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Mousse Anno 1 Numero 4 Novembre 2006



Doug Aitken

Edoardo Bonaspetti





INTERVISTE
PAOLA PIVI
JESPER JUST
DOUG AITKEN

FOCUS
CHRIS BURDEN

BRUCE NAUMAN
HELLO MY NAME IS BRUCE NAUMAN

VEZZOLI NAUMAN
VATTENE DA QUESTA STANZA!
VATTENE DALLA MIA MENTE, BRUCE!

LOVETT+CODAGNONE
FORGET ALL ABOUT EQUALITY

TOM BURR
L’ARTE COME FETICCIO

DE COCK - BUREN
TRAPPOLE LIBERATORIE

SPECIAL GUEST
MARKUS SCHINWALD

HOU HANRU
INTERVISTA

PLANET ASIA
OLOGRAMMI DI MEGALOPOLI FUTURE

PORTFOLIO
TAKASHI HOMMA

LOST IN THE SUPERMARKET
NEWS + RECENSIONI

BOOKSHOPPING
LIBRI CHE DEVI AVERE

DANCING
CAMILLA CANDIDA DONZELLA

INTRODUCING
NICO VASCELLARI

PIETRO ROCCASALVA
INTERVISTA SOFISTICA

PHIL COLLINS
NEXT TURNER PRIZE?

SLIDING TATE
CARSTEN HOLLER @ TURBINE HALL

CORRISPONDENZE
BERLIN STUDIO VISITS
NEW YORK - MILANO
LOS ANGELES - MILANO

ARCHITETTURA
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Interiors, 2002-03, courtesy the artist


New skin, 2002 - courtesy: the artist

Doug Aitken si è imposto negli ultimi dieci anni come uno degli artisti più interessanti sull panorama artistico internazionale. Californiano, nato a Redondo Beach nel 1968, riceve il Premio Internazionale alla Biennale di Venezia nel 1999. Il 2007 lo inaugurerà con una delle più imponenti video-installazioni che il MOMA, il museo d’arte contemporanea di New York, abbia mai ospitato. Aitken sceglie il tempo dell’immagine simultanea, i suoi video dilatano lo spazio e contraggono il tempo. E’ un universo caleidoscopico e frammentato. Perchè quando il mondo diventa immagine, le narrazioni lineari vanno in crisi.


Hai pubblicato di recente Broken Screen: una raccolta di interviste ad artisti, architetti, cineasti e musicisti che gravitano intorno al tema della non-linearità nel processo creativo. Come è cominciata?

Pensavo a questo progetto da diverso tempo. Mi capitava di parlare con amici, scrittori, e ogni volta mi accorgevo che, nonostante avessi di fronte un coreografo come William Forsith o un artista come Matthew Barney, ricorrevano sempre alcune idee e molte di queste avevano a che fare con l’idea di narrazione. Pensavo che sarebbe stato molto interessante catturare queste discussioni; a volte ti fai una chiacchierata a mezzanotte e poi la mattina seguente le idee ti fluttuano in testa ma non hai nulla che possa “documentarle”. E allora ho voluto realizzare questo libro e vedere quante angolazioni potevo dare a questo tema. In fondo è per questo: penso che le strutture narrative siano alla base della comunicazione moderna.


C’è qualcuno che non hai intervistato ma che avresti voluto...

Non c’è niente che amo di più che incontrare casualmente nuove persone e discutere. A gennaio, in contemporanea con l’intervento al MOMA, uscirà un nuovo testo che raccoglie altre conversazioni. Tra quelle che preferisco, c’è un dialogo con una delle pochissime taxiste donne a New York. E’ stato incredibile incontrarla. Mentre percorrevamo la sesta, mi descriveva le strade della città come fiumi d’asfalto, il mutare dei grattacieli... E’ stato un incontro che ha lasciato il segno.

Mi ha colpito un’affermazione di Ugo Rondinone durante una vostra conversazione. Rondinone sosteneva che oggi manca un linguaggio crtitico capace di affrontare gli ultimi sviluppi dell’arte contemporanea. La struttura lineare ed ordinata del nostro sistema linguistico si rivelelerebbe riduttiva rispetto ai progressi che il linguaggio visivo ha compiuto in questi ultimi anni...

