La fotografia è un elettrodomestico spettacolare

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Indice :

1 Scopri tutti gli appuntamenti e i contenuti speciali della rassegna

2 AGRODOLCE

3 SPECCHIO RIFLESSO

4 PELLICOLE

5 Introduzione al primo focus: AGRODOLCE

6 SORRIDI!

7 La fotografia è un elettrodomestico spettacolare

8 Terra di mezzo

9 Lo spettatore come cavia

10 Marco Giusti, testo introduttivo al lavoro Audience di Marco Calò

11 PUBBLICO DI MERDA!




Vitaliano Trevisan in Primo Amore (2004) di Matteo Garrone



Renzo Martens, Enjoy Poverty, 2008



Donatella Di Cicco, Dolls, 2006



Fabrizio Bellomo, 32 dicembre, 2011



Ruben Salvadori, Photojournalism Behind the Scenes, 2011-2012



Ed Van De Relsken, Zuid-Afrika, 1968/ 2005



Rirkrit Tiravanija, Untitled (pad thai), 1990



Matteo Garrone, Oreste pipolo fotografo di matrimoni, 1998



Antonello Matarazzo, La posa infinita, 2007



Michael Somoroff, Absence of subject, 2007-2013

Conversazione tra Fabrizio Bellomo (artista e curatore della rassegna) e Sergio Giusti (studioso e docente di fotografia) in merito al materiale proiettato durante il primo focus di Prosecco e Pop corn, AGRODOLCE.

FABRIZIO BELLOMO: In relazione all'intervento che hai scritto per il sito di Generazione Critica (evento-incontro svoltosi a Modena il 25 e 26 ottobre 2013) mi sembra interessante provare a fare una conversazione insieme rispetto a quello che abbiamo proiettato nella prima sezione della nostra rassegna Prosecco e Pop Corn, questo è quello che hai scritto: «L’Italia è uno dei più compiuti laboratori della società dello spettacolo. Raccontare con la fotografia ciò che già ci appare come decostruito e destrutturato in immagini può sembrare una ridondanza o almeno un déjà vu. Che potenza o che credibilità potrà avere? O meglio ancora: che cosa potrà dirci di nuovo? Cosa potrà analizzare criticamente, se è fatto della stessa sostanza del suo oggetto di indagine? Due sono le direzioni/soluzioni che mi sembra di poter individuare. La prima è prettamente relazionale, e chiede, forse paradossalmente, di usare la fotografia – o meglio l’atto fotografico – come strumento per scardinare il tipo di mediazione dei rapporti sociali imposto dall’uso delle immagini proprio della società mediatizzata e spettacolare. La seconda è individuare dietro alla complessità del processo di virtualizzazione della fotografia il baluginare di un ritorno del reale. Dove per reale non si intende per forza ciò che è documentabile, ma la presenza forte della questione dell’impassibilità, anche muta, anche senza senso, dell’esistere “bruto”. Il trauma del reale, insomma, come squarcio nel velo illusionistico che oggi, più che mai,ci viene imposto».
L'inizio di questo tuo breve testo, la parte interrogativa, mi fa venire in mente un pezzo di un discorso di Comolli preso dal libro "Vedere e Potere" dove nel capitolo relativo al concetto di auto-regia dice: «La negazione cinematografica è dialettica. L'una non esiste senza l'altra, ognuna ha bisogno dell'altro per rilanciarsi, la credenza ha bisogno della coscienza che la minaccia, ha bisogno di questa minaccia per rafforzarsi. Siamo qui in una psicologia dei complici contrari». Comolli in questo caso si riferisce a un discorso diverso e più attinente a una negazione linguistica relativa al come si rimettono in scena le vite reali una volta filmate, alla coscienza dell'osservato di essere ripreso nel suo ruolo reale e di conseguenza la sua rimessa in scena sovrapposta a un qualche concetto di quotidianità reale, quello che appunto Comolli definisce come auto regia e che sicuramente è più attinente all'ultima parte (Pellicole) della nostra rassegna ma che mi sembra molto interessante inserire anche in questo discorso perché trovo delle strette vicinanze con quello che tu hai scritto a proposito della fotografia.
Inoltre nel corso della prima sezione della rassegna abbiamo proiettato diversi video d'artista e film che, con sfaccettature differenti, in qualche modo hanno un modus operandi vicino ai due concetti che hai delineato nel tuo breve testo. Il testo di Comolli è dal mio punto di vista tanto nichilista quanto altrettanto lucido, spesso durante le proiezioni della rassegna mi sono aggirato per la sala per controllare il pubblico spettatore e per quanto i film proiettati potessero ambire a creare tensioni e interrogativi relativi al discorso sul linguaggio meccanico di riproduzione dell'immagine, per la gran parte ho visto gente che guardava un film e non credo che quella sala fosse poi diversa da un multi-sala durante la proiezione di un film di natale, oltretutto alla nostra rassegna tutti mangiavano pop corn...
Detto ciò e affiancandomi/sovrapponendomi alla frase di Comolli credo che la negazione linguistica essendo dialettica è parte del meccanismo che critica, è in fin dei conti un semplice ingranaggio di tutto il meccanismo, una sorta di ingranaggio spia che si accende solo in caso di necessità, in modo tale da non far andare in black out l'intero sistema – il metalinguaggio come una sorta di luce d'emergenza. Dopo un principio di analisi di questa prima sessione è così che credo di vederla ovviamente questa critica/interrogativo è rivolto/a prima di tutto a me, essendo autore della rassegna e anche di opere che molto spesso vanno esattamente in questa direzione. Tu come la vedi?

