L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Ipso Facto (1999 - 2000) Anno 2 Numero 4 Maggio - Agosto 1999



Quattro tracce

Simon Morrissey



Rivista d'arte contemporanea
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Editoriale
E.G.
n. 8 Settembre-Dicembre 2000

Editoriale
E.G.
n. 7 Aprile-Agosto 2000

Compresenza e disponibilità
Nicolas Bourriaud
n. 6 Gennaio-Aprile 2000

Le ombre di Warhol
Victor I. Stoichita
n. 6 Gennaio-Aprile 2000

Editoriale
E.G.
n. 6 Gennaio-Aprile 2000

Rapporti schermo
Nicolas Bourriaud
n. 5 Settembre - Dicembre 1999


Nan Goldin, "Autoritratto nel bagno blu", Londra 1980 (da "La Ballata della dipindenza sessuale"), 1996. Fotografia a co

Wolfgang Tillmans,

Florence Paradeis,

Immersione
Ora sembra che ci troviamo sempre al centro della storia e mai al suo inizio.
I caroselli girano, ticchettano, e noi continuiamo a vedere immagini che non conosciamo ma che cominciamo a riconoscere, a forza di ripetizioni. Scelgo una donna. La prima volta che la noto, la fotografia la mostra in un bar, avvolta da una luce rossa; ha l'aria preoccupata. Non potrei affermare che è la prima volta che la vedo. La identifico di nuovo, vestita con un abito da sposa e in lacrime (il dito che tiene il fazzoletto con cui asciuga le lacrime è decorato con un piccolo tatuaggio). Poi la vedo in un'amaca, guarda un bambino (i suoi occhi sono sottolineati da uno spesso strato di nero, il colore del nastro che fa il giro del suo collo). Poi, mentre i proiettori continuano a riversare le loro immagini, non la rivedo più. Altri visi continuano ad apparire, visi che non hanno smesso di far parte delle immagini - ma alcuni spariscono. Non vedo più la donna bionda.
L'importante, nelle centinaia di fotografie proiettate che formano l'opera di Nan Goldin intitolata "La ballata della dipendenza sessuale", non sono necessariamente i dettagli. Anche se, prese una per una, le fotografie di Nan Goldin sono spesso sorprendenti, è attraverso l'accumulazione delle immagini che appare il senso della sua opera. Per due decenni Nan Goldin ha perseguito un'impresa singolare facendosi l'enciclopedista della propria tribù, non smettendo di raccogliere elementi dettagliati sugli amici che le fanno da famiglia allargata. Questo soggetto permanente, e il fatto evidente che Nan Goldin lavora su una storia in cui ha lei stessa il suo posto, invece di porsi all'esterno, manifestano una rottura con il rapporto visivo tra osservatore e osservato che ha dominato la fotografia fino alla fine degli anni '70. Il modo di procedere è paragonabile a quello di altri artisti della sua generazione, per esempio gli americani Jack Pierson e Mark Morrisroe o l'artista svizzera Annelies Strba, così come altri più giovani come l'inglese Richard Billingham. I soggetti esplorati sono sempre estremamente personali e intensi: si tratta dei rapporti con le persone vicine, che siano amici e amanti come in Pierson e Morrisroe, o l'ambiente famigliare come in Strba e Billingham.
Questo abbandono della "distanza" - fattore che si continua tuttavia a citare come tratto costitutivo della ricerca artistica - indica che questi artisti hanno tentato di abolire i rapporti gerarchici che reggono implicitamente sia la posizione dello spettatore che quella dell'artista di fronte al soggetto. Cercano invece di creare fotografie derivate da rapporti con il loro soggetto, e non dalla pura osservazione. Si posizionano al centro stesso dell'evento che fotografano. Quando Nan Goldin descrive ciò che l'ha inizialmente spinta a intraprendere "La ballata della dipendenza sessuale"(1), assegna in modo esplicito scopi profondamente personali alla fotografia: potendo fissare l'impressione reale lasciata al fotografo da una persona o un avvenimento, la fotografia crea un'immagine che sfugge ai cedimenti o alle idealizzazioni della nostra memoria. Il lavoro di Nan Goldin mostra che l'uso amatoriale della fotografia è sempre presente come sottofondo collettivo quando si crea un'immagine fotografica. Le nostre fotografie, come le nostre canzoni preferite, scatenano i nostri ricordi, e hanno il potere di creare un ponte vertiginoso tra l'istante dello sguardo e il momento bloccato dall'immagine.
