Terra di mezzo

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Indice :

1 Scopri tutti gli appuntamenti e i contenuti speciali della rassegna

2 AGRODOLCE

3 SPECCHIO RIFLESSO

4 PELLICOLE

5 Introduzione al primo focus: AGRODOLCE

6 SORRIDI!

7 La fotografia è un elettrodomestico spettacolare

8 Terra di mezzo

9 Lo spettatore come cavia

10 Marco Giusti, testo introduttivo al lavoro Audience di Marco Calò

11 PUBBLICO DI MERDA!




Il fenoscopio di Georges Demeny, 1892



fotografie da animare al fenoscopio, Georges Demeny, 1892



Robert Cahen, Karine, 1976



Gilbert and George, a portrait of the artists as young men, 1972



Thomas Struth, video-portraits (Times Square), 1996-2003



Gillian Wearing, 60 minute silence,1996



Bob Wilson, Voom Portraits, 2007



Adriano Altamira, Marion Harvey che imita la Venere di Botticelli e la bagnante timida, 1976



Nan Goldin, Scopophilia, 2011



Edward Muybridge, Woman Walking Downstairs, 1887



Fabrizio Bellomo www.fabriziobellomo.altervista.org 2009/11



Lech Majewski,I colori della passione, 2011



Sanja Ivekovic, Double Lifeas, 1975/76



TROPENMUSEUM (Olanda) Tableau vivant del 1898



Bill Viola, Emergence, 2002



Edward Muybridge, Cavalli in movimento, 1878



Fidia - fregio del Partenone

Un ulteriore punto di vista sul primo focus della nostra rassegna AGRODOLCE.
Il curatore del progetto, Fabrizio Bellomo, ne parla con Bruno Di Marino, studioso dell'immagine e della ricerca audiovisiva.

FABRIZIO BELLOMO:
Ciao Bruno, c'è una parte del tuo interessante libro Pose in Movimento che trovo molto attinente alla prima parte della rassegna Prosecco e Pop Corn:

"Nel 1891 Demeny mette a punto il fonoscopio, un dispositivo per la visione che – come scrive Tosi – fonde i principi del fenachistiscopio di Joseph Plateau, del tachiscopio di Ottomar Anschütz e dello zoopraxiscopio di Muybridge ed è costituito da due dischi rotanti a diverse velocità sullo stesso asse: uno provvisto di diapositive, l’altro di un otturatore. La scena in movimento può essere vista su un piccolo visore, come il kinetoscopio di Edison. Per registrare le immagini Demeny utilizza comunque i cronofotografi di Marey, trasferendo poi le immagini su disco, attraverso un laborioso procedimento. L’idea centrale del fonoscopio è di realizzare foto di famiglia in movimento e, per aggiungere un elemento di maggior realismo e verosimiglianza, la visione delle immagini è integrata dalla sincronizzazione di voci registrate sul fonografo.

Questa sorta di film sonori ante litteram nelle intenzioni di Demeny «dovevano sostituire gli album fotografici di famiglia che si stavano diffondendo allora come prima tangibile prova della rivoluzione socioculturale portata dall’invenzione della fotografia». La fotografia in movimento (e per di più sonorizzata) serviva così a ricordare i morti come se fossero vivi (lo stesso desiderio che avrà Robert Cahen quasi un secolo dopo), sottolineando la sua natura magica e ancestrale di mezzo in grado di rubare l’anima delle persone".