SERGIO GIUSTI: Ti chiedo subito una precisazione: visto che il contesto non mi è chiaro fino in fondo, che cosa si intende precisamente per "negazione cinematografica"? Io l'ho interpretata come la volontà un po' utopica di evitare nel documentarismo la forzatura della recitazione. Cosa ovviamente impossibile da realizzare appieno. O anche il tentativo di far sparire il più possibile il filtro della macchina da presa inteso nel senso più negativo del termine, cioè come setto che induce comportamenti inscenati per la ripresa (vedi il video sui fotografi in Palestina – "Photojournalism behind the scenes"). Ovviamente nella sua dialettica questa volontà non può prescindere dalla presenza della macchina, il che sarebbe ingenuo, ma deve tentare di rendere virtuoso l'atto cine-fotografico in modo che davanti all'obiettivo non vi siano pantomime ma un comportamento consapevole e mutuo fra chi riprende e chi viene ripreso. Cioè: nella consapevolezza che non si può prescindere dalla presenza della macchina spettacolare, i due attori davanti e dietro la macchina si comportano nella maniera più onesta possibile. Dove per onesto intendo "avvertito", consapevole appunto di essere comunque in un ingranaggio che scatena comportamenti anche inconsci, antropologici, sociologici...

FB: E' esattamente così, l'unica precisazione che ho da fare è relativa alla pertinenza di campo, ovvero tu dici "nel documentarismo" io direi in qualsiasi rappresentazione, dato che oltre facili giochi di settore (immagino Carmelo Bene quando diceva che lui non rappresentava...), anche nella fiction (che sia fotografica o cinematografica poco conta secondo me) le cose più interessanti sono quelle che tengono presenti tali riflessioni e continuano, tramite queste, a fare una ricerca sul meccanismo spettacolare, vedi Garrone nei suoi film, per esempio penso a "Primo Amore" dove l'attore protagonista del film è l'autore stesso del romanzo da dove è tratto il film e credo che fosse per la prima volta sullo schermo.

SG: Faccio una precisazione, non per pedanteria ma perché aggiunge un tassello interessante: il protagonista di "Primo amore" di Garrone è lo scrittore Vitaliano Trevisan che ha collaborato alla sceneggiatura del film ma che non è l'autore del libro "Il cacciatore di anoressiche" da cui è tratto il film. Questo libro autobiografico è stato scritto dal ben più inquietante Marco Mariolini. Ora: Trevisan scrive libri inquietanti ma non è un killer. Però è vero che non è un attore professionista e che i protagonisti dei suoi romanzi (in particolare "I quindicimila passi") sono affini in parte a una personalità come quella di Mariolini. In più il film viene ambientato da Garrone nei luoghi di Trevisan e dei suoi romanzi (la provincia veneta ricca e svuotata di senso degli anni 90 direi...) cosa che probabilmente aiuta Trevisan a fare proprio il personaggio. Questo andrebbe nella direzione che tu indichi: non una mediazione registica completa, ma un'immedesimazione nel personaggio che non è prettamente maestria da attore, ma neppure spontaneità tipica del non professionista che viene ingaggiato per "recitare se stesso", altra strana utopia, altra contrapposizione dialettica. Trevisan conosce il film, conosce i luoghi, ne scrive, ne è impregnato: la sua è una recitazione consapevole senza essere professionale. E' un aspetto che va nella direzione di quello che stiamo cercando di delineare? Che ne pensi?

