Si può rifare la storia?

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Indice :

1 Si può rifare la storia?

2 La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

3 La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

4 Il tempo interviene sul lavoro: la documentazione é l'opera?

5 Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

6 Altri sguardi/note critiche al margine


































Storia a puntate della singolar tenzone ancora in corso tra Chiara Mu ed il suo spazio di intervento, al Museo CIAC, nel Castello Colonna di Genazzano, Roma

"Vendetta"
Installazione Site-specific per La Colata Room a cura di Claudio Libero Pisano


Non è stato e non è un rapporto facile, questo tra noi.

Non è un luogo che mi ha accolto, non uno che abbia gridato con distinte luci ed ombre ogni sua possibilità. Al contrario, la spazio ha congiurato nell’indistinto, nel grigio e nell’umido che gli sono propri, impedendomi spesso di averne una reale visione d’insieme.

La decisione di scrivere della mia complessa esperienza al castello in fasi cronologicamente distinte origina dal desiderio di mettere a fuoco le problematiche concettuali emerse in questo processo.
Molte delle istanze che ho avvertito rimangono aperte ed irrisolte e nel pubblicare questi interventi la mia intenzione é quella di suscitare un dialogo, un confronto con chiunque desideri intervenire su questioni che definiscono la pratica site-specific in modo radicale.
Si tratta di una modalità di lavoro per sua natura effimera ed ontologicamente fuori da logiche di mercato, non sostenuta dal settore pubblico e non profittevole per quello privato.

Ad una carenza generica di discorso sulla time-based art, in questo caso arte che si produce e definisce per un contesto ed un tempo dato, rispondo in chiave empatica, aprendo la mia esperienza allo sguardo degli altri e lasciando che ogni dubbio, ogni mia incongruenza, ogni decisione ostinata e silenzio vengano fuori.


Chiara Mu - #1: Si può rifare la storia?


Lo spazio, una stanza che apre sul cortile del castello, porta il nome dell’attività che avveniva all’interno, ovvero “la colata”. Si tratta di una tecnica secolare usata per smacchiare i panni, facendo filtrare un certo liquido tra i tessuti.
Il liquido si otteneva bollendo la cenere in acqua per due ore e poi, se unito a due parti di grasso animale, solidificava in sapone. Nella stanza della colata si operava dunque un lavoro faticoso e continuo, a carico delle donne in servizio al castello.
Non avendo alcun artista prima di me fatto i conti con questa pregressa identità dello spazio, ho voluto concepire un progetto che permettesse all’inconscio collettivo del luogo di riprenderselo, vendicandone ogni dimenticanza.
Ho immaginato il sapone emergere dal pavimento e dilagare, bucando le pietre, filtrando dai muri rotti e camminando verso l’esterno.
Ho considerato che fosse filologicamente appropriato produrre il sapone come si faceva un tempo, cercando di ripercorrere fisicamente la memoria storica dello spazio.

