La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

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Indice :

1 Si può rifare la storia?

2 La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

3 La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

4 Il tempo interviene sul lavoro: la documentazione é l'opera?

5 Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

6 Altri sguardi/note critiche al margine


































L’inaugurazione dell’installazione è avvenuta sabato 14 Dicembre alle 11 e in coppia con la nuova mostra in visione all’interno del castello.
In questo caso si trattava di un’intensa personale di pittura: l’opera omnia di Antonello Bulgini (1960-2011), artista formidabile e caro amico.
Ho avuto modo di partecipare alla sua mostra con un’azione performativa live, dedicata ad suo quadro molto significativo per me.
Ho dunque elaborato e prodotto la performance ma non ho potuto eseguirla io, poiché impegnata giù di sotto, nella “gestione” dell’installazione.
La Colata room non dispone di alcuna guardiania e il giorno dell’inaugurazione è buona norma per l’artista trovarsi accanto alla propria opera; per parlarne, introdurla ai visitatori ed evitare il verificarsi di spiacevoli incidenti.
Nel caso di “Vendetta” era necessario: impedire ai visitatori di camminare sulla massa rosa (non volendo il verificarsi né della distruzione dell’opera né di pericolose scivolate); impedire che toccassero la materia, deformandone la plasticità assunta e dunque la forma; evitare che una volta toccata la materia si pulissero le mani sui muri, macchiandoli radicalmente (il composto usato infatti penetra nell’intonaco e nella pietra e ne sbianca la superficie); impedire, infine, che i visitatori si sentissero completamente respinti da tutti i miei “no”.

Era lampante che, seppure mi trovassi lì con un certo obbligato candore a spiegare la genesi di quel lavoro, il mio vero ruolo era quello di operare una censura sulle più immediate reazioni dei fruitori, che fossero adulti o bambini.
Sono intervenuta esercitando un maniacale controllo, sia sull’opera che sul famoso “altro da me”: il fruitore, suggerendogli in modo perentorio dove collocarsi nello spazio calpestabile, se a destra o a sinistra della lingua di “sapone” che puntava verso l’entrata. Ho dunque assunto una posizione severamente normativa e l’ho ritenuta istintivamente necessaria in quel contesto. Ma non é un comportamento in cui mi riconosco, non uno in linea con ciò che mi porta a produrre installazioni da anni.

Claire Bishop ben spiega in “Installation Art” (Tate Publishing, 2005) come l’immediatezza percettiva, la partecipazione fisica e la consapevolezza acuta che si sviluppa in relazione alla presenza di altri osservatori nello stesso spazio, rendono il fruitore parte fondante del processo di esistenza dell’opera, permettendo scelte diverse all’interno; come muoversi, cosa esperire, la tattilità…compreso affezionarvisi – io dico spesso “farci casa all’interno”- come estremo atto di appropriazione del lavoro.
È la produzione del lavoro in sé che comporta, per chi lo crea, la considerazione di un’altra soggettività coinvolta e obbliga a ragionare sulle possibili strategie relazionali che spazio, oggetti e corpi possono stabilire tra loro nella definizione dell’opera.

Provenendo da una formazione teatrale, conosco bene la differenza strutturale che intercorre tra chi agisce la scena e chi la osserva; eppure ho sempre ritenuto che il luogo più interessante da praticare per me non fosse il palcoscenico bensì la platea.
L’atto che considero esteticamente rilevante è quello compiuto dall’artista quando è in grado di com-prendere nel suo lavoro colui che ne cerca la presenza per fruirlo e quando l’opera - “aperta” esattamente come Umberto Eco narrava negli anni ‘60 – è definita dall’incontro/scambio tra queste due alterità.
Produrre installazioni vuol dire concepire e realizzare un’opera dentro cui altri sono obbligati ad entrare, ad esistere come corpo, invece che esclusivamente come ‘portatori di occhi’; ne va vissuto l’attraversamento ed il conseguente abbandono, va esperito quello spazio/tempo utilizzando ogni senso e si è costretti, non fosse altro perché si è dentro, a considerarsi soggetto dell’agire e non solo mero ricevente. Sono così consapevole di questi aspetti da imporre molto spesso una fruizione delle mie installazioni per un solo visitatore alla volta e quando posso senza limiti di tempo. Questa impostazione è volta ad offrire del lavoro la percezione più intima e personale possibile.

Nel contesto di “Vendetta” però, osservando come l’ho pensata e come l’ho voluta far fruire durante l’inaugurazione, mi ha turbato non poco avvertire la contraddizione tra l’etica che mi è propria di voler aprire il lavoro agli altri ed il mio impedirglielo, non autorizzandone una fruizione personale e diretta della stessa.
È legittimo sostenere – e lo si fa ontologicamente con questo tipo di pratica - di voler accogliere la presenza dell’altro da sé senza permettere una reale libertà di fruizione dell’opera e giustificare questa negazione con la volontà incrollabile dell’artista di imporre agli altri la “giusta” visione del proprio lavoro? La creazione dell’opera conferisce davvero all’artista il diritto di decidere come gli altri debbano percepirla?
Perché la mia necessità di rincorrere l’immagine che ho del mio lavoro, rincorrerne la coincidenza con la realtà attuata dalla materia, deve automaticamente implicare che la mia visione sia più rilevante e “vera” di quella che possono avere altri, con propri parametri e mezzi?
Può, altresì, un solo punto d’osservazione davvero restituire il senso di una presenza spaziale nell’opera?

