L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Flash Art Italia (1999 - 2001) Anno 33 Numero 224 Ottobre-Novembre 2000



Francesco Vezzoli

Massimiliano Gioni, Helena Kontova

Foto di gruppo con Signora



ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Sconfinamenti
Maria Rosa Sossai
n. 226 Febbraio-Marzo 2001

Andreas Gursky
Gianni Romano
n. 226 Febbraio-Marzo 2000

Artertainment
Marco Senaldi
n. 226 Febbraio/marzo 2001

La Grande New York
Massimiliano Gioni
n. 225 Dicembre 2000 - Gennaio 2001

In Betwenn: i rischi dell'extra large
Jens Hoffmann
n. 224 Ottobre-Novembre 2000

Giuseppe Gabellone
Alessandro Rabottini
n. 223 Estate 2000


Francesco vezzoli, The life of Silvana Mangano, 1999. Antony d'Offay Gallery


Francesco Vezzoli, A Love Trilogy, 1999

Massimiliano Gioni: Soubrette, starlette, vecchie icone e attori famosi. Come si arriva a Helmut Berger? Come lo si convince a recitare in un video in cui gioca a fare Joan Collins e finisce per baciare Francesco Vezzoli?

Francesco Vezzoli: E' sempre un gioco rocambolesco. Alcune persone le ho avvicinate senza preavviso. Carlo di Palma, ad esempio, l'ho sorpreso in un ristorante dove sapevo che andava spesso. L'ho avvicinato e buon giorno, sono Francesco Vezzoli, per me lei è l'uomo che ha fotografato tutti i film più belli della storia, vorrei fare un progetto con lei, e ha funzionato. Per Helmut Berger ho avuto il suo numero di telefono da una persona e l'ho chiamato. Abbiamo parlato e poi mi sono presentato a casa sua con centocinquanta lilium bianchi e lui non aveva nemmeno un vaso. Li ha messi nella vasca e mi ha detto: "Lei che cazzo vuole da me, che cazzo vuole?". E allora io giù a spiegargli che sa io ho fatto interpretare Edith Piaf da Marisa Berenson, e se lei magari, Mr. Berger, potesse ricamare la faccia di Querelle De Brest, poi baciarmi mentre recitiamo una scena di Dinasty, be', sarebbe divertente, no? E ha funzionato di nuovo.

Helena Kontova: Come scegli i personaggi con cui lavorare?

F.V.: Helmut Berger è stato un punto di arrivo, un climax. Ero partito da Gruppo di famiglia in un interno di Visconti, che in qualche modo aveva ispirato il mio primo video, Ok! The Praz is Right: quindi c'era Mario Praz che ricamava, Silvana Mangano che ricamava, avevo scoperto che anche la sceneggiatrice di Visconti ricamava. Da quelle immagini usciva una specie di storia trasversale di Luchino Visconti e la figura vivente che sia stata più legata a Visconti era Helmut Berger, quindi ho deciso che dovevo lavorare con lui. Berger non è stato solo l'amante di Visconti, è stato la sua diva.

H.K.: E' curioso questo continuo rincorrersi di cinema e ricamo. Che rapporto c'è tra questi due mondi?

F.V.: Il rapporto tra cinema e ricamo è forse la cosa più affascinante che abbia scoperto nel mio lavoro. I miei video sono una specie di enciclopedia parallela della storia del cinema: basta fare un po' di ricerca nelle vite private degli attori e delle star e ti accorgi subito che il ricamo è la controparte privata del divismo. Moltissime star hanno trovato nel ricamo uno spazio privato e meditativo. Silvana Mangano, che è stata la diva italiana più grande, algida, perfetta, riservata, ricamava tappeti a tinta unita, come se le bastasse la sola azione ossessiva del ricamo, senza nemmeno sentire il bisogno di disegnare qualcosa.

H.K: Tu quanto tempi dedichi al ricamo?

F.V.: Tre ore al giorno, più o meno.

M.G.: Hai sempre ricamato?