FB: Assolutamente, credo sia un modo per complicarsi la vita (per citare Eduardo), in questo caso attuato da parte del regista, e credo anche che proprio questo complicarsi la vita, il lavoro, sia una sorta di atto propedeutico della ricerca in qualsiasi campo,in questo caso il risultato della complicazione ci fa percepire qualcosa in più del meccanismo spettacolare, scosta se pur minimamente il nostro livello di conoscenza, facendolo con le immagini si tratta di un livello percettivo di scostamento conoscitivo, che una volta metabolizzato dallo spettatore lo potrebbe portare su un'altro piano e a una riflessione più conscia; nel film "Primo Amore" di Garrone si sente, si percepisce appunto, che c'è qualcosa che non torna, che un ingranaggio gira strano ed è proprio quello che mi affascina moltissimo come spettatore. Partendo da questo film di Garrone volevo anche provare a delineare con te altri approcci che in qualche modo vanno nelle direzioni che stiamo cercando di catalogare e che facevano parte del primo ciclo della rassegna Prosecco e Pop corn; il discorso più interessante a mio parere è quello del rendere relazionale il mezzo fotografico/video (sono chiaramente coinvolto), nella rassegna ci sono diversi lavori che adottano tale registro (anche se non sono del tutto convinto che di registro si tratti), ad esempio Renzo Martens con Enjoy Poverty commistiona l'ormai codificato cinema in prima persona a una serie di azioni performative così da sviluppare un prodotto di interrogazione su se stesso (alla fine anche lui è in Africa a filmare quelle genti come gli altri) e quindi sul sistema che sta utilizzando per compiere la sua indagine. La Di Cicco mettendo di fronte la telecamera delle aspiranti veline della provincia di Caserta sta utilizzando un modus simile a quello che citavamo prima nel caso di "Primo Amore" di Garrone? c'è forse un modo, una chiave per abbassare il livello di spettacolo? Ti parlo del mio lavoro proiettato "32 dicembre" di questo posso parlare con più cognizione di causa e con qualche domanda in meno, qui il lato relazionale dell'utilizzo della camera è fondamentale, per fare questo progetto in cui “tentavo di smascherare“ la recita della posa in fotografia ho chiesto ai soggetti ritratti di poter scattare loro delle fotografie, mentre in realtà spingevo il tasto rec e registravo dei video; Ho svolto questo lavoro utilizzando una macchina fotografica reflex che fa anche video in HD, questo dato non è indifferente perché l'immagine/l'icona della macchina fotografica mi aiutato tantissimo in quanto essendo nell'immaginario collettivo appunto “un mezzo per le foto“ tutti ci hanno creduto nonostante prolungassi molto il tempo di scatto per prolungare il tempo di posa dei soggetti ritratti. Altro dato curioso, e forse il più interessante, da analizzare in questo contesto è che per convincere ancor di più i soggetti ritratti che si trattasse di una fotografia ho dovuto recitare la parte del fotografo, mi spiego meglio: prolungando, come facevo, i tempi di posa, non sarebbe stato credibile un personaggio di fronte ai fotografati immobile (per fare i video mi bastava spingere un tastino, la macchina era su cavalletto, io in teoria sarei potuto stare li impalato accanto alla camera) quindi facevo finta di mettere a fuoco, di chiudere i diaframmi, sempre piegato sulla camera con l'occhio nel mirino stando attento a non toccarla per non realizzare dei video mossi, insomma recitavo una vera e propria parte. Interessanti secondo me sono i due fattori principali che mi hanno permesso di realizzare il lavoro, da un lato l'immagine/icona della macchina fotografica e dall'altro il mio ruolo performativo - insomma la recita messa in atto, interessante perché due punti saldi della macchina spettacolare mi hanno concesso di poter analizzare in video le pose, “il divenir immagine“. Ruben Salvadori con "PhotoJournalism Behind the Scenes" attua un principio molto semplice quanto efficace: Salvadori come si evince dal suo sito è sostanzialmente un reporter, con una serie di immagini drammatizzate e spettacolari alle spalle, evidentemente nel caso di PhotoJournalism Behind the Scenes immagino abbia semplicemente provato a vedere una situazione come se si stesse percependo dall'esterno, ha fatto un passo al di fuori del proprio cerchio così da avere una nuova prospettiva; questo suo lavoro mi ha sempre riportato alla mente una vecchia fotografia di Ed Van De Relsken, fotografo olandese, in cui un gruppo di bambini mal nutriti africani viene fotografato da un altro gruppo formato da anziani borghesi occidentali, una fotografia che sviscera tutta l'indole colonialista del mezzo fotografico. De Relsken, olandese, faceva con tutta probabilità più parte di quel mondo colonialista che fotografava, anche lui sembra essersi visto dall'esterno e così anche in questo caso un semplice cambio di prospettiva sviscera qualcos'altro della mediazione delle immagini nei rapporti sociali.