Nel tuo libro citi Demeny e il suo fonoscopio, sono terribilmente attratto dalla sua invenzione. Come accenni lucidamente tu quasi un secolo dopo un'artista Robert Cahen realizzerà video molto simili a quelli nelle intenzioni di Demeny, ma Cahen è solo uno dei tantissimi che faranno la stessa cosa nel corso degli anni, basti pensare a Screen Test di Andy Warhol (citato nel tuo libro), ma anche ad altri (alcuni parte appunto di Prosecco e Pop Corn) ad esempio l'autoritratto video a portrait of the artist as a young men della coppia di artisti Gilbert e George, ai video ritratti di Thomas struth, alla video fotografia di gruppo di una squadra di polizia londinese di Gillian Wearing 60 minute silence, ad Antonello Matarazzo che è citato sia nel tuo libro e sia fa parte della nostra rassegna con La Posa Infinita, ai più recenti Voom Portraits di Bob Wilson o ad altri video-ritratti di giovani artisti come Gabriele Pesce o i miei video delle finte fotografie ai venditori ambulanti, in rassegna c'è 32 dicembre.
Tutte queste opere, realizzate da autori con biografie molto differenti hanno, secondo me, in comune una sorta di ritorno alle origini di un cambiamento, del cambiamento.
E' come se gli autori di queste opere abbiano spinto il tasto per tornare indietro sulla storia dell'evoluzione del mezzo video-rappresentativo e si fossero fermati poco prima del totale ritorno all'immagine statica, una sorta di involuzione ovviamente inversa all'evoluzione che provavano all'epoca Demeny e compagni, difatti loro spingendo il tasto per andare avanti sulla storia dell'evoluzione si sono fermati poco prima dell'arrivo al cinematografo, la terra di mezzo dove si sono fermati entrambi i gruppi sembrerebbe essere lo stesso territorio, quel poco prima.
Investigare sul passaggio, sulla relazione che c'è fra video e fotografia riporta inevitabilmente a dover vivere (anche inconsciamente) quello stimolante arco temporale che fu la corsa al cinematografo; insomma se un'autore oggi pensa di voler creare commistioni in un'opera attraverso i registri dei due linguaggi, deve essere consapevole che quei giochi di registro sono in qualche modo stati già parte dell'evoluzione che lo ha portato dove è, o meglio a poter utilizzare il mezzo tecnologico video, il solito guardarsi indietro per guardare avanti insomma...
cosa ne pensi?

BRUNO DI MARINO:
La penso esattamente come te. Naturalmente non sempre gli artisti sono consapevoli dei corsi e dei trascorsi, non sempre conoscono la storia delle immagini, e quindi possono arrivarci inconsapevolmente, per intuizione. Il problema è semmai degli storici dell'arte, di quelli del cinema e direi, più in generale, degli studiosi delle immagini. Trovo sia ben più grave che molti di essi non conoscano le sperimentazioni del passato, soprattutto perché - ancora oggi - ragionano per compartimenti stagni. Sono in genere diffidenti o poco curiosi verso certe forme d'arte e quindi non sanno che i lavori di molti artisti contemporanei sono poco originali oppure sono molto interessanti ma anche perché si ricollegano a una stagione antica come quella della cronofotografia. Ora io insisto molto su questo periodo, perché trovo che sia stato piuttosto trascurato. Certo, se ne parla in tutti i libri di storia del cinema o di storia della fotografia, ma come una cosa museificata, non come una cosa viva, che offre molti spunti e potenzialità ancora oggi. Se ne dovrebbe parlare di più in termini concettuali e filosofici, invece. La questione che io ho trattato nel libro, ovvero il rapporto tra immagine fissa e immagine in movimento, è una questione attuale, che oggi assume dei contorni molto interessanti. Dovremmo rifletterci meglio, soprattutto in un'era definita intermediale o post (post-filmica, post-fotografica, post-artistica, post-post-moderna, ecc.). In questo senso il post, per essere meglio compreso, ha bisogno del pre, del pre-cinema, una fase archiviata troppo frettolosamente, poiché non era più fotografia ma non era ancora cinema. Anche questa sospensione, questo limbo, rendono più affascinante gli esperimenti di Marey e di Muybridge.

FB: Bruno concordo, solo un appunto relativo al discorso sulla chiusura in compartimenti stagni in cui si muovono molti studiosi: secondo me questo discorso si può anzi si deve espandere anche agli artisti, lasciarli da parte perché "fanno altro" sarebbe sempre un chiuderli in un compartimento stagno e dargli così un ennesima volta quest'aurea inutile e controproducente alla ricerca tutta. Credo che essere un autore, o essere un critico, o uno studioso e così via... non cambi il motivo primo di quello che si fa, ricerca. La ricerca è quello che queste figure (di solito) dovrebbero portare avanti, quindi un artista dev'essere anche un po' delle altre figure e viceversa, in questo mi sento molto vicino alla definizione "dell'artista odierno" di Mario Costa che nel suo libro "La disumanizzazione tecnologica" utilizza il termine "ricercatore estetico". Io credo (almeno ora mentre scrivo) di essere dentro questa definizione come penso lo sei anche tu e anche altri studiosi con cui sto facendo le stesse conversazioni per la rassegna; penso anche che sia Muybridge che Marey fossero proprio quello che scrive Costa, dei ricercatori estetici, non credi che gli artisti dovrebbero comportarsi come dei veri e propri studiosi, analizzare il proprio lavoro, guardarsi indietro, in avanti come si comporterebbe uno studioso, insomma come sono sicuro ti muovi anche tu?