Ho iniziato il mio lavoro il 3 di dicembre, ho studiato il metodo tradizionale per produrre il sapone, ho cercato aiuto tra i paesani per reperire una bombola a gas, un treppiedi, la cenere ed il grasso.
Dopo aver raccolto i primi secchi di cenere, ho scoperto che quella dei fornai non era utile allo scopo, poichè ottenuta bruciando fascette di legna che producono solo brace.
Ho dovuto trovare un luogo fuori paese dove procurarmene di bianca, proveniente solo da ciocchi di legna più compatta. Il processo di cottura è durato due giorni, la proporzione per produrre la colata era una parte di cenere per cinque di acqua per 2 ore di bollitura.
Grande disappunto il primo giorno, nel realizzare che su 20 litri d’acqua ottenevo a mala pena un litro di liquido. Ho tentato il giorno dopo a fuoco più basso, sperando in una riduzione minore dell’acqua ma non ho ottenuto la sostanza giusta; a fine cottura va infatti assaggiata e deve “pizzicare”, mentre il mio secondo tentativo non pizzicava affatto, dunque mi ritrovavo con più liquido ma senza la giusta composizione chimica e…con un auto-avvelenamento in corso.
Alla fine del secondo giorno infatti sono tornata a casa ed ho accusato vomito, mal di gola, occhi brucianti e generale intossicamento.
Ricercando più approfonditamente il mio stato ho scoperto che cuocendo la cenere per due ore si sprigionano i vapori della soda caustica; li ho inalati mentre cuocevo la mia mistura, cercando di trovare un certo conforto nel vapore visto il freddo endemico dell’inverno e della stanza, senza vetri e senza porta.
Collocare il grosso paiolo di rame - dentro cui storicamente si cuoceva la cenere - sotto la cappa del camino aveva dunque una sua logica precisa: non solo stare sul fuoco ma anche non diffondere i vapori nell’ambiente.
La conclusione finale è stata deprimente, il processo di cottura era troppo lungo e troppo poco fruttuoso dal punto di vista della quantità di liquido prodotto.
Difficile in questo modo poter attuare il progetto originario rispettando i tempi, ovvero ricoprire i sedici metri quadri della stanza con il liquido ottenuto da questo procedimento e dalla sua successiva amalgama con grasso animale.
Mi sono concessa un giorno di pausa. Ho riflettuto sugli avvenimenti, ho considerato che da sola e senza budget – ovvero senza una squadra di lavoro composta da più persone e con migliori mezzi – non avrei potuto realizzare ciò che avevo elaborato. Il museo infatti non mette a disposizione fondi per la produzione di lavori nella project room.
Ho risentito le voci dei paesani nella mia testa (i numerosi che sono venuti sistematicamente a curiosare mentre cuocevo la cenere), ho pensato ai loro consigli “prescrittivi” che attingevano argomenti non solo dai ricordi d’infanzia delle proprie nonne (e quante nonne mi è sembrato di conoscere attraverso i loro racconti!) ma anche dalla convinzione e soprattutto dall’orgoglio di possedere una conoscenza antica, legata alle proprie origini contadine.
Ho ripreso alcuni di questi incontri, trattenendo per me un patrimonio di scambi e dialoghi tra noi, un materiale video utile a raccontare il mio procedimento ma anche il suo fallimento e la necessità degli abitanti di comprendermi in questo percorso, evocando un passato che proprio sotto i loro occhi critici non sono stata in grado di ri-attuare.
I più scettici mi hanno bonariamente canzonato per l’entusiasmo e l’ingenuità; qualcuno mi ha proposto di lavorare per la Proloco, dando vita a rievocazioni storiche di vario genere, qualcun altro mi ha rimproverato di non saper fare la “cosa vera” come si faceva un tempo.

Alla luce di quest’esperienza, il cuore del mio problema è diventato: aveva davvero un valore per me rifare la storia?
Avendo focalizzato il mio intervento sul recupero di una memoria seppure in chiave simbolica, ho creduto importante la necessità di essere filologicamente corretta. Ma non ci sono riuscita, sentendo di aver sforato l’inquadramento concettuale dentro cui avevo concepito il mio intervento.
Era rilevante per me che la “vendetta” si attuasse come pensiero sul passato anche attraverso il suo come, il metodo di produzione del materiale in uso.

Ma poi…perché?
Con quale arroganza l’artista arriva in luoghi che non gli sono propri ed impone una sua visione, una sua lettura, appropriandosi di metodologie di indagine degli antropologi e della psiconalisi per inserirsi in un contesto dato e pretendere di avere qualcosa da dire. Perché assumere che il proprio intervento faccia davvero la differenza nel leggere un luogo specifico in altro modo? Perché imporre risposte a domande che non sono mai state poste?
Chi ha detto che l’artista abbia maggiore urgenza e legittimità nel voler riattivare tracce del passato di quanto non ne abbiano gli abitanti del luogo nello scegliere come e cosa ricordare della propria storia?

Metto a fuoco riflessioni che riportano al testo seminale di Hal Foster “The artist as Ethnographer” del ’96, ma anche agli scritti di Miwon Kwon, incentrati sull’analisi della pratica site-specific osservando il posizionamento concettuale degli artisti, definiti ormai “nomadi” dalla condizione post-moderna e globalizzata attuale.
Si tratta di elaborazioni teoriche che hanno avuto un peso sostanziale negli ultimi 15 anni nel definire le diverse fasi dell’arte site-specific. Si introduce un momento considerato “iniziale” in cui l’artista cerca una rispondenza fenomenologica con un luogo in un contesto dato, non deputato all’arte, basandosi sulla fisicalità dello spazio - espressa del lavoro e da chi lo fruisce - e dalla temporaneità dell’opera (dunque utilizzando tempo e corpo come frame concettuali).
Si passa poi ad una fase successiva, definita situation-specific, frequentemente caratterizzata da interventi relazionali che prediligono una struttura più narrativa, il racconto di una ricerca sul campo che coinvolge comunità locali e di cui spesso l’artista preferisce non rivendicare una centrale autorialità, a favore invece di un’assorbimento del proprio lavoro in dinamiche sociali e culturali di condivisione ed appartenenza.
In ogni contesto in cui l’artista é chiamato a produrre “significato” con elementi già esistenti, si mette in discussione e/o in guardia sulla capacità dello stesso di poter collocare il proprio lavoro in un dialogo reale con il contesto; non in chiave arrogante, paternalistica o accondiscendente verso l’altro da sè -ovvero luogo e comunità- ma in un’ottica di condivisione reale della diversità prodotta quando si mettono a confronto molteplici identità culturali.

