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Mousse Anno 2 Numero 5 dicembre 2006-gennaio 2007



Charles Ray

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È sempre rischioso leggere l’opera di un artista alla luce della sua biografia. L’io che si esprime nell’opera, come sosteneva Proust, non è lo stesso che si manifesta nella vita quotidiana. Tuttavia, il fatto che Charles Ray (1953) abbia trascorso l’infanzia in Illinois accanto a una sorella - l’unica femmina di cinque figli - malata di schizofrenia è un fatto che difficilmente si può ignorare. Tanto più che è stato lo stesso Ray a sottolinearne l’importanza in un’intervista con Robert Storr del 1998, poco prima della retrospettiva itinerante (New York, Los Angeles, Chicago) che lo ha stabilmente collocato fra i più interessanti scultori contemporanei.
Alla domanda se vivere accanto a una schizofrenica avesse influenzato il suo lavoro, l’artista ha risposto: “Molto, veramente molto. È stato un po’ come crescere con L’Esorcista. Davvero bizzarro e allo stesso tempo molto normale per noi. […] Ricordo che una volta i miei genitori ci portarono a fare quello che doveva essere un viaggio di cinque giorni nel Wisconsin, e [mia sorella] urlò a tutto spiano durante le sei ore di viaggio. Era come un urlo di Munch, qualcosa del genere, non aveva fine. E quando arrivammo non smise, così dovemmo stare in macchina con lei tutta la notte a turno, in gruppi – con l’urlo”.