BDM: Sono assolutamente d'accordo. Il problema degli artisti, rispetto agli anni '60 e soprattutto '70, è che non fanno ricerca, o meglio la fanno ma al minimo sindacale. Hanno un'idea perché gli viene da una lettura estemporanea, prendono qualcosa qui e qualcosa là. Naturalmente non per tutti è così, ovvio, ma la massa mi pare che non si sforzi più di fare una riflessione, anche perché molti sono abituati al fatto che poi sarà il critico a trovarci un contenuto. Allora preferisco gli artisti che sono formali e basta, che sono istintuali, ma anche almeno creano belle immagini, piuttosto che gli artisti che rincorrono un concettuale "di riporto" solo per far vedere che sono colti o che rincorrono la moda e i gusti delle gallerie, ma poi falliscono sia sul piano visuale-espressivo che su quello contenutistico. A proposito di cronofotografia voglio raccontarti un episodio che mi è capitato qualche anno fa: dopo aver visto i lavori di un'artista che lavora molto pittoricamente con la fotografia le ho suggerito di passare al video realizzando qualcosa di molto vicino a Muybridge sul tema del cavallo. Bene, ha preso l'idea al volo, ha realizzato il lavoro e poi ha fatto scrivere il testo e curare la mostra a un altro critico. Ora, a parte la maleducazione di non invitarmi neppure alla mostra, non è che me la sia presa più di tanto, anche perché non faccio il critico o il curatore a cottimo, e le mostre che ho fatto in gallerie private si contano sulla dita di una mano, solitamente ne faccio poche, possibilmente retrospettive e in spazi pubblici. Ma racconto quest'episodio per spiegare come agli artisti basti spesso un piccolo suggerimento per stimolarli alla creazione. Non è certo un reato, credo che il nostro compito sia anche questo, però preferisco in generale gli artisti che hanno le idee chiare e che arrivano a certi risultati dopo lunga e rigorosa ricerca.

FB:Quando ho letto "Ora io insisto molto su questo periodo, perché trovo che sia stato piuttosto trascurato. Certo, se ne parla in tutti i libri di storia del cinema o di storia della fotografia, ma come una cosa museificata, non come una cosa viva, che offre molti spunti e potenzialità ancora oggi" mi sono sentito in completa empatia con la tua affermazione e ho collegato, in modo forse un po avventato un paio di lavori, che teoricamente non dovrebbero avere nulla a che fare con quel periodo, ma che forse analizzati in un certo modo, hanno li le proprie radici e non solo per l'evidente sovrapposizione formale; sto parlando di alcuni collage di Adriano Altamira, del lavoro di Nan Goldin Scopophilia e di un immagine parte di un mio lavoro web. In questi lavori, emerge una riflessione sulla genealogia dell'immagine; la stratificazione del concetto di posa in questo tipo di opere diventa evidente, ma non è di questo che voglio discutere con te, piuttosto di quanto questi lavori non siano altro che delle cronofotografie concettuali, voglio dire: queste griglie e comparazioni ragionando sulla genealogia delle immagini, contengono ovviamente pose molto simili, però mai uguali, il che le accomuna visivamente alle griglie della cronofotografia, in secondo luogo il discorso sul tempo, fra un immagine e l'altra ci possono essere diversi secoli al posto degli attimi della cronofotografia, ma sempre di uno scarto di tempo si tratta.
Quindi quando scrivi che quel periodo è stato trascurato e non trattato come una cosa viva, pensi che collegamenti di questo tipo possano essere attinenti?

