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Millepiani Anno 13 Numero 31 settembre 2006



A colloquio con David Lyon

intervista a cura di Davide Calenda



Filosofia, estetica e politica


5 Premessa

7 Gilbert Simondon
Del modo di esistenza
degli oggetti tecnici

13 Gilbert Simondon
I limiti del progresso umano

23 David Lyon
A colloquio con David Lyon
(intervista a cura di Davide Calenda)

35 Tiziana Villani
La teoria dell’“individuazione“
e le società di controllo

49 Saverio Caponi
Dipendenza, indipendenza, coerenza

69 Ubaldo Fadini
Scrivere e balbettare

85 Roberto Marchesini
Alterità e referenze

99 Simone Biagini
La comunicazione pubblicitaria
e le nuove povertà

111 Stefano Berni
Sul detto di Nietzsche:
“L’uomo è un animale non ancora definito”

123 Silvano Cacciari
Il cuore di tenebra della soggettività

131 Katia Rossi
L’invisibile della città

145 Patrizia Mello
Progetto e individuo

161 Dario Giuliano
La grande banlieu

artefacts
175 Edoardo Sanguineti
Ciprì e Maresco - Laici e anarchici
179 Tiziana Villani
Parigi XXI secolo


181 Recensioni & schede di lettura
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Il sociologo David Lyon è nato in Inghilterra nel 1948. Vive da molti anni a Kingston in Canada, sede della Queens’ University, dove insegna e dirige il Surveillance Project (http://www.queensu.ca/sociology/Surveillance/). È autore di numerose monografie e articoli; riflessioni sul marxismo, cristianità contemporanea, postmodernità e sorveglianza. In Italia sono state tradotte diversi lavori tra cui La società dell’informazione, Il Mulino, 1991; L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, 1997; Gesù a Disneyland. La religione nell’era postmoderna, Editori Riuniti, 2002; La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, 2002; Sorveglianza e guerra al terrorismo, Raffaello Cortina, 2005. L’attenzione per la questione della sorveglianza elettronica è già presente nel 1986 in The Silicon Society (Lion Publishing) dove Lyon, nell’ultimo capitolo, si pone la domanda se il futuro sarà quello di una democrazia del computer, come preconizzato da molti, o di uno stato del computer, termine che l’autore usa per riferirsi ad un maggiore potere di controllo da parte dello stato e di altre agenzie, grazie all’uso della sorveglianza elettronica. In La Società dell’Informazione, dove l’autore offre un’analisi critica della centralità dell’informazione (e dei concetti di potere e classe) nell’era cosiddetta post-industriale, introduce l’argomento che sarà al centro dei sui successivi lavori: il potere della sorveglianza. Nelle parole di Lyon, “Sapere è potere” è uno slogan fuorviante nella società dell’informazione: “La conoscenza può essere importante per il mantenimento del potere, ma questo non significa che chi possiede questa risorsa detenga necessariamente anche il potere. […] l’informazione significa potere in un altro contesto, quello della sorveglianza e del controllo” (p.108). La visione di Lyon non è apocalittica comunque, semmai disincantata. La sorveglianza è sempre analizzata nella sua ambigua e duplice veste di controllare e proteggere, ma anche nel suo rovescio, come contro-sorveglianza. Sempre in La Società dell’Informazione, Lyon sostiene che “i nuovi movimenti sociali” per quanto non siano in grado di rovesciare da soli gli assetti sociali esistenti (come la teoria marxista pretende dalle classi), “possono tuttavia indicare la strada da percorrere per la definizione di forme alternative di organizzazione sociale” (p.108). Tuttavia, Lyon considera l’intensificazione della sorveglianza un processo che, seppur fronteggiato da un antagonismo individuale e organizzato sempre più diffuso, sembra irreversibile perché è arrivato a connotare gran parte dell’organizzazione sociale, il modo in cui viviamo, e conquista sempre più terreno. Eventi drammatici come l’11 settembre non fanno che intensificare questo processo, legittimando l’espansione del mercato della sicurezza - warfare - a scapito di quello della protezione sociale - welfare. La riflessione che ci offre Lyon, e che a pieno titolo possiamo inserire nel dibattito del dopo Foucault, ci aiuta a rimettere in discussione, attraverso una chiave interpretativa non convenzionale, la natura stessa di alcuni processi fondamentali che caratterizzano la società contemporanea.