SG: Per me tutti gli esempi che stai facendo si interrogano con varie sfumature su questo punto: come districarsi fra le trappole spettacolari che l'uso di una cinepresa o videocamera o macchina fotografica ci tende? Come fare l'agente infiltrato senza essere costretto a entrare nel vortice dei doppi tripli ennesimi giochi che il codice dell'immagine come segno privilegiato della dominazione spettacolare ci impone? Mi viene in mente, a proposito, una citazione che farò un po' a sproposito: Roger Caillois in uno dei suoi saggi sul mimetismo degli insetti e sulla mantide religiosa (che lui associa arditamente a certi riti umani e anche alla psicosi) mette questa epigrafe: «Attento. A giocare al fantasma, lo si diventa». Ecco, credo che il suo non sia un monito a non giocare (ha scritto saggi sul gioco e ne era affascinato) ma a giocare attentamente. Indossa pure le tue maschere e fai le tue danze rituali, ma sappi che non sono senza conseguenze. Prendile quindi sul serio come fanno gli uomini-medicina. E' questa serietà forse che bisogna applicare nella danza rituale che si ingaggia fra chi riprende e chi viene ripreso per tramite del totem della macchina. Sapere che è sostanza spettacolare quella che si sta maneggiando è una precondizione per un tentativo che abbia qualche chance di non fallire del tutto.