Benché Nan Goldin abbia tentato di giocare su questo desiderio dando alla "Ballata" la forma di una proiezione di diapositive le cui immagini sfilano davanti allo spettatore, accompagnate da un sonoro che accentua lo scatenamento dei ricordi, ha finito col rendersi conto che è impossibile che la fotografia preservi realmente un'epoca, delle persone, dei rapporti affettivi(2). Il ricordo stesso non è permanente, non smette di allontanarsi dalla realtà dell'esperienza e, così facendo, si consuma, si modifica, si idealizza o si impoverisce, al di là della nostra stessa volontà. L'illusione secondo cui una fotografia "coglierebbe" l'esperienza vissuta è dunque legata al nostro desiderio di riuscire a vincere il trascorrere del tempo, più che alla realtà di questo mezzo di espressione. Malgrado tutti i nostri sogni, la fotografia continua ad essere un'immagine e non un'esperienza; l'apparecchio fotografico è un dispositivo ottico e non un occhio; inevitabilmente produce una distanza, e in ultimo luogo indica una perdita.
Se questo è vero per quel che riguarda le nostre fotografie personali, che ne è del nostro rapporto con le fotografie e i ricordi che ci presentano artisti come Nan Goldin e Billingham? Billigham assicura che fotografa la sua famiglia per conoscerla meglio e per meglio capire i rapporti che ha con i suoi componenti(3). Ma esiste un fossato evidente tra gli scopi che si dà il creatore di un'opera e il divenire di quest'opera proposta allo sguardo del pubblico. Ed è questo fossato, in ultima istanza, a definire l'opera. L'immagine fotografica è una mediazione tra lo spettatore e il mondo rappresentato, ma il contenuto dell'immagine si trasforma nel processo stesso della sua rappresentazione. Abbiamo un bel essere coscienti dell'immersione degli artisti nel loro soggetto, dei legami più intimi che li uniscono, non possiamo, in quanto spettatori, ricostruire questo legame per conto nostro, malgrado i momenti di empatia che possono nascere dalla nostra immersione nella vita di questi sconosciuti. Inevitabilmente si vede disegnarsi la problematica del voyeurismo: occupiamo una posizione che ci conferisce il privilegio dello sconfinamento in un ambito in cui restiamo degli intrusi, consumatori per procura, senza poter annodare un legame né del resto incorrere in rimproveri. Questo fenomeno appare tanto più nettamente in quanto gli universi esplorati da questi artisti sono talvolta assillati dall'autodistruzione, dalla tossicomania, dal sordido, dall'alcolismo, dalla violenza quotidiana. Non possiamo impedirci di essere attratti e sedotti dal nichilismo, nel caso di Nan Goldin, o affascinati e respinti dalla miseria, nel caso della famiglia di Billigham: l'esistenza di questi personaggi ai confini delle regole sociali amplifica il nostro desiderio di consumarne le immagini. E poiché l'atto di guardare non ci rende affatto responsabili delle vite così percepite, il nostro rapporto con l'immagine fotografica resta essenzialmente voyeuristico, come è sempre stato.
La questione del voyeurismo non può essere elusa da questi artisti; è di fatto una problematica con cui sembrano flirtare attivamente nella decisione di includere nella fotografia le persone loro più vicine. Restiamo voyeur, ma il nostro rapporto con queste immagini è segnato da una coscienza turbata di ciò che siamo; la nostra trasgressione, lungi dall'essere occultata dalla distanza che il fotografo mette tradizionalmente tra sé e il proprio soggetto, è piuttosto messa in avanti, sotto il segno del malessere, dal carattere esplicito dello sguardo degli artisti sulla loro vita. Per questa ragione, queste immagini riescono a destabilizzarci affermando di nuovo ciò che sappiamo già: malgrado tutti i nostri desideri, la fotografia non può né fermare il tempo né rubare le anime.