BDM: Una delle opere che hai citato, Scopophilia, afferisce soprattutto al genere del tableau vivant e quindi a un rapporto con la pittura. Certo, la consequenzialità delle fotografie di questo lavoro della Goldin ricorda le fotografie di Muybridge e Marey ma comunque il modello resta una ricerca sull'iconografia e su come essa possa, anche in modo naturale, ritrovarsi nel quotidiano. Diciamo che la messa in scena con immagine reali di opere pittoriche è un genere forse un po' troppo abusato, tanto nel cinema/video che nella fotografia che nelle arti visive, naturalmente ciascuno lo interpreta a modo suo, slittando verso l'installazione o la performance, oppure ponendo l'accento sul tempo/movimento: penso alle opere di Bill Viola che in alcuni casi corrono il rischio di sfiorare il kitsch, una dimensione iperrealistica da new age. In linea di massima preferisco lavori, fotografici o audiovisivi, in cui il riferimento all'opera pittorica sia più larvato, non troppo esplicito e sfacciato, però è pur vero che - perfino nel videoclip musicale - è sempre un divertimento vedere tableaux vivants. Ci sono poi casi un po' troppo ridondanti, dove la saturazione eccessiva affascina ma al tempo stesso infastidisce, penso a Lech Majewski e al suo film ispirato ai quadri di Bruegel.
Il lavoro tuo e quello di Altamira naturalmente c'entrano poco con i tableaux vivants, sono innanzitutto degli studi sul ritratto che, a distanza di epoche storiche, non muta nelle modalità della messa in scena, replicando una serie di stereotipi. Devo dire che queste associazioni sono sempre stimolanti, perché sono di fatto un saggio in forma di immagini, dicono molto di più di tante teorie sull'iconografia. Anche il lavoro della Goldin è notevole, se non altro per la sua naturalezza: anche se l'artista abbia fatto mettere volutamente in posa le sue modelle pensando poi di associarle a capolavori della storia dell'arte, conoscendo i modi e le forme con cui documenta la realtà, il quotidiano, vivendo a stretto contatto con i soggetti che riproduce, si ha comunque l'impressione di una casualità. Insomma l'associazione è fatta a posteriori, non a priori e quindi la composizione complessiva è ancora più convincente e l'impatto ancora più forte.

FB: In un modo molto simile Sanja Ivekovic nella serie Double Lifeas del 1975/76 fa un parallelismo fra delle sue fotografie della "vita reale" con una serie di immagini prelevate da settimanali dell'epoca (molti italiani) mostrandoci delle similitudini inquietanti, ancor più inquietanti quando si leggono le date delle varie coppie di immagini e si scopre che quelle relative alla sua vita privata sono antecedenti a quelle dei giornali.
qui un link ad alcune immagini della sua serie Double Lifeas
http://www.moma.org/explore/inside_out/2010/04/15/new-at-moma-sanja-ivekovic-s-double-life
La Goldin prende delle immagini scattate per altro e le accoppia a dipinti posati della collezione del Louvre, la Ivekovic prende delle sue immagini (dei suoi ritratti privati) scattate precedentemente e le accoppia per similitudine a dei ritratti posati prelevati da riviste patinate anni '70, in entrambi i casi (come dici tu) questo fare a posteriori, sembra essere la vera forza dei lavori, come se questo "a posteriori" li liberi dalla (se pur remota) possibilità di esser entrambi definiti pretestuosi e ci pone ancora una volta di fronte alle domande su cosa sia posa e su cosa sia reale.
Per tornare al discorso da cui in qualche modo siamo partiti, trovo indicativo il tuo collegamento ai tableaux vivants, un'altra forma d'arte al confine, fra teatro e pittura quest'arte da palcoscenico - tra fotografia e cinema la cronofotografia, in entrambi i parallelismi lo scarto principale è il movimento (l'attore nel teatro e la pellicola al cinematografo).
Qui, di nuovo, è impressionante ragionare su come si debbano rivedere di nuovo con occhio/prospettiva differente alcune opere video (degli stessi autori contemporanei citati in relazione a Marey - su tutti Wilson e Viola), riguardo ai tableaux vivants, di nuovo un periodo di commistioni ci rimanda alle contaminazioni fra immagine fissa e immagine in movimento e a quanto queste siano radicate nella storia e nell'evoluzione della rappresentazione tutta, di qui forse l'eterna-contemporaneità dell'argomento; e se si prova a guardare ancora più indietro? per puro caso, durante questa nostra conversazione via web, un mio caro amico mi ha regalato un viaggio ad Atene, così mi sono ritrovato fra una mail e l'altra, di fronte al fregio di Fidia (quasi interamente replica perché le parti originali più interessanti sono state trafugate al British Museum) al museo del Partenone, rientrato in albergo ho provato sul mio schermo a mettere una di fianco all'altra l'immagine della tavola del cavallo di Muybridge e un'immagine del fregio di Fidia, il risultato di questo parallelismo mi ha notevolmente sorpreso;
citando l'opera dell'artista greco Panagiotis Giakas potremmo dire che "l'originalità di un'opera d'arte è direttamente proporzionale all'ignoranza dello spettatore"*.

*l'opera di Panagiotis Giakas è stata realizzata per la mostra Last Minute, Lodi 2002 curata da Lino Baldini e Lara Facco

dicembre 2013 - gennaio 2014