FB: Qui, quando dici alla fine: Sapere che è sostanza spettacolare quella che si sta maneggiando è una precondizione per un tentativo che abbia qualche chance di non fallire del tutto. mi viene in mente una frase presa da "L'inconscio tecnologico" di Vaccari: «I fotografi soffrendo in modo più o meno cosciente per il carattere marginale del loro contributo al risultato finale, hanno sempre tentato di ridurre il coefficiente di indeterminazione, tipico della fotografia, che da loro viene sentito come un limite di cui vergognarsi, invece di considerarlo, come dovrebbero, l'elemento caratterizzante, lo specifico fotografico». Vaccari molto lucidamente introduce un concetto, il coefficiente di indeterminazione, credo che molti dei lavori che proietteremo e che abbiamo proiettato durante la rassegna abbiano messo (o provato a mettere) in primo piano questo coefficiente di indeterminazione; per tornare al discorso precedente anche Garrone di "Primo Amore" utilizza secondo me consciamente questo coefficiente solo che nel suo caso ci sono specifiche tecniche diverse poiché si tratta della macchina cinema e non della macchina fotografica ma questo come non mi stancherò di ripetere poco importa. Ma cos'è questo coefficiente di indeterminazione relativo alla fotografia, o quanto meno posso provare a dire cosa è per me come autore questo coefficiente. La macchina fotografica, la cinepresa, scatenano automaticamente dei comportamenti una volta che questi mezzi vengono introdotti nella pubblica piazza, pensiamo, per esempio e banalmente, ai saluti dei passanti dietro le telecamere dei giornalisti televisivi, bene sono proprio questi comportamenti antropologici che in qualche modo disturbano l'operatore tecnico che dirige il mezzo rappresentativo, per la stragrande maggioranza dei casi e ancora oggi, un operatore che tiene in mano una cinepresa o una macchina fotografica tenterà in tutti i modi (ripeto per la grande maggioranza dei casi) di escludere i normali comportamenti antropologici dell'uomo rispetto al mezzo tecnologico che ha modificato la sua antropologia; quindi il coefficiente di indeterminazione come lo chiama Vaccari, a cui da un nome molto affascinante, è a mio parere (almeno oggi dopo una stratificazione culturale solida) molto facilmente determinabile e prevedibile all'interno appunto dei comportamenti antropologici dell'uomo rispetto al mezzo di rappresentazione e sono questi comportamenti che i fotografi hanno sempre tentato di “escludere dal quadro - c'è da dire che tali comportamenti rivoltandosi contro queste gabbie imposte dagli operatori sono entrati nel quadro dal mondo dell'arte bypassando per così dire la cultura fotografica. In molti dei lavori della rassegna si nota esattamente come diversi autori prevedendo il comportamento antropologico, che risulterà dalla commistione fra mezzo tecnico utilizzato e soggetti coinvolti, realizzano lavori lucidi di analisi sul mezzo rappresentativo in un determinato contesto e quindi parlano così non solo della rappresentazione, ma della società delle rappresentazioni, ovvero il nostro mondo; Salvadori prevede (aveva già analizzato forse) i comportamenti in camera dei “rivoltosi“, la Di Cicco prevede i comportamenti in camera delle sue aspiranti veline? credo di si, e Garrone prevede i comportamenti in camera degli sposi difronte alla camera di Pipolo? e avanti così...insomma continuando nel provare a delineare delle strategie degli autori per tentare di “abbassare il livello di spettacolo” in un contenuto che di per se nasce spettacolare ci metterei questa consapevolezza dei comportamenti antropologici e di conseguenza una prevedibilità delle reazioni che scatenerà quindi un guardare oltre e comportasi in modo da poter avere sempre uno scarto in più, una mossa di vantaggio. Nelle parole precedenti ho parlato più volte dei comportamenti antropologici dell'uomo rispetto al mezzo tecnologico che ha modificato la sua antropologia così volevo anche chiarire cosa intendo con questa frase: Come con il frigorifero sono decisamente cambiate le nostre abitudini alimentari, allo stesso modo con la fotografia/cinema sono cambiate le nostre abitudini comportamentali; alla fine la macchina fotografica nella sua diffusione di massa si è sviluppata proprio come un frigorifero, un'automobile, un ferro da stiro etc...ovvero come un qualsiasi elettrodomestico del boom economico - sono fermamente convinto che come oggetto non sia altro che quello. La fotografia è un elettrodomestico; alle donne frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici, ferri da stiro e agli uomini automobili, motociclette, macchine fotografiche e cineprese e ad entrambi la televisione...».
Durante una ricerca in un archivio, sfogliando tantissimi settimanali di inizio secolo, mi sono reso conto di come le pubblicità contenute all'interno del settimanale fossero relative quasi esclusivamente ad automobili (anche elettriche...), elettrodomestici vari e a macchine fotografiche; bene se si va oggi in un grande magazzino dell'elettronica come ad esempio un Media World e si prende uno di quei volantini sfogliabili ci si rende conto di come le offerte in esso contenuto siano relative a lavatrici, frigoriferi, computer, cellulari e a macchine fotografiche (di nuovo).

