La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

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Indice :

1 Si può rifare la storia?

2 La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

3 La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

4 Il tempo interviene sul lavoro: la documentazione é l'opera?

5 Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

6 Altri sguardi/note critiche al margine










































Il Site-Specific e la Sua Vendetta

Storia a puntate della singolar tenzone ancora in corso tra Chiara Mu ed il suo spazio di intervento.

"Vendetta"
Installazione Site-specific per La Colata Room a cura di Claudio Libero Pisano


La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

Dopo un giorno di pausa sono tornata al Castello più che risoluta nel voler realizzare la mia visione dello spazio:

“un progetto che permettesse all’inconscio collettivo del luogo di riprenderselo, vendicandone ogni dimenticanza. Ho immaginato il sapone emergere dal pavimento e dilagare, bucando le pietre, filtrando dai muri rotti e camminando verso l’esterno, riconquistando il suo spazio e la sua presenza non più negabile”.

Ho ricominciato dunque da un altro tipo di materiale che non fosse il sapone prodotto artigianalmente. Avrei potuto investire nell’acquisto di litri e litri di sapone liquido di Marsiglia ma la mancanza di budget non mi ha fatto considerare questa opzione come valida.
Da conversazioni notturne con mia madre – restauratrice professionista – é invece emersa l’ipotesi di fare delle prove con un composto a base di colla di zucchero (la colla da parati) e polpa di carta micronizzata.
Questo composto viene regolarmente utilizzato sotto forma di impacchi nel campo del restauro pittorico e lapideo per assorbire ogni impurità da superfici sporche, consumate da polvere, depositi vari e agenti atmosferici.
Ho dunque considerato che concettualmente fosse pertinente utilizzare un materiale, seppure non utile a pulire indumenti umani, in grado però di lavare la “pelle” della stanza.
Ho fatto delle prove permettendo alla colla di raggiungere una buona densità e unendovi la polpa di carta, ottenendo cosí un composto cremoso, bianco-lattice, con un volume che potevo incrementare o diminuire a piacimento.
E tutto mi é sembrato molto sensato, anche collocarmi nello spazio ed attuare un lavoro fisico per ottenere la sostanza, seguendo (ancora…) la suggestione romantica nella mia testa di evocare quel lavoro incessante di donne, precedente a me e fortemente identitario del luogo.
Cosí ho acquistato 17 pacchi da 250gr di colla da parati con funghicida annesso (per evitare, tra acqua ed umidità, il proliferare di attacchi microbiologici su tutta la superficie dell’installazione) e 20kg di polpa di carta.
In questa fase ho anche guadagnato un’assistente, Tiziana Di Santo, studentessa della Rufa (Rome University of Fine Arts), disponibile a scambiare tempo e braccia per ottenere esperienza sul campo e crediti formativi rilasciati dal Museo.

Abbiamo iniziato un lavoro serrato che é durato tre giorni, in cui la superficie calpestabile della stanza é stata coperta da una pellicola di plastica, al fine di non permettere al pavimento di assorbire il composto. Ho iniziato ad utilizzare questo materiale morbido prima di tutto sui muri, facendolo colare dalle maggiori rotture dell’intonaco.
La stanza della Colata non ha subito un restauro come in precedenza tutto il Castello, é stata invece utilizzata per anni come deposito di materiali lignei fino a prendere fuoco sette anni fà, acquistando quei muri grigi e quella dimensione “rovinistica” che attrae e ha attratto l’immaginario di molti artisti prima di me. Nell’intervenire sulla superficie dei muri, non omogenea e piena di crolli, ho dunque provocato delle colature che ho dovuto applicare a più riprese, verificando che dopo sole ventiquattro ore la consistenza morbida e grumosa della sostanza era cambiata, poiché il muro assorbiva la materia fino a ridurla in una sottile pellicola.
Ho successivamente lavorarato sulla zoccolatura che circondava il perimetro dei muri e poi ho prodotto al centro della stanza una “sorgente di sapone”, ovvero un buco, sollevando lastre di pietra che coprivano una parte del pavimento e scavando al di sotto. Ho poi ricoperto buco e pietre con la sostanza che idealmente doveva sgorgare proprio da lí.

