Con-fine (2007-2013) Anno 4 Numero 15 settembre-novembre 2009
Una tattica spesso vincente nella pittura contemporanea è di ricorrere alla proprietà corrosiva dell’immagine lasciando defluire tutta la pregnanza del senso in sottile concretezza, quando lo spazio circostante è invaso da un punk assordante e ogni definizione realistica diventa allucinatoria. Forse si tratta di una eversione che si fa sempre più ambivalente, e il controllo sul punto di vista di uno spettatore più fisso dell’opera stessa non vuole assecondare la superficialità del gusto, ma far compiere un viaggio sofisticato all’interno dei nuovi parametri culturali e conoscitivi della società, del mondo inteso come centro instabile dell’osservazione più germinante e plurale possibile. Nell’ultima decade così l’avvicinamento alle ragioni dell’extra-sensoriale e dello psichedelico scenario si sono imposte insieme alle più pure, scarnificate, dissacranti visioni della storia o della politica. È innegabile che guardare tutto chiaramente, come nella Visio dei di Dante, vuol dire vedere contemporaneamente e con una intersecazione percettiva e visivamente incongrua, da accecamento/rivelamento che porta al conflitto. Così anche le formule pittoriche più recenti hanno questo risvolto sempre teso non tanto alla metafisica quanto alla potenzialità virtuale e aleatoria che vuole rappresentare il decorso della memoria, dell’onirico, e del vero in un ampio rizoma mobile.
La “chiarificazione” a cui conduce Miriam Vlaming tramite il suo atteggiamento di opposizione, fissa lo sguardo della normalità con la descrizione di ciò che sorpassa l’immanenza, e riesce a riflettere la dimensione del quotidiano in qualcosa di totale, assolutizzato nella forma. La cognizione dell’ambiente attorno nelle sue opere è contaminata a interstizi che la avviluppano, le figure trascinate al limite dell’astratto si fanno assorbire dal contesto e nelle sue ramificazioni naturali e ultrasensoriali. La pittrice cerca di tracciare una ricerca dell’umano proiettandolo sulla epifania filosofica di un’impossibile memoria, ricalibrando l’equilibrio e l’osservazione dei fatti assorbiti nella forma che la storia e la psiche hanno prodotto. Poiché il prezzo di ogni perfezione evolutiva, quella civilizzazione e globalizzazione compiute hanno il loro rovescio in una morte e in una marginalizzazione tanto prevaricanti quanto visionarie, ma di certo bisogna leggere questo come una analisi che amplia il concetto di progresso in senso filosofico e non lo rifiuta in modo reazionario e utopistico. Lo scopo di Vlaming è in realtà portare alla luce l’invisibile. Tutto ciò che è casa, ambiente attorno ad un’unità esistenziale si estende oltre i confini contingenti per avvicinarsi al dramma della molteplicità e quel dramma che entra nell’ottica comune la dilata, ne scuote gli argini fino a sciogliere la sua credibilità, convertendo l’immobilità degli atti nella marcescenza trasparente dell’altrove.
L’immagine crea un passaggio di livello, dalla raffigurazione alla distorsione e la cognizione diventa intuito, la narrazione enigma. Ciò che agisce nelle immagini è sempre interpolato dal bisogno concettuale di oltrepassare la consistenza, ma essendo consistenza che si fonde poiché il margine di necessità è perfettamente proporzionale alla soglia muta dove il peso dell’umano crea la distrazione necessaria per sopportare quel peso stesso, il suo dolore. Anselm Kiefer è il pittore della tragedia invisibile, che a scavare nella natura degenerativa della realtà giunge alla sublimazione di una lebbra che genera forma. Miriam Vlaming proviene da un percorso similare, realizza la frontalità del problema scorrendo le ritualità pragmatiche dell’esistenza sotto la pellicola vibrante e lucida di una grammatica priva di tatto, consumata e consumante senza censura.
Ma la tragedia per lei non è raccolta sotto i colpi della mannaia, piuttosto nello svolgersi concreto di un intervallo regolare e impercettibile dell’inquietudine e del segno. Tutto l’immaginario figurativo che si avvicenda sotto la pioggia inderogabile del tempo storico è uno slittamento sensoriale. Sono immagini asintomatiche del deliquio di cui fanno parte, e vettore di ciò che è senso eppure liquefazione della realtà. Ma l’iconografia dei reietti o dei minori non si realizza nel pietismo inutile, piuttosto tende a proiettare un orgoglio dei referenti siano essi animati o oggettuali, nella potenza visiva di una denudazione: nessun affresco generale dell’umanità dolente, ma la focalizzazione degli individui nella loro unità inferma imprescindibile.