Perturbamento
Se i dibattiti e le strategie che hanno definito l'atteggiamento dell'arte concettuale in rapporto all'immagine fotografica (soprattutto la questione della ri-produzione e della ri-presentazione delle immagini) non sembrano più avere gran posto tra gli artisti che usano la fotografia, non è perché le interrogazioni poste sulla natura della fotografia siano cessate. L'arte concettuale ha influenzato tanto le modalità di produzione delle fotografie che il nostro modo di consumarle. Anche gli artisti non provano necessariamente il bisogno di rendere espliciti queste ragioni, e preferiscono nasconderle in una rete più ambigua di segnali contraddittori. Non si può vedere in questo il semplice desiderio di negare la retorica intellettuale della forma e del senso ereditata dall'arte concettuale; si tratta piuttosto di affermare che la fotografia, pur essendo capace di interrogarsi sulla propria esistenza e funzione, può sempre, come vuole la sua eredità popolare e storica, essere portatrice di una forma molto diretta di esplorazione visiva del mondo. Questi artisti perturbano la stabilità della fotografia dotandosi di un mezzo d'espressione costruito con una cura manifesta, nello stesso momento in cui incorpora gli elementi potenziali della sua distruzione in quanto immagine realista.
Questo perturbamento non è prodotto da una semplice giustapposizione, dall'inserimento di un elemento inatteso dentro un ambiente familiare; ha qualcosa di inafferrabile, come gli effetti di un sasso gettato nell'acqua. L'immagine fotografica è così contaminata a tutti i livelli, sia a quello della sua comprensione che a quelli del suo contenuto e della sua forma. I supporti dell'immagine fotografica sono oggi molteplici. A un'esposizione potremo vedere immagini come le polaroid presentate da Mark Morrisroe; oppure potremo assistere alla proiezione di lunghe sequenze che cercano di sfuggire ai limiti dell'immagine fissa, com'è il caso di Nan Goldin o Beat Streuli, o vedere alle pareti della galleria, dal pavimento fino al soffitto, una quantità di fotocopie e di stampe professionali mescolate a pagine di riviste, procedimento impiegato da Wolfgang Tillmans.
Tillmans crea l'instabilità nel cuore stesso dell'immagine praticando una sorta di irriverenza riguardo alla stampa fotografica e anche, in modo più fondamentale, sconvolgendo le gerarchie in vigore con la sua capacità di impiegare altrettanto bene il linguaggio dell'arte che quello della moda, senza per questo cadere in un compromesso. L'opera di Tillmans manifesta una negligenza della forma (tagli aleatori, dettagli anodini) che potrebbe evocare l'ingenuità della fotografia amatoriale ma maschera il suo considerevole talento per la ricomposizione, la ripetizione, la messa in sequenza. Benché sembri portare sulle cose un'attenzione leggera e fluttuante, questo artista tesse una rete di rapporti tra diversi generi - ritratto, natura