F.V.: Le prime opere erano ricami, è da lì che è cominciato tutto. Stavo a Londra, studiavo Fine Arts e a un certo punto ti dicono: "You gotta come up with something, ti devi inventare qualcosa". Io odiavo stare a scuola e il ricamo era una pratica che mi permetteva di stare solo. All'inizio non era nemmeno un linguaggio o una scelta stilistica. Era un modo per starmene in pace e fare quello che mi piaceva. Naturalmente significava anche realizzare delle opere piccole, che potevo trasportare ovunque.

H.K.: Ma il ricamo è un'attività tradizionalmente considerata femminile...

F.V.: Sì, le donne sono ricamatrici quasi per definizione, perché sono le depositarie di un mondo di sentimenti che viene diluito nel ricamo. C'è molto dolore nel ricamo: Penelope ricamava, mentre aspettava Ulisse. Ma poi ci sono gli snob, i wannabes: se studi la storia del ricamo, scopri che Valentino ricama, Edward ricamava, Wally Simpson ricamava. Nella storia dell'arte, invece, si inciampa in una lunga serie di signore ricamatrici, spesso sposate a personaggi piuttosto ossessivi: la moglie di Josef Albers, Sonia Delaunay, la moglie di Savinio...

H.K.: Ti piace di più ricamare o girare video?

F.V.: Sono due passioni che si bilanciano. Vincent Minnelli era un grandissimo ricamatore, ma è stato anche un grandissimo regista, senza dimenticare che ha sposato Judy Garland: come vita non è male. Quindi, se proprio devo trovare una definizione per me stesso, voglio essere un regista ricamatore, anche perché nella storia del cinema si è già fatto tutto, e il ricamo serve a tirare i fili di quello che è già stato fatto, per tenere insieme immagini e personaggi diversi e dargli una nuova forma.

M.G.: Ma il ricamo è anche una pratica smaccatamente gay: ti interessa anche questo aspetto, di queer identity, come dicono gli americani?

F.V.: No, per carità. Quella cultura lì non mi interessa affatto. Io voglio solo essere una parodia dello snob. Io non sono affatto uno snob: inseguo le persone, le chiamo, cerco di farle entrare nella mia vita, anche solo per un attimo. Lo snob, invece, ti volta le spalle: per dirti ti amo, si gira dall'altra parte e nasconde sempre i suoi desideri. Per me il ricamo è soprattutto una passione, una duplice ossessione, perché da una parte c'è il movimento ripetitivo e maniacale delle star che ricamano, dall'altra c'è la mia ossessione, questo tentativo di comporre una storia del cinema che passa attraverso il ricamo.

M.G.: E poi c'è l'ossessione del fan che perseguita le star.

F.V.: Sì, io sono un fan che invece di chiedere un autografo chiede un cameo, una piccola performance.

M.G.: Ma la tua è anche la parodia dell'arrampicatore sociale, di quello che vuole andare a tutte le feste giuste...

F.V.: No, non penso. Le mie energie le metto tutte nel mio lavoro, nei miei video, per far scattare quella situazione eccezionale in cui recito accanto a Marisa Berenson o a Franca Valeri. Ma non ho mai pensato che i miei video fossero una scusa per diventare amico di Helmut Berger. E' pur sempre un discorso interno all'arte: ti guardi in giro e ti chiedi cosa manca. A me sembrava mancasse Helmut Berger: in tutte le mostre e in tutte le opere che andavo a vedere mi sembrava mancasse questo sentimento melodrammatico. Per fare un gioco di parole, direi che volevo fare dell'arte ricca: metterci impegno, studio, un rigore anche scientifico e arrivare a un'opera che avesse la ricchezza visiva di un melodramma e fosse infarcito di citazioni, ridondante di riferimenti e dettagli eruditi. E' anche un modo per essere più sincero: più sincero con me stesso perché sono cresciuto in un mondo di nonne melodrammatiche con i capelli tutti gonfi, e più sincero con ciò che mi circonda, perché su tutti i giornali e in tutti i negozi senti parlare solo di oggetti di lusso, e poi vai a vedere una mostra e non c'è traccia di quell'opulenza che sembra permeare tutto il nostro immaginario.

H.K.: Visto che parliamo di lusso, chi è il tuo stilista preferito?