SG: Dubois parlava di atto fotografico, di immagine-atto che scatena comportamenti, Benjamin diceva che la prestazione dell'attore cinematografico viene presentata attraverso l'apparecchiatura e che viene poi spezzettata e rimontata di modo che non vi è più contatto fra l'attore e il pubblico: «il pubblico si immedesima all'interprete soltanto immedesimandosi all'apparecchio. Ne assume quindi l'atteggiamento: fa un test». (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica). Il fulcro è quindi questo famigerato setto produttore di immagini. Immagini che poi mediano il nostro rapporto con chi viene ripreso in una scala micro rispetto a quella – macro – in cui la società dello spettacolo (il Media World di cui parli, se lo prendiamo alla lettera e non solo come nome di una catena commerciale) è una società in cui il rapporto sociale è mediato dalle immagini, intese anche nella loro potenza astratta. In qualche modo, mi viene da dire, l'atto cine-fotografico costituisce il nucleo di base su cui poi si fonda tutto l'agire sociopolitico della società spettacolare. Come rivoltarglielo contro? Questo è il punto cruciale. Io non so se sia veramente possibile. Si fanno tentativi, si annaspa, ci si inganna, qualche volta si ingarra qualche colpo. La guerra sembra impossibile da vincere e non sono neanche sicuro che la vogliamo veramente vincere: «Se qualcosa è troppo traumatico, troppo violento, o addirittura troppo pieno di godimento, confonde le coordinate della nostra realtà e dobbiamo portarlo sul piano della finzione».(Zizek)
Certo poi c'è l'aspetto relazionale, il tentativo che segnala Bourriaud in "L’estetica relazionale" per uscire da questa situazione da lui così bene delineata: «Le famose ‘autostrade della comunicazione’, con i loro pedaggi e le loro aree di sosta, minacciano di imporsi come gli unici tragitti possibili da un punto all’altro del mondo umano. […] Di fronte ai media elettronici, ai parchi tematici, agli spazi conviviali, alla proliferazione dei formati compatibili della partecipazione sociale, ci ritroviamo poveri e indifesi, come il topo da laboratorio condannato a un percorso immutabile nella sua gabbia disseminata di formaggio. Il soggetto ideale della società delle comparse è così ridotto alla condizione di consumatore di tempo e spazio». La sua emergency exit imbocca allora la strada dell'arte relazionale, che cerca anche in forme minime di ristabilire un contatto dotato di una certa verità fra individui che prescinda dalla mediazione spettacolare. Per esempio la convivialità non precostituita di certi interventi di Rirkrit Tiravanija. Piccole cose, certo, ma almeno ascrivibili a quell'onesto annaspare di cui sopra...Ma se di mezzo c'è quella macchina, quell'apparecchio? Lo si può rendere relazionale alla ricerca di un al di là dello spettacolare? Per ora mi fermo con la domanda sospesa... Però ti invio un link a un vecchio articolo in cui azzardavo già una risposta partendo da riflessioni simili http://www.aroundphotography.it/framearticolo.asp?cod=13
Per continuare, è chiaro, va dichiarato apertamente che l'aspetto relazionale è un po' il fulcro della nostra discussione. Pensandoci bene, mi sembra possa essere nello stesso tempo il punto di forza e la trappola in cui cadere. Penso a Oreste Pipolo di Garrone dove non si può non riconoscere al fotografo di matrimoni una volontà relazionale, ma che certo sfocia spesso in una prevaricazione. Volontaria o meno che sia. E' chiaro che il suo primo interesse è venire incontro alle richieste del committente, eppure non si può non notare come usi una certa violenza ai suoi soggetti perché preso soprattutto dal proprio immaginario (non starò qui a giudicare quanto kitsch. Mi sembra la cosa meno interessante). Quando "fa come fosse a casa sua" nell'intento di ricercare il miglior scatto possibile nella sua accezione, apparentemente sembra solo mettere in campo una serie di - a volte anche acrobatiche -azioni pratiche. Senza preoccuparsi di educazione o convenzioni sociali. Io credo però che la sua "arroganza" abbia più scopi simbolici che pratici. Non voglio farne un filosofo, per carità, ma penso che alla fine lui sia un agente involontario infiltrato nell'immaginario a buon mercato dei suoi clienti. Rivelandone suo malgrado aspetti critici che ne scoperchiano dall'interno la circolarità asfissiante. Sembra dirgli: ve lo meritate Oreste Pipolo! Per quello che riguarda Matarazzo, siamo quasi al polo opposto. Rianimare delle pose significa ragionare sul dialogo minimale fra immagine fissa e immagine in movimento. Dialogo che la tecnologia di oggi ci impone (tu stesso hai ricordato a proposito di “32 dicembre” che la macchina fotografica, che ormai permette di fare video, è stata un comodo espediente per recitare una parte allo scopo di ottenerne un'altra da parte di chi stava davanti all'obiettivo). Forse qui bisognerebbe tornare al "terzo senso" di Barthes: quel che di ineludibile ed ottuso che si trova nel fotogramma e che si oppone alla narrazione filmica orizzontale. Una sorta di “punctum” fotografico innestato nel filmico, che per Barthes ne diventa quasi l'essenza più intima. Non è forse questa essenza che vogliono interrogare gli ibridi di Matarazzo? Mi vengono in mente due lavori in parte affini a pose "in movimento": il lavoro sui ritratti di August Sander di Michael Somoroff, "Absence of subject" http://www.undo.net/it/videopool/1361549640, e i film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Nel primo Somoroff ha cancellato digitalmente dal corpus sanderiano i corpi dei suoi soggetti. Lasciando solo gli sfondi. Interessante ai nostri scopi la versione video di questo lavoro. In questa gli sfondi sono leggermente animati: una porta mossa dalla corrente, un'edera che stormisce, un prato mosso dal vento, dei libri le cui pagine la brezza continua a girare... Insomma protagonista è l'aria, lo spiffero, la differenza barometrica direi. Eppure è difficile non vivere questi video/non video in maniera animista: quei soffi sembrano il resto dei soggetti ormai andati, spariti. Forse inghiottiti da un secolo che non c'è più e che nemmeno Sander è riuscito a catalogare fino in fondo... Vertigine della lista. Ci interroghiamo quindi sulla presenza in fotografia tanto quanto nei video di Matarazzo, anzi forse di più grazie a una sorta di assenza animata. Lo spettro ritorna per definizione. Ci abita, ci possiede. Questa è una relazione più sottile, affascinante nel senso quasi etimologico: se lo spettacolo ha questa forza su di noi forse non dobbiamo dimenticare che una certa parte di "colpa" ce l'hanno i (nostri) fantasmi. (E son tornato lì: ricordi Caillois?). Per Gianikian e Ricci Lucchi il discorso si intreccia ancor più fortemente con la storia, col recupero, l'evocazione: i loro brani di pellicole al nitrato in disfacimento rifilmate da loro e rimandate a velocità rallentata (di nuovo il rapporto immagine fissa e in movimento...) ci restituiscono persone realmente vissute ormai ridotte al rango di fantasmi della storia: sono il punctum che ci ferisce provenendo dalla documentazione, dall'archivio. In "Su tutte le vette è pace" i volti dei soldati ragazzini della grande guerra ci parlano di una contingenza pungente – le vere facce, i veri volti, i veri occhi - che assilla le pretese universali del codice. Fosse pure quello della seria analisi storiografica.