morta, paesaggio - che si arricchisce di ogni tipo di elementi, dall'architettura fino al corpo nei suoi diversi ruoli, passando per l'abbigliamento, gli animali, i frutti, i fiori. I suoi soggetti sono spesso presentati in modo diretto, a metà nudi, talvolta in pieno atto sessuale, ma sempre spogliati della seduzione di cui la nudità è solitamente ammantata. Un'immagine dall'inquadratura serrata, nascosta in mezzo a un brulichio di immagini, può mostrare una donna sdraiata, con occhiali, che si tocca i seni per farne uscire un getto di latte verso l'obiettivo, o un uomo senza volto che esibisce il suo pene accanto a un vassoio di compagnia aerea. Il risultato di questi piccoli atti di trasgressione assimilati alle scene banali a cui sono giustapposte è una disorganizzazione delle gerarchie convenzionali: ciò che potrebbe fare sensazione e ciò che consideriamo comune si trovano messi sullo stesso piano
Il perturbamento si manifesta anche a livello delle immagini che potrebbero a un primo sguardo passare per del tutto semplici, in artisti come Florence Paradeis o Sophy Rickett. L'opera di Florence Paradeis sembra registrare momenti della vita quotidiana: una donna prepara un pollo prima di metterlo in forno, un'altra rovista sotto un mobile che è probabilmente un letto, della gente gioca a carte, una donna, voltando le spalle all'obiettivo, ritaglia delle fotografie in un giornale. Questi "momenti quotidiani" sembrano esser stati colti per servire da antidoto agli avvenimenti spettacolari, ma se si crede che il progetto di Paradeis consista nel dar valore al quotidiano, questa convinzione si disintegra dacché si vede il turbamento che si nasconde sotto la normalità. Un'accentuazione deliberata di alcuni dettagli banali introduce uno stridore, appesantisce le immagini di un senso che la situazione non impone, fa cambiare le azioni di registro, dal normale all'ossessivo. Lo stesso vale per Sophy Rickett: spesso l'impressione iniziale data dall'immagine si trasforma, passando dall'apparente registrazione di minime trasgressioni o istanti misteriosi a un clima di perturbamento psicologico organizzato. Le sue immagini notturne - donne che pisciano contro un muro in un paesaggio urbano, giovani accovacciati lungo la carreggiata al limite dei fasci luminosi dei fari di una vettura, profili sfuggenti che si aggirano in un campo - fanno quasi sempre parte di una serie. Nella misura in cui le azioni sono ripetute, non si può pensare che ad eventi costruiti, ma le immagini restano tinte di una realtà fantomatica, alla maniera di una fotografia di scena, perché danno l'impressione di integrarsi in un insieme narrativo sconosciuto. Come nell'opera di Paradeis, le immagini evolvono tra l'azione presa dal vero e la scena costruita; raggiungono un grado di concentrazione che disorganizza lo svolgimento normale delle associazioni e si gonfia fino a che le fotografie arrivano quasi a crollare su se stesse.