La mattina dopo ho avuto la mia prima revisione con il curatore del progetto, nonché direttore del CIAC, Claudio Libero Pisano.
Essendo sempre andata al castello nel pomeriggio per lavorare fino a tardi la sera, é stata quella la prima visita fatta ad una buona ora del mattino anche per me e la mia assistente, consentendoci di vedere la stanza con la luce che filtrava da finestra e porta anziché con le ombre di quella artificiale.

E qui é emerso un problema sostanziale, che mi ha posto di fronte ad un ennesimo bivio su come portare avanti la realizzazione di questo progetto: tutto il lavoro fatto, ai miei occhi e agli occhi di Claudio, spariva dal punto di vista cromatico, scivolando in un grigio indistinto e letteralmente perdondosi alla vista, come se venisse “assorbito” dai volumi e dalle ombre della stanza.
La percezione che abbiamo avuto entrambi é stata che avrei anche potuto continuare per i restanti due giorni e mezzo a produrre materia bianca, aumentandone il volume di molto, ma probabilmente non si sarebbe distinta dal resto, rimanendo “morta” nello spazio.

Claudio ha insistito notevolmente sul voler vedere “per una volta in quello spazio” un intervento che fosse in grado di non farsi ingoiare visivamente dalle sue dimensioni e dalle sue luci.
Mi ha chiesto di intervenire in modo risoluto per poter dominare il luogo invece del contrario, avendo entrambi già concordato in precedenza sul non realizzare un lavoro che assumesse la stanza come mera scenografia per poi diventarne talmente parte da “ritornare” a lei, quasi fosse quello spazio davvero esteticamente “incorruttibile”.

Claudio aveva già proposto l’idea del colore in precedenza, immaginando questo tipo di problema emergere prima o poi nel mio processo di realizzazione; infatti colorare la materia e' divenuta a quel punto un’urgenza, l’unica soluzione possibile ai nostri occhi per rendere marcata una differenza tra il contesto ed il mio intervento.
Avevo con me un inchiostro rosso per fare delle prove, ma la retorica del rosso-sangue nello spazio dove si sono consumate le donne per secoli non avrei mai potuto sposarla.
Claudio ha vivamente consigliato un “rosa-saponettaLux-anni‘70”, ragionando con me su uno scarto concettuale e visivo che riportasse i fruitori dell’opera ad una conoscenza più contemporanea e domestica dell’idea di sapone.

Riflettendoci su il rosa poteva, in effetti, funzionare da un punto di vista logico e visivo; per altro mentre ragionavo su questo passaggio mi sono trovata in bagno, a lavarmi le mani proprio con del sapone liquido rosa. L’ho guardato scivolarmi tra le dita ed ho compreso che poteva essere una scelta sensata e razionalmente valida, seppure mai avrei associato quel colore a quel spazio.
E, dopo molto discutere con chi mi stava intorno, l’ho razionalmente abbracciata, portando avanti il lavoro in rosa fino alla fine, ma non riuscendo a gradire la vista di cio' che ne veniva fuori, ogni giorno più corposa.
L'ho guardata e percepita come una nota stonata sia dal punto di vista della “mia estetica”, sia da un punto di vista interpretativo di cosa io stessi davvero facendo subire allo spazio.

E dunque, posto di fronte alla scelta tra co-esistere nel luogo, rispettandone l’atmosfera ed il suo linguaggio di ombre e decadenza o antagonizzarlo volendone marcare il “possesso”, quale posizione l’artista può sensatemente occupare senza sentirsi violento rispetto al contesto ma ponendosi in reale dialogo con l’altro da sé? Chi é l’altro da sé in questo caso? È Lo spazio? È il curatore che presume di vedere il luogo con altri occhi rispetto a chi vi opera all’interno? E con quali urgenze?

A disagio o meno, ho scelto di pormi in chiave antagonista alla fenomenologia dello spazio dato, ho rifiutato la possibilità di continuare a produrre il mio progetto in una modalita' estetico-visiva armonica con gli elementi più caratterizzanti della stanza.
Ho cosí rinunciato alla possibilità concreta di realizzare un’installazione “accogliente”, aperta ad un tempo di fruizione più lungo e meditato poiché, nella percezione di un lavoro “mimetico”, si tende naturalmente a voler cercare il dettaglio, muovendosi più vicino per mettere a fuoco la visione.

