiente che li ospita, innalza l’esperienza visiva da un piano storico e temporale ad uno metastorico ed universale.
Il significato, infine, di queste opere diventa ancora più potente – ed inquietante – se si ripensa alla storia coloniale del Ghana.. Conosciuta come “Costa d’oro degli europei” per i secolari contatti con il nostro continente, questo paese nel 1957 fu il primo era ad ottenere l’indipendenza dall’Impero Britannico e ad avviare un consapevole processo di modernizzazione.
Le opere di El Anatsui probabilmente sono anche la testimonianza della fusione e compenetrazione fra questi due mondi e culture diverse: i risultati materiali sono sotto occhi di tutti, le conseguenze sociali, artistiche e culturali devono essere, invece, ancora attentamente valutate.