Compulsione
C'è da credere che tutta la trama del quotidiano vibra di incitamenti costrittivi generatori di compulsioni: "Comprate questo", "Fate questo", "Concedetevi questo piacere (lo meritate)", "Guardate qua", "Pensate questo", "Divertitevi (lavorate tanto)", "Provate questa sensazione", "Abbiate bisogno di questo". I meccanismi della società occidentale - che si tratti della pubblicità, delle riviste dedicate al modo di vivere, delle marche che curano la loro immagine prendendo a prestito la maschera della politica, di quella cena di teste sagaci che è diventata la televisione - sembrano tutti voler attirare la nostra attenzione senza sosta. Questa atmosfera satura sembra ordinarci di agire senza che la nostra volontà cosciente entri in gioco e ci spinge a rispondere a impulsi irresistibili. Così la società si trova composta da ciascuno dei nostri atti compulsivi.
La fabbricazione di un'immagine è essa pure un atto compulsivo. È anche un desiderio compulsivo di registrare la vita, come in Nan Goldin, o ancora, diversamente, in Cindy Sherman, i cui autoritratti si basano su una finzione in perpetua mutazione. Lo scatto dell'apparecchio fotografico riflette il modo dominante dei comportamenti della nostra cultura, e questo spiega forse perché la fotografia sia così presente nell'arte di oggi, e perché gli artisti che la utilizzano scelgano precisamente come soggetti gli atti compulsivi. È così che alcuni si interessano allo shopping, atto compulsivo per eccellenza, come Henry Bond con la sua grande collezione di immagini "Il culto della strada", o altri, come Seamus Nicholson, fotografano dei raves che si immergono in queste feste dell'abbandono collettivo: tutti sintomi di una cultura urbana. Spazio saturato al più alto grado dalla pubblicità e dai media, la città è esattamente la manifestazione spaziale della compulsione.
L'opera di Beat Streuli, per esempio, che si presenti in forma di fotografie, di video o di installazioni a base di diapositive, mette l'accento sulla folla come se fosse l'organo inconscio della città. Streuli mostra la folla come un oceano di volti lontani dal clamore frenetico del paesaggio urbano attraverso il suo teleobiettivo, un fiume umano che scorre, non di testa propria ma come se la città stessa decidesse del suo movimento. Passando dal generale al particolare per mezzo di dissolvenze incrociate, le immagini orchestrate delle installazioni di diapositive di Streuli abbandonano i panorami giganteschi delle folle per concentrarsi su un unico volto, creando dei quadretti intimi come ritratti. L'architettura della città diventa un alone di colore, una forma confinata alla periferia. Di tanto in tanto il lento e silenzioso oceano dei volti è segnato da una punteggiatura: in questo caso Streuli sceglie (e la scelta non è trascurabile) uno dei segni più visibili degli sforzi di incitamento costrittivo dispiegato dalla città - la segnaletica della pubblicità, del riconoscimento dei prodotti. L'astrazione bloccata di una camionetta di trasporto valori giunge a graffiare la proiezione e l'artista dà più importanza al suo logo che a qualsiasi altra caratteristica. Oppure la marea umana si spezza momentaneamente per rivelare la luce rosa chimico di un'insegna al neon che ci incita a comprare una qualche merce. Poi, di nuovo, tutto è consumato, divorato dal collage frammentato della folla e la compulsione personale di Streuli che riparte alla ricerca dei volti.
Lo spazio urbano di Rut Blees Luxemburg non potrebbe essere più diverso; ma più ancora forse che in Streuli, l'essenza del suo rapporto con la città sembra fondato sui fenomeni compulsivi. La città forza Luxemburg a provare una sensazione di fascino, benché abbia coscienza dei suoi aspetti oppressivi, e le sue immagini rivelano l'euforia palpabile suscitata dall'intensità urbana. Trascinata dal ritmo delirante della città, Luxemburg restituisce allegramente questo clima nella sua opera, rifiutando di adottare la concezione filosofica ristretta secondo cui la vita urbana si riduce ormai all'eredità distopica degli ideali della modernità. Luxemburg, che realizza le sue immagini esclusivamente di notte, ha costruito un ritratto di Londra che riflette direttamente le compulsioni che la città fa nascere in lei. Gli abitanti non sono mai rappresentati; l'artista si attacca alla città in quanto spazio deserto. Le sue immagini sono caratterizzate da una tavolozza sostenuta di verdi e di ori, colori tanto caratteristici di Londra quanto l'architettura che mostra. Lavora con tempi di posa estremamente lunghi: è la luce fornita dalla città stessa a creare l'effetto di mutazione dei colori. La città costringe materialmente le fotografie di Luxemburg a impregnarsi di una certa atmosfera, di una personalità, così come costringe i suoi utenti a comportarsi in un certo modo. Lo spazio è la macchina che crea la città dove viviamo, il motore che custodisce e condiziona la nostra esperienza; allo stesso modo la città agisce sulle immagini di Luxemburg, e il rapporto tra fotografo e soggetto si trova così invertito.