Sai, penso che ogni ambito della comunicazione cresce nel momento in cui emerge un deficit, una mancanza in un altro ambito. E’ capitato, quindi, che il linguaggio visivo esercitasse i propri muscoli in un momento in cui quello lettarario non era pronto. Non scordiamoci, però, che la letteratura ha delle potenzialità che il linguaggio visivo non possiede.

In questi anni sembra diffusa l’idea che non si possa più creare qualcosa di veramente innovativo. Molti pensano che la nostra cultura, e penso alla cultura nel senso più ampio possibile, debba necessariamente riferirsi al già detto, al già fatto. Tu cosa ne dici? E’ possibile creare oggi qualcosa che non sia connesso al passato?

E’ una domanda complicata. Da un certo punto di vista, tutto ciò che realizzi è sempre legato al passato, ma allo stesso tempo siamo tutti consapevoli che la nostra società è profondamente mutata rispetto a trent’anni fa. Oggi la nostra vita assomiglia più a un caleidoscopio, è frammentata ed è forse per questo che c’è un forte interesse, un enfasi verso tutto ciò che accade ora, nel presente. E’ un aspetto che mi stimola moltissimo. Tuttavia quando discuto con qualcuno su ciò che è realmente innovativo, mi colpisce l’arretratezza culturale dei nostri modelli narrativi. Ci aspettiamo, ad esempio, che ogni storia abbia un inizio e una fine, che un film abbia una certa durata o che al termine di un libro ci sia sempre una conclusione. Sono aspettative lontane da come veramente percepiamo ciò che ci accade intorno. Mi interessa, quindi, rompere le strutture troppo fisse e lineari; mi piace alterare i linguaggi visivi, modificarne i modelli spaziali e temporali. In generale cerco di trovare un terreno più aderente all’esperienza che ogni giorno abbiamo della vita, qualcosa che assomigli più ad un continuum. Se cammino per strada con un amico, ad esempio, posso parlare con lui e allo stesso tempo osservare qualcuno in una macchina ed un attimo dopo perdermi in un ricordo…


Vivi e lavori tra Los Angeles e New York, due città, due poli dell’America, culturalmente distanti se non in tensione. Tu come la vivi questa distanza? Cosa ha l’una che manca all’altra e viveversa? E se fossi costretto quale sceglieresti?

Los Angeles e New York sono le due polarità della America: sono come il bianco e il nero, il giorno e la notte. Amo la loro distanza e la tensione che tale distanza fa esplodere. Io ho scelto L.A., vivo vicino all’oceano ed ogni mattina vado in spiaggia; mi affascina guardare ad ovest e non trovare nulla, non vedere più terra: tutto finisce. Quando la civiltà europea si è spinta verso l’America è arrivata nella East Coast, poi ha proseguito nel midweast fino a trovare un termine geografico. Qui esiste un senso di vuoto, una mancanza di storia: c’è qualcosa di assolutamente liberatorio nella California. New York, invece, assomiglia più ad un isola bloccata tra l’Europa e l’America.

Che ne pensi delle rispettive scene artististiche?

Sono climi, temperature creative molto diverse. L’area di New York è molto più compatta, compressa e verticale. I lavoro tende, quindi, a diventare più formalizzato. Nella West Coast, invece, tutto è più sperimentale e questo mi attrae molto. C’è spazio per seguire strade nuove, spazio per permettersi di sbagliare…

A New York, il MOMA e Creative Time ti hanno commissionato una videoinstallazione che coinvolgerà a gennaio le sette facciate esterne di uno dei più importanti musei del mondo; forse uno dei progetti di public art più ambiziosi mai realizzati in USA. Cosa mi puoi dire?

Sicuramente che dovrei mettermi al lavoro sul serio. Scherzi a parte, è un progetto che nasce da una contaminazione tra architettura e arte. L’obiettivo è quello di trasformare l’edificio in una struttura dinamica, in movimento. Ho pensato di convertire il museo in una cascata d’immagini che possano interagire direttamente con lo spettatore, che si tratti di un passante uscito dalla metropolitana o di un appassionato d’arte. In sostanza, quello che vorrei è che ne uscisse un lavoro potente, trasversale, capace di comunicare su più livelli.