FB: Scrivi «se lo spettacolo ha questa forza su di noi forse non dobbiamo dimenticare che una certa parte di "colpa" ce l'hanno i (nostri) fantasmi». Per intenderci in modo pragmatico, ti riferisci nel caso specifico (e attraverso Caillois) a una dinamica del genere, ovvero: se un uomo, una donna, gioca a mettersi in posa e se magari lo fa spesso rischia di assumere la forma di quella maschera di quella posa non solo esclusivamente davanti alla macchina spettacolare – ma sempre nella società (divenuta spettacolare)? Voglio dire, le pose, il concetto del posare difronte a un mezzo che ti potrà riprodurre, è un concetto ormai solido che di generazione in generazione si è stratificato - passando anche di significato - inizialmente la posa era un atto forzato, nel senso che si utilizzavano degli strumenti (simili a quelli che si possono trovare in un museo delle torture) atti a far si che l'individuo da fotografare rimanesse il più immobile possibile, per come sappiamo, dar spazio alla tecnica (con i sui lunghi tempi) di svolgere il proprio compito. Di qui in poi la posa si è evoluta avvitandosi su se stessa direi - ricopiandosi e rispecchiandosi infinite volte - ed è qui che voglio comprendere meglio quello che dici citando Caillois e i fantasmi «Indossa pure le tue maschere e fai le tue danze rituali, ma sappi che non sono senza conseguenze» Il giocare a «rendersi immagine» (per citare ancora una volta Barthes) può centrare qualcosa col predominio spettacolare?