Miriam Vlaming si è formata alla Leipzig school of painting dove è stata allieva di Arno Rink, con l’assistente e noto pittore contemporaneo Neo Rauch, e ha sviluppato di certo la sua carriera come una fra le più brillanti dell’ultima decade, mettendo anche a frutto il rapporto particolare col suo maestro e i suoi studi di sociologia e di psicologia, grazie ai quali come dichiara ha indagato la natura umana a lei vicina, e con questa definizione intendiamo quale è il senso che le immagini producono nella loro assunzione di una responsabilità precisa. Ultimamente la scelta dei suoi luoghi ruota intorno ai carceri, gli ospedali, ma anche le case, come luoghi della nostra reclusione inapparente, dove la preminenza dello spazio circostante è al contempo ambiente e confine ed è esperienza totale e brutale della propria cognizione al centro della percezione. L’erosione di ogni atmosfera rivela il sostrato visivo facendo compenetrare l’atto osservativo con quello di un realismo scabro, puntato sulla vicinanza dei soggetti alla personalità dell’artista. Le orme dell’umano restano mutate perché sottendono a una transitorietà preziosa nel loro risvolto virtuale, ma nate da un’immersione totale nel vero. È capacità di attraversamento lo sguardo di Vlaming, è un ubiquità neutra, senza temere il rischio di paragonarsi allo sguardo divino o paradisiaco, tende a farsi compresenza della memoria e del futuro.
La biografia dell’artista tende a mescolarsi alla sua analisi distaccata e strategica, infatti il debito con la madre anch’essa artista e con il retaggio di una seconda guerra mondiale di cui la Germania, la sua patria, serba in maniera offuscata, si sommano nella ricostruzione compositiva dello stato esistenziale. Il controllo a cui si vuole sottoporre le immagini nasce da quell’urgenza di sicurezza propria di chi esce da un conflitto e ricerca anche nella economia la propria redenzione, mentre come rileva Umberto Galimberti oggi il capitalismo ha ormai gettato la maschera e rivelato il proprio fallimento, invisibile perchè appartiene alla maggioranza dei “minori”. C’è questo cambio di prospettiva e ruoli che esplora la follia in tali opere che poi sono anarchiche nella loro parte che riflette e comunica con chi sta dall’altra parte, pilotando la fruizione in senso sociologico. La figurazione è calibrata emotivamente come fosse una tattica, c’è un’economia dell’immagine perfettamente calibrata sull’emotività necessaria che fornisce il contesto.
Pittoricamente il problema centrale rimane quello della fluidità comunicativa, quando la dissimulazione del messaggio diventa descrizione dell’inconscio più nero e impalpabile e il suo spazio psichedelico lo trasforma in scioglimento dell’identità primaria, però riconducendolo a una identità contigua a fenomeni rilevanti.
L’influenza di certo espressionismo tedesco, come anche la dominante di Kippenberger si risentono molto nel prospetto stilistico e soprattutto concettuale delle scelte pittoriche, in parte si nota l’affinità compulsiva del colore con Neo Rauch, il debito con Kiefer come dicevamo e nasce anche naturale la similitudine con lo straordinario pittore rumeno Vicotr Man. Come in Man la possibilità di negoziare lo spazio dell’osservatore e di mescolare i ruoli semantici, il problema della contiguità delle immagini e della loro infranta consequenzialità - che poi diventerà anche ossimoricamente omogeneità complessiva - si avverte forte, anche se sono diversi i presupposti teorici probabilmente da cui muovono i due pittori ed è interessante notare come nella pittura contemporanea il rimpossessarsi di strade comuni e multilateralità di visioni diventi un caleidoscopio che risucchia lo sguardo verso la naturalezza e la verità dell’umano.
Il lato oscuro della civilizzazione è il pretesto, l’inganno fornito alla mente per accettare una verità umana e iconografica distorte oltre ogni buon senso ipocrita e attenzione. Si utilizza la soggettività esterna all’opera per solcare la scena e sfrangiarla con il fiele di una luce esistenziale nordica e radente. Ma si ingloba anche una prassi per attivare il sublime dell’opera in senso estetico e fenomenico. Sono fenomeni ultra-sensoriali e fantastici quelli che avvengono nelle ritualità dei giardini maledetti come se l’Hortus conclusus si fosse spalancato in infinito temporale e digitalizzato, in grado di restituire la trasparenza e la profondità senza perdere di vista l’umiltà del punto di vista che pure dal basso è in grado di instillare la schizofrenia di una pulsionalità doppia. Ed è pulsionale oltre che asfittico l’attraversamento dello spazio attraverso le figure saturate che si oppongono alla quotidianità essendo involte nella routine e nel languore robotico. Ma anche l’idea di routine è extra-ordinaria, come quella del soldato immobile che posa per un obbiettivo privato di soggettività e che lo trascina in una dimensione alternativa di alienazione.
Tuttavia un’impronta da designer contribuisce a una spersonalizzazione dell’immagine che assume la connotazione tutta nuova di fornire tracce interiori ed evocative, come se lo studio della presentazione fornisse la decodificazione per raggiungere l’anima, il centro esatto della natura sostanziale delle donne che lavorano in cucina, o di una domus più vicina a un progetto per film Horror che è al contempo superficie slittante e ripetitiva di uno stato presente come moto psichico irrevocabile e vivo. L’opera della Vlaming è il corrispettivo antropologico di ogni potenza rutilante visiva che si fa ragione e radice del presente, contro ciò che si fa contenitore e complice di un progresso visibile, ma sempre più per pochi e per questo più cieco e labile che mai.