Falso sembiante
Su una vecchia fotografia in bianco e nero, una donna sicura di sé, truccata in modo eccessivo, guarda fissamente. I suoi occhi sembrano farsi beffe dello spettatore. Questa donna ha l'aria un poco sconcertante, al limite della sfida. Il volto che occupa questa immagine riappare in altre fotografie, dove lo si vede subire trasformazioni che sembrano testimoniare la sua partecipazione a un teatro di archetipi sessuali. Il suo viso passa dallo skinhead alla civettuola, dal vampiro all'angelo, ma sempre più si prova il presentimento che queste messinscene implichino forse una trasformazione più radicale di quella che separa semplicemente un ruolo dall'altro. La donna è vestita da dandy disincantato, poi porta un completo da impiegato di banca, e, benché distinguiamo ancora i suoi tratti, il suo travestimento ci inganna; sotto i nostri occhi comincia infatti a cambiarsi in uomo. Non si tratta più di un cambiamento di stereotipi, ma di una trasformazione ben più radicale, quella che fa passare da un sesso all'altro, che fa incarnare da una donna artista dei personaggi maschili.
La serie di autoritratti trasformisti di Claude Cahun prefigura con almeno mezzo secolo di anticipo le messinscene febbricitanti di identità fittizie che si incontrano nell'opera di fotografi contemporanei come Cindy Sherman. Ma questi artisti, che mettono in opera tutta una drammaturgia, un vasto sistema di riferimenti, hanno in comune il desiderio di eludere i ruoli che la società ha loro imposto.
Dalla fine degli anni '70 Cindy Sherman si dedica a un lavoro critico dei racconti dominanti delle industrie visive - cinema, media, pornografia, pubblicità - che pesano grandemente sulla fine del XX secolo. Nella nostra società i media non smettono di puntare i loro proiettori in modo ossessivo sul volto delle celebrità, a tal punto che finiamo col considerare normali i loro procedimenti di manipolazione e di trasformazione. Sembra logico, in queste condizioni, che Cindy Sherman sposti in modo compulsivo la sua immagine da se stessa, trasformandosi in tutta una serie di tipi umani e interrogando queste manipolazioni. Le personalità molteplici incarnate da Cindy Sherman mostrano con quale facilità accettiamo che il ruolo culturale, sessuale o sociale di una persona venga cambiato dalla semplice modificazione della sua apparenza; la nostra coscienza attuale dell'immagine fotografica è infettata da questi fenomeni.
Benché Cindy Sherman adotti numerosi ruoli nelle sue fotografie, noi sappiamo sempre che elabora una finzione perché non dissimula i suoi artifici. Ma come funziona la finzione in un'immagine fotografica quando la sua presenza è nascosta? Nel 1972 Christian Boltanski presenta dieci fotografie affiancate da note manoscritte con il titolo "Ritratti fotografici di Christian Boltanski, 1946-1964". Secondo la descrizione fornita, le fotografie raffigurano Boltanski ad età diverse, dal bambino all'adulto. Queste immagini non hanno niente di spettacolare: sono delle istantanee banali che mostrano un ragazzo in un giardino pubblico. Al primo sguardo niente ci lascia pensare che si possa trattare d'altro che di un progetto basato sull'autoritratto, ma quando vi guardiamo più da vicino ci accorgiamo che esiste un divario tra le note e le fotografie che accompagnano. Ogni scatto è descritto come avente luogo in un momento diverso dell'anno, ma dietro il ragazzo le piante sono sempre le stesse. Ancora più notevole: Boltanski, o i ragazzi di cui afferma trattarsi di lui in un'epoca anteriore, non hanno né lo stesso colore di capelli né gli stessi tratti da un'immagine all'altra, e si finisce col capire che non sono affatto immagini di Boltanski (salvo l'ultima), ma fotografie di ragazzi sconosciuti prese nello stesso parco nel 1972. Boltanski non ci presenta una finzione, ma perpetra un inganno nella sua volontà di nascondere l'artificio, destabilizzando sia l'immagine che la nostra percezione e generando un'incertezza che fa vacillare nel modo più fondamentale il nostro rapporto con la fotografia.