SG: La questione per me è un po’ a scatole cinesi: certo, puoi vedere il mio riferimento alla maschera rituale come una metafora della posa ormai interiorizzata nell’atteggiamento contemporaneo davanti ai mezzi produttori di immagini, ma anche nella quotidianità dei rapporti (sempre i famosi “rapporti sociali mediati dalle immagini”); la cosa però per me non si ferma qui. La maschera rituale serve per assumere su di sé il mondo esterno, spesso nei suoi aspetti minacciosi, e quindi per difendersene paradossalmente imparando ad indossarli e a utilizzarli: è per questo che la maschera è affascinante e terrificante insieme. La difficoltà a percepirsi come distinti dall’esterno, a percepire un esterno e quindi a sentirsi un soggetto (tematica ben presente nei deliri della psicosi) è il punto cruciale: la società dello spettacolo, o società simulacrale, o virtuale-finzionale, o come tu la voglia definire è in fondo una società in cui questa separazione strutturale del soggetto è messa per l’ennesima volta in crisi con il plus di una sofisticazione tecnologica mai presente in passato. Per cercare di spiegarmi, la domanda potrebbe essere: dove iniziamo noi e dove finiscono le immagini? Oppure dove iniziano le immagini e finiamo noi? Insomma: qual è il confine? Esiste ancora? Ecco: forse la maschera è proprio il marchingegno simbolico che, nello stesso momento in cui ci segnala che abbiamo indossato qualcosa, ovvero l’immagine, (e quindi non siamo “più” noi, o forse non lo siamo mai stati) dandoci in qualche modo la consapevolezza della nostra inconsistenza individuale, nello stesso momento, dicevo, ci procura un senso di protezione perché pensiamo, come lo sciamano, di assumere su di noi il potere dell’immagine e usarlo a nostro vantaggio. Con conseguenze anche molto evidenti e sociologicamente banali: l’ossessione per l’aspetto fisico che diventa un nemico interno (vedi al limite estremo le anoressie o la mostrificazione della chirurgia estetica) ma che viene percepito come uno scudo che ti permetterà il successo sociale e quindi ti renderà potente. Insomma, per chiudere: la maschera è qualcosa di continuamente contemporaneo e ancestrale, complesso, stratificato, dialettico, di cui la posa è solo uno degli aspetti.
Spero di avere almeno un po’ chiarito.
Tutto questo inoltre mi permette di dare un'altra prospettiva alla cosa. Che poi è la seconda strada che tracciavo nella presentazione di Generazione Critica. Non solo la ricerca di una relazione consapevole che scardini il preconfezionato spettacolo per noi topi di laboratorio, ma anche qualcosa di più sottile che tocca qualunque immagine anche la più finzionale e spettacolare. C'è sempre un terzo senso, un illusionismo traumatico (Hal Foster) che nel massimo della costruzione immersiva, illusoria, ci rimanda indietro, dalle perfette cromature della realtà virtualizzata o meglio iperreale, uno sguardo che ci punge. Lo sguardo del fantasma che ritorna, insiste, soprattutto nel trauma: la morte l'abbiamo confinata, clinicizzata, negata, procrastinata. L'abbiamo separata da noi (vedi anche Baudrillard e il suo lo scambio simbolico e la morte) e quindi continua ad assillarci. Ma il trauma insegna e addita. Scampolo di verità inaccessibile, ma che squarcia per un attimo il velo. Questi strappi li trovi dappertutto, come warmhole che si aprono all'improvviso per poi richiudersi subito... parafrasando, un po’ al massacro, Montale: spesso il male di vivere ho incontrato, era il labbro siliconato che si schiude, era lo schermo che mi abbaglia, era il silicio riciclato. (Mi perdonerà il poeta? Non credo. E farebbe bene!)

FB: Sull'ultima parte che hai scritto mi trovo in difficoltà nel ribattere. Non so, qui quello di cui parli mi sembra appartenere al concetto del senso di colpa (cattolico e borghese), che poi a pensarci bene potrebbe essere il solito discorso della vittoria della tecnica sul divino che riemerge anche nel discorso fotografico-rappresentativo perché sempre di tecnica si parla non so...

SG: Effettivamente le questioni che metto in campo qui sono abbastanza oscure. Anche nel senso primo del termine:ovvero indiscernibili, informi. Non credo c’entri il senso di colpa, a meno che tu non voglia portare la cosa sul piano morale. Io cercavo in realtà di riferirmi al fatto che dietro al nostro essere pieni di Simbolico e Immaginario, cioè di Legge e Immagini che si inscrivono in noi (e quindi sono tutt’altro che evanescenti, ma anzi lasciano un marchio indelebile) non può non balenare il Reale della morte. Che non è altro che il sostanziale vuoto di senso che ci abita. Ed è questo che ci punge nel trauma. Ecco: ogni immagine, anche la più finzionale, al limite anche consolatoria, è nello stesso tempo uno schermo che ci protegge da quella puntura traumatica e anche il tramite, attraverso quegli squarci (punctum) di cui parlavo, per il baluginare di questo vuoto indicibile del Reale. Non tutto quadra, insomma. Lo ripeto, siamo qui in un punto oscuro… non per niente sono tematiche messe sul piatto da Lacan. Uno degli oscuri per eccellenza!

novembre - dicembre 2013