Spesso nel tuo lavoro rappresenti la città come uno spazio anonimo, poco organico. Penso all’installazione The Moment in cui si alternano immagini di persone che dormono a quelle di enormi grattacieli; ma anche Cristal Coma, una serie di fotografie che ritraggono “non luoghi”, architetture inaccoglienti spogliate di qualsiasi umanità. Fino a che punto l’architettura, lo spazio, la città possono influenzare la nostra vita?

Credo che non ci sia mai una separazione tra ciò che ci circonda e noi stessi. Viviamo in un mondo che abbiamo creato più o meno indirettamente e a volte accade di diventare ciò che abitiamo, che viviamo… Ci sono momenti in cui non c’è differenza tra il tuo battito cardiaco e la velocità, il ritmo di una metropolitana, tra il white noise di un incrocio e la tua mente che vaga in un taxi. A volte, penso che la città sia un organismo vivente, una rete nevralgica che connette luoghi e persone e li fonde assieme. Sicuramente è uno dei temi centrali del mio progetto al MOMA…

Ho letto che trovi molto interessante realizzare video perché ti rendono consapevole di come percepiamo il tempo. E vero?

Uno più grandi meriti del cinema è stato diffondere la consapevolezza che il tempo può essere dilatato e contratto. E’ qualcosa che mi attrae moltissimo e che, certo, mi spinge a lavorare con il video.

Artisticamente parlando, chi sono i tuoi punti di riferimento?

Diciamo che tutto mi può influenzare; certo non guardo all’arte come unico punto di rifermento. Vivo come quel personaggio di Pasolini che prende un taxi e si infila in questa conversazione miracolosa che gli cambia la vita. Penso che la creatività sia una dimensione senza confini, un continuum….sai, potremmo quasi paragonarci a dei satelliti, trasmettiamo informazioni, le irradiamo…


Una cosa che mi ha sempre colpito nei tuoi video è la tensione verso la tridimensionalità, è come se impedissi alle immagini di ridursi alla superficie piatta dello schermo. Utilizzi multiproiezioni, le allestisci nello spazio in modo geometrico… Penso a lavori come Interiors o Lightrain… Dimmi qualcosa di più?

Ogni mio lavoro è un’entità singola, con la sua personalità e le sue caratteristiche. Quello che cerco è rompere sia il formalismo dello schermo, sia un certo formalismo narrativo. In Interiors, il lavoro cambia a seconda di come gli giri attorno e i personaggi variano continuamente. Immagina di camminare in un set, sullo sfondo un paesaggio costituito dai vari personaggi, le immagini si muovono velocemente... ed è come abbattere i tasselli del domino. Tutto questo infrange l’immagine piatta, come potrebbe fare la luce di un treno nell’oscurità. Tutti questi lavori tendono verso un più onesto coinvolgimento dello spettatore, più diretto e meno distaccato.

Mi hanno detto che fai molta attenzione alle colonne sonore dei tuoi video, anche se forse parlare di colonna sonora è un pò riduttivo...

Il fatto è che non penso all’audio di un lavoro nei termini di una colonna sonora, piuttosto come un elemento che si muove oltre alle immagini. La maggior parte della musica e dei suoni sono creati appositamente per le immagini, a volte dopo una lunga e complessa elaborazione.
In Moment ho inserito 1500 tipologie di suoni differenti distribuiti in 10 minuti. Bisogna esplorare nuove dimensioni, in cui il suono non sia solo musica: è una frontiera fantastica.


Quanto sono importanti l’improvvisazione e la casualità nel tuo lavoro?

Non penso che ci possa essere un reale progresso senza una certa dose d’improvisazione e senza confrontarsi con gli errori. Quando ho girato il materiale per la video-installazione al MOMA, mi sono mosso a New York per due settimane. Ogni giorno avevamo una scaletta che ci indicava dove andare, cosa filmare e chi erano gli attori. Tuttavia, abbiamo cercato integrare nelle registrazioni tutte quelle situazioni che non puoi prevedere, che non ti aspetti. Sono fonti straordinarie che arrichiscono il tuo lavoro ma che non ti puoi permettere se lavori in modo troppo programmato, diciamo alla Hithcock.

Qualche anno fa hai preso una barca e hai risalito il Los Angeles River. Che intenzioni avevi?
Scovare le sorgenti del Nilo!

Infine, se dovessi inviare un’immagine simbolo della civiltà umana a forme di vita extraterrestri, quale sceglieresti?
Invierei Dick Cheney! (vice presidente degli U.S.A., ndr)