Davide Calende: Cominciamo col Surveillance Project che tu dirigi. Rappresenta un punto di riferimento per gli studiosi della sorveglianza nel ventunesimo secolo. Il progetto ha sede alla Queen’s Univesity, un campus nella città di Kingston, che è anche una delle città canadesi con maggior numero di penitenziari. È una coincidenza?

David Lyon: È una pura coincidenza. Il nostro lavoro sulla sorveglianza è cominciato quando ci siamo interessati a come le pratiche di sorveglianza agivano nei luoghi di lavoro e nell’ambito della politica e delle istituzioni, ovverosia la sorveglianza praticata dai governi e dalla pubblica amministrazione. Tutto è cominciato quindi in luoghi diversi dalle prigioni e dai penitenziari, cioè la forma più conosciuta di sorveglianza panottica.

Davide Calende: “Non abbiamo a che fare con un unico, centralizzato, tirannico potere della sorveglianza”. È un’affermazione ricorrente nei tuoi lavori, a dispetto del fatto che la retorica del grande fratello, di matrice orwelliana, continui ad essere ancora molto presente nei media e nella società, ma anche tra gli studiosi non addetti ai lavori. Mi sembra quindi utile offrire una definizione sociologica di sorveglianza. Alla luce della tua esperienza di ricerca in questo ambito, potresti fornirci una definizione, una chiave interpretativa per capire come le pratiche di sorveglianza e controllo stanno influenzando le opportunità e le scelte che compiamo nella nostra vita quotidiana.

David Lyon: Ci posso provare. Concepisco la sorveglianza a partire dal termine francese surveil, guardare sopra. In particolare mi riferisco alla sorveglianza quando essa si focalizza su dettagli personali con il fine di gestire, proteggere, stabilire il diritto di accesso a benefici, dirigere, orientare ecc. Questi dettagli sono di varia natura: nome, indirizzo, età, genere ecc., ma anche dettagli personali di tipo biometrico (immagine, impronte digitali ecc.) che sono collegati ad una persona. Possono essere individuali o aggregati. Ma la sorveglianza diventa oggetto del nostra analisi quando ha una finalità. Non esiste sorveglianza se non c’è un obiettivo. Posso guardarvi in questa stanza, ma non è un’attività di sorveglianza in quanto non implica una finalità di potere, controllo, protezione, di gestione ecc., ha piuttosto a che fare con collaborare e parlare con voi.

Davide Calende: Leggendo i tuoi lavori si nota che la dimensione politica della sorveglianza, o meglio della governance della sorveglianza elettronica, acquisisce sempre di più una posizione centrale nella riflessione. Una volta mi dicesti che la società della sorveglianza (elettronica) avanza con la società dell’informazione e che è urgente che si cominci veramente a discutere di una politica dell’informazione, per dare respiro a processi di determinazione sociale della tecnologia e non viceversa. L’aspetto critico è che il potere di decidere riguardo alla politica dell’informazione è ancora largamente detenuto dalle agenzie statuali e commerciali, i cui interessi sembrano convergere, seppur a partire da motivazioni distinte, nel dispiegare le pratiche di sorveglianza in ogni ambito della società. Ci puoi offrire alcuni esempi di questa convergenza, e della governance della sorveglianza?