F.V.: Ho una devozione assoluta per Yves Saint Laurent, poi certo ci sono Capucci, le Fendi, Valentino, che hanno realizzato i costumi per i miei video. Ma nelle mani di Yves Sant Laurent, il viola, il rosso e l'arancio diventano qualcosa di incredibile, che ti manda in visibilio. Yves Saint Laurent è un genio, un professore, la sua energia e il suo dolore sono unici. Se potessi rinascere, vorrei reincarnarmi in lui.

H.K.: Ma tu che vestiti porti di solito?

F.V.: Mi vesto cercando di piacere agli altri. Se mi vestissi come piace a me, sarei al massimo della sofisticazione, tutto felice e orgoglioso della mia vecchia giacca Comme Des Garçons o di uno zibellino rasoiato, ma non mi filerebbe nessuno. E allora mi metto cose anche alla moda, ma quelle che piacciono agli altri.

H.K: E a te cosa piace degli altri?

F.V.: Mi affascinano il coraggio e il senso delle proporzioni rispetto al proprio corpo. Oppure, mi affascina terribilmente - ed è una mia debolezza - il fascino dell'anonimato, che però oggi è un rischio, perché più sei trasparente e più sei solo. Rispetto anche quelli che non si curano affatto del proprio aspetto, ma ce ne sono sempre meno.

H.K.: Sei vegetariano?

F.V.: Sono vegetariano, ma solo se non dà fastidio: se devo andare a cena con una signora di sessant'anni che magari mi presenta Helmut Berger, allora non sono vegetariano, per non fare una scenata.

H.K.: E quando incontri questi personaggi, come ti senti? Intimorito, emozionato, incuriosito?

F.V.: Incuriosito sempre, ma non intimorito, perché comunque io sono un outsider: non voglio essere ricco come il padrone di casa o bello come l'attrice... Io osservo e cerco di portare quel mondo nelle mie opere. Poi qualcuno viene da me e mi chiede, "Tu ci sei o ci fai?". Ma nella vita non è così semplice. Io sono così, continuo a girare, a lavorare per spostamenti laterali e digressioni, ma non mi interessa fermarmi in quella casa o in quel posto, anche perché per essere quella cosa lì, ci devi nascere. Il mio resta uno studio, uno sguardo da dietro la porta. Magari per un momento ti sembra di vivere un sogno. Ma è un sogno che deve durare solo un attimo, per poter essere davvero intenso. Ed è tanto più forte, quanto più riesci a mantenere un certo distacco da vero studioso. Poi ci sono i momenti di debolezza: persino Mario Praz, quando gli chiedevano quale fosse il suo più grande rammarico, diceva che gli dispiaceva terribilmente che sua madre fosse già morta quando Margaret d'Inghilterra aveva visitato la sua casa romana. Ecco questi brevi momenti di debolezza sociale, che colpiscono anche le persone più serie e potenti, mi mandano in una specie di deliquio.

M.G.: Ma il tuo è anche un gioco di potere: quando riesci a convincere Helmut Berger a baciarti, c'è qualcosa di profondamente narcisistico.

F.V.: Più che altro c'è quel brivido di quando ti chiedono, "Come hai fatto?". Vuol dire che è scattato qualcosa, che sono riuscito a stupirti. E, in un momento in cui siamo sommersi da una marea di opere d'arte, video, disegni, dipinti, opere su Internet, lo stupore è un grande complimento. Forse non basta, ma è già qualcosa.

H.K.: Cosa vorresti che si dicesse dei tuoi lavori, allora?

F.V.: Se si potessero usare tutte le parole giuste al posto giusto, direi che il mio lavoro è questo studio sulle debolezze del frocetto di provincia, che si guarda i film di Visconti, si studia i mobili di antiquariato e trasforma la propria solitudine e il proprio dolore in una magnifica ossessione.

Helena Kontova è direttrice di Flash Art,
Massimiliano Gioni è redattore.

Francesco Vezzoli è nato a Brescia nel 1971. Vive e lavora a Milano.
Principali mostre personali: 1999: British School, Roma; Centre d'Art Contemporain, Ginevra; GAM, Bologna; Marconi, Milano; Anthony d'Offay, Londra; 2000: GAM, Bologna.
Principali mostre collettive: 1998: Fatto in Italia, Centre d'Art Contemporain, Ginevra; 1999: Biennale di Istanbul; 2000: Art and Facts, Noero, Torino.