Questo é stato un aspetto determinante di molti dei miei lavori precedenti, il voler offrire un tempo di fruizione assolutamente personale, complesso, che richiedesse impegno perché alimentato da alcuni dettagli ed elementi non immediatamente visibili.
Il "darsi dell’opera" - come direbbe Mario Perniola nel testo per me seminale “Il sex appeal dell’Inorganico” - é a mio avviso un processo intenso, sensuale nella capacità che dovrebbe avere di coinvolgere emozionalmente e concettualmente l’attenzione di chi lo vive.
La strategia che generalmente metto in campo dal punto di vista installativo vuole accogliere, portare dentro lo spazio il visitatore e permettere una fruizione intima, una molteplicità di sguardi e punti di vista, invece di comparire frontalmente, per contrasto con il luogo, e invece di darsi da un’unica prospettiva, in una sola visione.

Palesemente pero' in questo caso ho camminato nella direzione opposta, sentendomi di occupare una posizione non troppo lontana da quelle moderniste che ho sempre contestato; la presunzione di avere ed imporre un unico punto di vista, detentore di una verità asserita dello spazio e di come questo debba essere univocamente percepito dagli altri.
Ancor di più Clement Greenberg risuona nelle mie orecchie, con le sua rigida categorizzazione di cosa fossero le pratiche “alte” e cosa quelle “basse”, se davvero affronto onestamente il giudizio interno e severo che ho dato su quel rosa, il rosa saponetta…una scelta che mi é sembrata del tutto “pop”, ben lontana dai miei canoni estetici passati ed attuali.
Una scelta cromatica “fuori-luogo” nel vero senso della definizione, ma soprattutto fuori da me. Questa considerazione mi ha disturbato per tre giorni e molte ore di lavoro, aprendo altre riflessioni a mio avviso centrali sulle contraddizioni emerse in questo processo creativo:

Quanto é difficile, anche per artisti abituati a misurarsi con pratiche site-specific, mettere in discussione un senso di “stile” e lo stereotipo che, volontariamente o no, ci si costruisce del proprio modo di lavorare?
Cosa vuol dire disarticolare la necessità tutta interna di aderire ad una visione specifica di materiali e forme (perché questo restituisce un senso di appartenenza e identità, non solo nel pensarsi ma anche a chi fruisce il lavoro) quando le condizioni esterne ti impongono un confronto serrato e necessario con altre urgenze?
Eppure la pratica site-specific, che corrisponde spesso a lavorare in luoghi non deputati per l’arte, impone una continua ri-definizione dei propri confini, perché tempo e spazio sono chiamati ad interferire, ad intervenire con eguale diritto ed intensità e la mediazione sul campo nel realizzare l’opera richiede a volte una capacità creativa ben più versatile e rapida di quella esercitata nella fase di elaborazione del progetto.
Ma c’é un’ulteriore difficoltà: quanto é davvero giusto produrre un lavoro che soddisfa problematiche di natura concettuale ma che, ciò nonostante, non piace a chi l’ha concepito?
Può permettersi l’artista, in un contesto in cui impiega ogni risorsa mentale, fisica ed economica per la produzione del proprio lavoro - soprattutto quando non vuole essere intrattenimento bensí ricerca- di non amare, non godere di ciò che fa?

Abbiamo continuato a lavorare fino a Venerdi 13 alle ore venti, inauguravamo il giorno dopo. Una volta finita la posa dell’ultimo secchio di materia rosa, abbiamo svuotato lo spazio da tutto il resto. A guardarla cosi mi sembrava una gigantesca spianata di cera, un "confettone". Poi ho fatto ciò che va fatto all’ultimo, ovvero intervenire sull’illuminazione studiando ogni possibilita'.
Ad un certo punto, mettendo la lampada a terra nell’unico angolo possibile, ho finalmente “visto” il lavoro. La luce di taglio ha restituito il volume ed il dramma che non mi riusciva più di scorgere in quella massa colorata; il rosa si é venato di ombre e oscurità e finalmente ciò che stavo guardando é diventato forza in movimento sotto i miei occhi, sapone filtrante pronto a debordare fuori con indicibile, inesorabile lentezza.

Maggiori informazioni sulla mostra:
Museo CIAC, Castello Colonna a Genazzano, Roma
14 Dicembre 2013 - 2 Febbraio 2014
http://www.undo.net/it/mostra/171609