David Lyon: Mi sembra appropriato offrirvi un esempio empirico, la cui esistenza è facilitata dai network elettronici. Prima di arrivare all’esempio è però importante considerare che prima della metà del secolo scorso la sorveglianza tendeva a operare in ambiti discreti e ben delimitati, ad esempio nei luoghi di lavoro, nei singoli uffici amministrativi, nella polizia ecc. L’integrazione e lo scambio delle pratiche di sorveglianza tra questi ambiti è avvenuta grazie alla diffusione degli archivi elettronici. Molte questioni che discutiamo nell’ambito degli studi sulla sorveglianza si possono definire nuove proprio perché connesse con l’uso di tali archivi. Veniamo all’esempio: le carte d’identità elettroniche. Considero le carte elettroniche come una delle più importanti questioni di discussione nelle scienze sociali del ventunesimo secolo. Perché? Perché si sono diffuse rapidamente e in modo sincronico in moltissimi paesi; presentano una discontinuità forte con i precedenti sistemi di identificazione organizzati dagli stati centrali. Se guardiamo alle prime fasi del processo di introduzione delle carte d’identità elettroniche, l’enfasi è stata posta sul concetto di ‘carta’. Mentre poca attenzione si è dedicata a quello che è il vero potere della sorveglianza, ovverosia un archivio nazionale elettronico centrale in cui sono custodite le informazioni personali dei cittadini. Le ‘carte’ rappresentano l’integrazione tra dati originati in ambiti diversi, una cosa che non era possibile prima dell’avvento delle sistemi informativi elettronici. Infatti, oggi, in genere, le carte di identità elettroniche sono multi-funzione: per accertare il diritto al voto, all’accesso dei servizi pubblici e sanitari, per attraversare una frontiera ecc. Quindi tocca diversi ambiti e diverse organizzazioni pubbliche. La promessa di integrare in un’unica carta informazioni personali che permettono alle organizzazioni di verificare il diritto di accesso nei diversi ambiti dell’attività umana, solleva interrogativi che per me sono fondamentali. È un sogno politico e tecnologico quello di avere l’integrazione completa tra gli archivi elettronici. La sorveglianza tecnicamente facilita la governance in diverse area simultaneamente; diventa quindi uno strumento di governance per le organizzazioni coinvolte in questo processo di integrazione. Nel caso italiano, le carte elettroniche per l’accesso ai servizi pubblici si sono sviluppate più rapidamente della carta d’identità elettronica, adesso procedono parallelamente fino a che arriverà un momento in cui la carta d’identità elettronica si sarà stabilizzata, allora, in quel momento, le diverse carte diventeranno la stessa cosa: codici di identificazione riconoscibili ed interpretabili da tutte le organizzazioni coinvolte. Il caso italiano è un brillante esempio di questo processo di integrazione, seppure oggi non lo sembri. In Gran Bretagna si sostiene che la carta d’identità elettronica faciliterà la crescita di un senso d’appartenenza (ndr, in Gran Bretagna la carta d’identità è una novità). Come e se funzionerà non lo so, ma loro dicono che è così. Ma il punto centrale è che le carte sono considerate come strumenti ‘contro’: contro la falsificazione dell’identità; la frode, il terrorismo, l’immigrazione illegale, il lavoro nero ecc. Alcune di queste dimensioni sono toccate dalle carte italiane, in Gran Bretagna sono tutte comprese.

Davide Calende: Si riduce tutto ad una politica di sicurezza?

David Lyon: Penso che le carte sono collegate con un nuovo focus nello stato nazionale. A metà 20 secolo il focus di molti paesi europei e anche del Nord America era il welfare state. Oggi è la sicurezza della stato, è questo ha a che fare con l’analisi e il management del rischio. L’obiettivo di una governance multidimensionale delle carte elettroniche varia, ma bisogna considerare che all’inizio, quando furono introdotto nei vari stati (e non in tutti), le carte d’identità non avevano questa funzione. La novità sono le aziende hi-tech, che hanno acquisito un potere enorme nel modellare e orientare questo processo. Non possiamo ignorare la relazione tra tecnica e politica in questo caso. In Italia l’azienda che produce le carte guadagna moltissimo, e il governo italiano paga. Nei media questo contratto è stato considerato come un contratto killer. Ma intanto il proprietario dell’azienda si è ritirato in pensione, grazie a questo contratto.


... continua