Non ci sono figure urlanti nelle opere di Ray. Le sue sculture, astratte o figurative, sono immerse in un teso silenzio. Se l’esperienza infantile di convivere con una schizofrenica ha avuto un’influenza su di lui, questa deve situarsi a un livello meno aneddotico. Forse va cercata nei pressi di una delle intuizioni fondamentali che attraversano il suo lavoro: l’intuizione che la realtà è molto più complessa di ciò che percepiamo, pensiamo o immaginiamo di essa, e spesso del tutto divergente.
Divergente come può essere l’aspetto del tutto normale di una bambina dalla sua patologia psichica; divergente come la sua lucida intelligenza (“ha un bellissimo senso del linguaggio”, racconta ancora l’artista della sorella) dalle sue azioni imprevedibili.
Divergente, infine, come l’apparenza di molte sculture di Ray dalla loro sostanza, sostanza talmente ben dissimulata che solo il titolo, talvolta, permette allo spettatore di afferrarla. E quando succede, il risultato è uno shock, come quello che si può provare parlando con qualcuno che da un istante all’altro si rivela chiuso in un universo psichico alieno, irraggiungibile.
Un filo nero che collega il soffitto al pavimento, perfettamente perpendicolare, si rivela un sottile getto continuo di inchiostro (Ink Line, 1987). Alcuni oggetti su un tavolo di legno girano lentissimamente su se stessi grazie a motori invisibili (Table Top, 1988).
Un anonimo cubo bianco posato sul pavimento ne minaccia seriamente la stabilità, perché è d’acciaio massiccio (7 ½ Ton Cube, 1990). Sono opere la cui complessità tecnica ha spesso richiesto all’artista, maniaco del perfezionismo, mesi o addirittura anni di lavoro, e il cui effetto è quello di riuscire a destabilizzare con la forza di un’allucinazione, sia pure per un secondo soltanto, la nostra convinzione di avere una presa sicura sulla realtà.
Un effetto che, prima di dedicarsi alle forme astratte, Ray aveva ricercato includendo il suo stesso corpo in composizioni scultoree che chiamava ‘performing sculptures’, metà sculture metà tableaux vivants. Nella più famosa, ad esempio, l’artista, piegato in due, è issato su una plancia di legno che lo puntellava contro una parete; in altre, le sue braccia e gambe spuntano da parallelepipedi di metallo, eccetera.
Questi riferimenti alla figura umana (e al corpo stesso dell’artista, in particolare) tornano ad affermarsi nell’opera di Ray a partire dagli anni ’90 e, legandosi alla sua ossessione per il capovolgimento delle apparenze, danno vita alla celebre serie dei suoi manichini. Il manichino è inquietante di per sé, per la fredda illusione di vita che inscena, frutto di un canone di stilizzazione stabilito alla fine degli anni ’50 da uno scultore di nome Sears e tutt’ora in auge.
Un canone che prevede, ad esempio, che una figura umana da vetrina debba sempre fissare nel vuoto, che non possa sorridere a meno che non raffiguri un bambino, e così via. Giocando su queste convenzioni e sulla scala, Ray ha realizzato alcune fra le sue opere più perturbanti, nel senso freudiano della parola: qualcosa che è al tempo stesso familiare e spaventoso. Le tre donne-manichino di Fall ’91 (1992) – sembrano del tutto normali se viste da una grande distanza, in fondo a un corridoio o a una sala molto vasta.
Da vicino, invece, si rivelano sovradimensionate, svettano sullo spettatore di oltre mezzo metro, intimidendolo con i loro ferrei e immacolati tailleur. Il manichino di Boy (1992) sorride, e in ciò non c’è nulla di insolito, perché raffigura un bambino. Ma il fatto che sia stato ingrandito fino alla statura dell’artista stesso lo colloca fra i manichini adulti, e fa sì che il suo sorriso appaia sinistro. No (1992) è una semplice fotografia che raffigura l’artista a mezzobusto, con le braccia conserte. Osservando con attenzione, però, ci si accorge che la figura fotografata è un dummy, per quanto straordinariamente realistico.
L’apoteosi del filone antropomorfo dell’opera di Ray, il suo punto di non ritorno, è il famoso - e famigerato - gruppo scultoreo Oh Charley, Charley, Charley… (1992). Otto figure maschili nude, a grandezza naturale e con rifiniture realistiche, sono allacciate in una scena di sesso di gruppo. Basta un secondo sguardo, però, per rendersi conto che si tratta sempre dello stesso personaggio, ripetuto otto volte in posture diverse, e che questo personaggio è, ancora una volta, l’artista stesso.
Poco alla volta, emergono altri dettagli incongrui: per quanto cruda possa sembrare sulle prime la raffigurazione degli atti sessuali, i genitali, le bocche e le mani in realtà non si toccano mai; per quanto realistiche, le figure non incrociano gli sguardi le une delle altre. Marco Senaldi (nel suo Enjoy! Il godimento estetico, 2003), conclude: “tutti questi Sé appaiono piuttosto come delle bizzarre controfigure pietrificate nell’atto di copulare con qualcuno che non c’è, e sembra che un mago malevolo le abbia invece accostate vicendevolmente rendendo ancora più evidente l’assenza di un partner reale”. Narcisismo o autismo: il cerchio degli otto personaggi non canta un inno al godimento (omo)sessuale o alle gioie della masturbazione, ma è (come ha scritto ancora Senaldi) “traforato dalla mancanza”.
Tuttavia Oh, Charley…, con il suo ingombrante fardello psicanalitico, rivela al massimo grado un altro aspetto della personalità artistica di Ray, forse difficile da conciliare con tutto quello che abbiamo raccontato finora, ma fondamentale: il suo formalismo. Studente di Roland Brener, un allievo di Anthony Caro, Ray ragiona sulle sue sculture - anche le più conturbanti, anche quelle in cui l’intensità emotiva del soggetto sembra non lasciare alcun posto a preoccupazioni formali – negli stessi termini imparati dal suo maestro: come un modo specifico, specificamente scultoreo, di offrire allo spettatore un’esperienza dello spazio; come un insieme calcolato di proporzioni, contorni, volumi.
A sentire l’artista, a volte sembra che il contenuto shock delle sue opere sia accidentale, secondario, quasi un espediente. “[In Oh, Charley…] ho lottato con il modo di ottenere un gruppo scultoreo figurativo contemporaneo come quelli di Bernini, o come I borghesi di Calais di Rodin. Ovviamente, non potevo fare il consiglio comunale di Los Angeles. Non ha fondamento contemporaneo, non avrebbe funzionato.
Così l’idea di un’orgia, di masturbazione, di sesso di gruppo reale/virtuale, tutte le questioni dell’identità – tutto ciò mi ha aiutato a unificare le figure. […] Sì, la ripetizione dell’immagine aiuta a unificarlo”. Un problema di forma, insomma; come se i manichini nudi e copulanti di Oh, Charley… potessero essere paragonati al gioco astratto di piani e linee di Early One Morning di Caro (1962), l’opera-cult di Ray, talmente adorata dallo scultore americano che si è fatto ritrarre accanto ad essa sulla copertina della sua monografia più importante.
Al momento, Ray ha appena concluso una retrospettiva all’Astrup Fearnley Museet di Oslo. Includeva anche quello che è forse il suo capolavoro, Unpainted Sculpture (1996), l’opera in cui le componenti della sua complessa visione artistica trovano un equilibrio perfetto. Quella che sembra la carcassa di un’auto fracassata è invece un suo doppio in resina grigia identico nei minimi dettagli, un calco 1:1 realizzato pezzo per pezzo, fin quasi alle singole viti che componevano l’originale.
Un’impresa quasi folle, nella quale il contenuto emotivamente violento – l’auto era stata scelta da Ray perché aveva subito un incidente mortale per il passeggero – si sublima attraverso il lunghissimo lavoro artigianale, mentre il realismo diventa così minuzioso da trasformarsi in astrazione pura, “la versione platonica di un’auto fracassata”, come dice Ray.
Possiamo allora contemplare la complessa geometria creata dall’urto fatale con il distacco con cui guarderemmo una colata di piombo di Serra o l’equilibrio formale di una scultura di Caro (che Unpainted Sculpture omaggia nell’uso del monocromo per aumentare la coerenza formale dell’insieme). Di fronte a un’opera del genere, è legittima e comprensibile la dichiarazione d’amore per la scultura con cui Ray conclude la sua intervista del 1998: “La scultura ha il potenziale di essere incredibilmente hi-tech, moderna, più strana dei computer.
Ho avuto una fantasia un po’ folle che ho raccontato ai miei nipoti. Ho inventato una storia secondo la quale io sono in realtà una spia, e nelle mie sculture sono incorporate sequenze di informazioni che possono essere lette soltanto dalle persone che vanno in un museo e sono in grado di notare la scala di un polso rispetto a un pollice o a un altro dito; allora sono in grado di capire il folle significato che si trova in esse. I miei nipoti sanno che scherzo, naturalmente, ma la scultura ha davvero questo potenziale.
Scandisce in sequenza il tempo e lo spazio; ecco ciò che conta, in qualche modo. Non voglio suonare come una specie di nerd visionario perché non lo sono, davvero, non ho nessuna grandiosa illusione riguardo alla scultura, la mia è solo una specie di intuizione. E forse si afferra appena un millesimo del modo di realizzarla”.