Il lavoro di Jennifer Bornstein inverte il metodo di Boltanski, ma vi si ritrova lo stesso paradosso. Le immagini semplicissime che appartengono alla serie di Jennifer Bornstein "Biblioteche pubbliche e campi di basket" mostrano apparentemente un giovane androgino che posa accanto a un amico, diverso da una fotografia all'altra. Il ragazzo sembra riflettere la personalità di ognuno dei suoi compagni - impassibile e serio se l'altro è impassibile e serio, birbante se l'altro ha l'aria del birbante- ma di fatto la sua espressione non cambia mai. A guardarvi meglio, si vede tuttavia che il personaggio che si ritrova in tutte le fotografie ha l'aspetto di un ragazzo, ma non lo è affatto. Anche se cerca di fondersi con l'ambiente, si avvera a poco a poco che questa presenza costante è quella dell'artista stessa. Jennifer Bornstein non cerca dunque soltanto di comporre delle immagini ingannatrici ma rovescia l'inganno anche sul proprio stesso progetto, creando un simulacro di integrazione sociale che le sue capacità di adattamento le permettono di insinuare nel paesaggio quotidiano dell'America urbana, seminando lo scompiglio sui riferimenti fissi quali il sesso, l'età e la personalità.
In Jennifer Bornstein così come in Boltanski l'inganno si rivela quando ogni immagine è confrontata con quelle che la accompagnano. In Vibeke Tandberg l'inganno nascosto nel cuore stesso delle immagini sfugge anche all'esame più attento e a questo tipo di confronto. Come le fotografie di Jennifer Bornstein, le immagini di Tandberg sono inserite in un contesto quotidiano, ma la loro apparenza è ancora più prosaica. La serie "Vivere insieme" ha l'aria di un album di famiglia. In questa famiglia ci sono delle gemelle che si assomigliano, evidentemente, ma sono differenziate nelle immagini da tutte quelle piccole sfumature che costituiscono il paesaggio della personalità individuale. Le gemelle sono fotografate con la madre sorridente, con il padre, le si vede in vacanza tuffarsi dall'alto di una cascata, o semplicemente fare colazione. Le fotografie, bagnate in un clima di intimità e di affetti che ci ricorda le nostre fotografie di famiglia, sono sicuramente adatte per innescare nel loro autore il delizioso trasalimento del ricordo. Queste immagini sono lungi da qualsiasi perturbamento: tuttavia, a tutti i livelli, sono all'opposto delle apparenze che danno. Di fatto Tandberg ha fabbricato delle sorelle gemelle illusorie a partire dalla propria immagine, ha incorporato nelle sue fotografie il suo doppio per mezzo di procedimenti informatici che rendono invisibile la manipolazione, e l'ha posto nella matrice di una memoria fittizia. Malgrado il nostro desiderio di riscontrare nelle immagini un qualche malessere che rivelerebbe il loro carattere costruito, questo disturbo non esiste - restano risolutamente normali ed è grazie a un sapere derivato da una fonte esterna che veniamo al corrente della sua natura reale. La domanda che si impone è allora la seguente: è questo il posto che la fotografia occuperà in seno a una cultura definita dalle sue mutazioni visive permanenti? Sarà la manifestazione per eccellenza dell'inganno e del falso sembiante?
Le onde si placano e tutto sembra di nuovo come prima. Il sasso è stato gettato, ma la superficie dell'acqua è ridiventata limpida e calma: più nessuna traccia del sasso. L'intervento è stato cancellato.


Note:
1) Cfr. la prefazione in Nan Goldin, "The Ballade of Sexual Dependancy", Aperture, 1996.
2) Cfr. la postfazione di "The Ballade of Sexual Dependancy", cit.
3) Conversazione di Richard Billingham con James Lingwood riportata in Geoff Dunlop, "Captured on Film", in "Exposed 04-The Magazine of the UK Year of Photography and the Electronic Image, Photo 98", 1998.


Simon Morrissey è critico d'arte e di fotografia, commissario della mostra Remix, tenutasi nel 1998 al Musée des Beaux-Arts di Nantes. Il presente testo è tratto dal catalogo di quella mostra. Traduzione di Lorena Peccolo.