La storia dell’arte in cui mi riconosco maggiormente è quella che ammette l’esigenza di coinvolgere i fruitori nell’opera, non solo come corpi ma anche come portatori di “scelte”, come possibilità concrete di modificare il lavoro nel suo accadere.
È quel percorso “galoppante” che va dalle avanguardie artistiche degli inizi del novecento – futurismo, surrealismo – allo sviluppo di pratiche performative della metà del secolo, dialogando con con le istanze rivoluzionarie del teatro d’avanguardia degli anni ‘60, tutte volte ad abbattere l’obsoleta quarta parete e a promuovere la partecipazione attiva dello spettatore.
Dunque via dai piedistalli e giù per terra, nel mondo dei molteplici sguardi, delle molteplici interpretazioni e delle molteplici soggettività.
È la condizione postmoderna direbbe Zizek (“Looking Awry”, 1992), quella in cui il soggetto – l’opera in questo caso – si mostra nel suo carattere arbitrario poiché offre ogni lato di sé, si apre ad ogni interpretazione possibile senza alcuna gerarchia di significato, ammettendo ogni valutazione come determinante e decostruendo se stessa nella trama degli sguardi altrui.
Questa frammentazione e pluralità riporta al “non c’è Altro dell’Altro” di Lacan, il suo affermare che siamo soggettività in mutamento continuo, alienate tra noi e da noi stessi nel processo costante di ridefinizione della nostra identità, minata all’origine dall’incessante chiedersi “io chi sono”.
Per Lacan l’opera d’arte si dà come sublimazione del vuoto del reale dentro cui siamo immersi, sublimazione dell’inconoscibile ma anche sua evocazione. L’opera, in questo caso l’installazione, attrae il nostro sguardo e i nostri sensi in un turbine che frammenta l’unità percettiva, al contempo però ci richiama ad una necessaria ricomposizione del soggetto perché esperire lo spazio vuol dire partecipare, attivare un processo di presenza fisico e mentale in grado di operare delle scelte.
Il fruitore ritorna al centro del dispositivo estetico e, riflettendo sull’ultima delle domande sopra poste, non posso non ricordare come Panofsky negli anni ‘20 ragionava sul valore della prospettiva nella pittura rinascimentale.
Egli sosteneva che questa scelta ponesse proprio lo spettatore al centro della visione ideale del mondo rappresentata nei dipinti; l’opera si dava in sintonia con lo sguardo, poiché coincideva la linea dell’orizzonte espressa dalla prospettiva con il fuoco del campo visivo.
Con un solo sguardo dunque lo spettatore era simbolicamente al centro del lavoro, improvvisamente “dentro” poiché compreso strutturalmente nell’atto del suo guardare.

Non troppo lontano da questo “posizionamento” è a mio avviso il fruitore della pittura illusionista del Barocco: basti pensare a l’“Apoteosi di Sant’Ignazio” di Andrea Pozzo a Roma, affresco sul soffitto della chiesa che prevedeva (e prevede tutt’ora) un disco a terra ad indicare il punto perfetto per “attivare” con lo sguardo l’illusione ottica di vortice, creata dalla prospettiva. Si tratta di un intervento pittorico che pur risolvendosi in uno sguardo specifico, comprende e richiede lo spettatore come corpo nello spazio in una posizione precisa, pena la mancata visione “corretta” dell’opera.
Anche L’“Etant donnèe” di Duchamp attua lo stesso procedimento, impone alcune azioni definite a chi guarda: piegarsi, appoggiarsi alla porta, sbattere il naso, guardare dentro. Lo spettatore è di nuovo chiamato nella sua corporeità ad attivare l’opera, ma anche qui tramite un solo punto d’osservazione.
O più semplicemente si tratta di teatro. Il punto di osservazione per cui si progettano le scenografie nei teatri all’italiana è chiamato “punto-principe”, quel posto al centro perfetto della platea la cui visuale è parata ad arte poiché si deviano con rivette, quinte e apertura del boccascena tutte le linee di fuga dello sguardo.
L’intento è non far scoprire l’artificio della finzione, non vedere attori che scappano via, non oggetti scomposti e attrezzature fuori campo.
Tutto il teatro è pensato in funzione di uno sguardo proveniente da una sola direzione e questa consegna di se stessi alla visione permette di generare empatia totale; ci si dimentica del corpo (e dunque della sensorialità) poiché ben protetto e seduto, per aderire ad una dimensione immaginifica e proiettiva sulla scena.

La visione di cui sono schiava, a cui rimetto le mie azioni è quella che individuo mentre elaboro un progetto, prima di scriverlo e raccontarlo.
Prima di tutto c’è l’immagine che mi occupa, anche se l’opera non è mai davvero quest’immagine ma ciò che ne deriva nel prendere forma, confrontandosi con spazio, tempo e materia.

Sono tornata due settimane dopo ad osservare “Vendetta”, avendo lasciato al custode del castello la consegna di non aprire a nessuno la porta fatta di inferriate, permettendone così solo una visione da fuori, con la grata ben chiusa davanti.
Scelta discutibile per le mie ‘incrollabili certezze concettuali sulla fruizione dello spazio’ ma assolutamente perfetta per l’opera.
Mi e’ sembrata ancor più bella camminando all’indietro per guardarla da lontano, abbracciandola con un solo sguardo, in una fuga precisa, mentre la luce del giorno cadeva silente.