Titolo Anno 24 Numero 68 inverno-primavera 2014
E che sia pittura…
GB: Cominciamo, per riprendere un elemento della retorica scolastica, da una quaestio, che consiste nello stabilire se è possibile “classificare” gli artisti per generi o stili. Mi spiego: le classificazioni, o tassonomie, sono utilissime nelle esposizioni, anche se sono sempre o troppo ampie o troppo ristrette, così tu sei sempre stato inserito, fin dagli anni Settanta, nella corrente della “pittura analitica”, e con qualche ragione, sebbene a ben vedere, per esempio, tra te, Claudio Verna e Pino Pinelli – per restare a questi tre “analitici” – non vedo grandi affinità nella vostra pratica pittorica, né trent’anni fa né ora. Io stesso, avendo studiato per anni e curato varie mostre sull’argomento, ora ho qualche dubbio sulla possibilità di parlare correttamente di un “gruppo” strutturalmente e concettualmente definibile, invece definito solo per il fatto che gli artisti sono esposti insieme; del resto lo stesso discorso mi sembra sia valido anche per gli altri “gruppi”, quali l’“arte povera” in cui Paolini mi sembra fuori luogo oppure la “transavanguardia” nella quale non vedo cosa c’entri De Maria…
CO: La definizione “analitica” è finita per diventare solo un contenitore, uno schema definitorio che accosta cose molto diverse sia come origine sia come svolgimento del linguaggio. È proprio ciò di cui dovremmo liberarci perché la lettura del lavoro non venga schematizzata, imprigionata dalla sua definizione. Ma è il grande problema di tutti i linguaggi nel loro autodefinirsi: l’appartenenza prima di tutto, per essere classificati e autorizzati ad “esserci”, poi, forse, il senso…
GB: Ecco, tu pratichi la pittura. Come ho detto in altre occasioni, nei tuoi lavori non c’è quell’algidità matematica propria dell’analisi, in te c’è emotività, finanche “passione”; certamente ordinata dalla composizione che con la luce e il colore produce effetti affascinanti e coinvolgenti. Sulle tele appaiono una sorta di immagini vorticose di fumi o vapori, quasi delle fiamme, ma anche di liquide colature, e poi il movimento della luce e dei colori, soprattutto nelle opere degli ultimi anni, provoca – con un inconscio desiderio di “figura”, o con un senso di colpa per l’aniconicità? – quasi delle immagini antropomorfe…
CO: Tento non di “somigliare”a qualcosa ma di indurre a vedere pur in questa assenza, che non
deve essere il rimpianto di un soggetto ma l’estensione a ciò che è percepibile, al compiersi di una possibile visione senza obblighi referenziali. Soprattutto non vorrei somigliare all’arte, alle convenzioni spacciate come avanguardia.
GB: Ebbene, qui debbo toccare una nota dolente della contemporaneità, non perché predichi un “ritorno all’ordine” né ad una tradizione estetica eccezionale ma “passata”, “superata” – non solo cronologicamente, ma nel senso che Hegel dava al concetto dialettico di “superamento” cioè “togliere e conservare” – che sarebbe sciocco riproporre (pensa ai risultati della “pittura colta”!), ma perché in nome della concettualità, da un po’ di tempo, si abolisce, allontanandola come fosse una pratica satanica, la capacità tecnica della pittura.
Oggi siamo circondati da tanti giovani, e meno giovani, “pittori” che non conoscono le regole della pittura; nelle Accademie spesso i docenti di pittura fanno lezione con le parole, cioè insegnano “pittura parlata”…
CO: Forse è solo una mia sensazione ma penso che la gabbia delle referenzialità, abbia finito per delimitare l’arte, a rendere ogni pretesa novità qualcosa di ripetitivo, che ripercorre le proprie tracce quando non le proprie rovine.
Certo non basta scegliere una tradizione tecnica come la pittura ma non credo negli espedienti che sembrano sapere già tutto di se stessi, che non fanno che ricalcare le proprie consapevolezze, rispecchiarsi nelle proprie intenzioni.
Riguardo alle Accademie penso che nessuna autorità sappia di cosa si tratta, e a questo proposito ci sarebbero troppe cose da dire. Per l’insegnamento credo di poter dire che non si tratta solo di dati tecnici ma si debba tentare di liberare l’immaginazione, di inoltrarsi in ciò che appare indefinibile, di guardarsi dalle scorciatoie, da ciò che appare più facile.
E questo può fare la pittura coi suoi gesti che suscitano pensieri e parole che servono se non sono definizioni o dogmi.
GB: Infine, dato che tu sei un artista “lucido”, cioè attento a tutti gli aspetti del sistema dell’arte, da quelli estetici a quelli sociologici, da quelli tecnici a quelli politici, vorrei conoscere il tuo parere sull’attuale situazione globalizzata che vede decine di artisti sconosciuti – molti cinesi che hanno sì una millenaria tradizione artistica, ma non certo nell’arte visiva come si è sviluppata dalle avanguardie storiche in poi – che invadono musei, biennali, ed anche case d’asta con valori di molto superiori a quelli di un Fontana o di un Rothko…
CO: Evitando moralismi senza senso, mi chiedo che cosa possa spiegare questo fenomeno. Io credo che vada valutato soprattutto come una politica d’immagine, costruita per un confronto alla pari col sistema artistico occidentale che, ormai da tempo, conferisce autorevolezza e riconoscibilità solo a ciò che si pone come valore finanziario. E la bulimia del mercato, per chi ha i mezzi e la volontà di affiancarsi e magari di prevalere, è la cosa più diretta e semplice da imitare. La ricerca, l’originalità, la qualità del lavoro non contano, anzi possono essere degli ostacoli.
Non penso che si pongano altre domande. D’altra parte che effetto può fare vedere un Cezanne ad Abudabi?