Lucy R.Lippard ha scritto a lungo sul pericolo di produrre lavori retorici quando l’artista ricalca lo stereotipo del sentirsi “appartenente” ad un luogo che invece non possiede, che sceglie di penetrare quel tanto che é conveniente per essere considerati socially engaged e politicamente corretti per poi riutilizzare la stessa formula in mille altri contesti simili.
A suo avviso l’artista dovrebbe invece darsi generosamente, fare buon uso della propria visionarietà, riuscendo in modo prezioso a rendere visibili le connessioni sottese tra luogo e significato per coloro che le hanno perse ed offrendo una lettura alternativa alla cultura dominante del contesto.

Nella dinamica di scambi e reciprocità che dunque dovrebbero verificarsi, una delle identità in gioco è però la mia e caratterialmente rispondo alla perdita con il recupero, lanciandomi nel paradosso di voler ri-animare l’inanimato, lo spazio, l’angolo, la stanza che improvvisamente parla, ascolta, guerreggia con me. Ma si può, davvero, tornare indietro?
Ha senso confliggere con il tempo? La necessità spontanea che avverto, nel voler indagare le origini di ogni luogo che incontro, é il frutto ossessivo di questo periodo storico, fortemente connotato da una velocità estrema nel produrre e ricevere input, dal dover metabolizzare informazioni incessanti su tempo e spazio e dalla conseguente ansia di perdita che mi tiene, perdita di memoria collettiva locale, di spazi che non esisteranno più, che stanno già mutando in altro.
Nel caso specifico di Genazzano a perdersi – ma come in centinaia di altri paesi italiani – è la cultura contadina che resistenzialmente sopravvive poiché ‘nominata’ da chi ci vive e che sporadicamente guadagna ossigeno per turismo o per il desiderio di alcuni – ma pochi – di contemplare un ritorno alla natura, attivando percorsi di decrescita economica e culturale.

Dunque, per affrontare la perdita avrei potuto usare la perdita; avrei potuto editare il girato, comporre la storia di un tentativo fallito, il mio, di tornare indietro e richiamare le azioni delle donne che hanno definito quello spazio con la propria fatica secolare. Avrei potuto proiettarlo nel luogo medesimo, utilizzando il momento della mostra come un contesto preciso di riflessione sul tempo, su come il suo incedere sembra progressivamente spezzare radici. Avrei attuato la mostra senza dispendio economico, nei tempi stabiliti e trasformato il lavoro che mi ero prefissata, materico e simbolico, in un racconto per immagini del fallimento di questo percorso; definendo come “opera” non solo il processo da me attuato ma tutto ciò che si era mosso intorno, il discorso con gli altri e la loro partecipazione al mio essere lì.

Eppure ho deciso di no.
Ho deciso, invece, di rivendicare un controllo ed una autorialità totale di ruolo e azione nel mio praticare quel luogo, conscia che non esistono molti contesti artistici a Roma e dintorni che offrano project rooms dove poter intervenire, spazi realmente aperti a contaminazioni e trasformazioni di forma e senso. Ed io ho una fame atavica di luoghi dove poter sperimentare visioni ed offrire uno spazio ed un tempo di con-tenimento a chi le fruisce.
Inoltre, avendo già attuato in molti dei miei precedenti lavori un approccio narrativo-relazionale (il cui fulcro verte sul rendere visibili dinamiche sociali e culturali esistenti legate al contesto), ho voluto non percorrere una strada nota, decidendo in questo caso di non farmi ostacolare dalla rinuncia della mia necessità filologica per confrontarmi invece con la materia in modo frontale.
Ho deciso di abbracciare il mio desiderio di imporre una visione simbolica dello spazio allo spazio, entrando così in una logica paradossale di scontro epico con lui, fatto di mie strategie, molto lavoro di braccia e di sue sottrazioni di visioni e di massa…

Maggiori informazioni sulla mostra:
Museo CIAC, Castello Colonna a Genazzano, Roma
14 Dicembre 2013 - 2 Febbraio 2014
http://www.undo.net/it/mostra/171609