Multiverso Anno 2006 Numero 3
Museo della Ferrari, museo del comunismo, museo Messner, museo della strage di Ustica, museo del turismo, museo del rock, museo del prosciutto e dei salumi di Parma, museo del salame, museo dell’ombrello e del parasole, museo del loden, museo del cavallo, museo del sesso, museo dello stadio di San Siro. Sono solo alcuni luoghi di un mondo museo. Una grande rete che sembra in qualche modo ipostatizzare la realtà, risemantizzando vecchio e nuovo. Del museo e dell’attualità, si potrebbe dire. Ma il corto circuito non è solo temporale, è anche spaziale. Non ci sono cose o idee che possano essere sottratte alla benedizione del museo. Mai una parola così antica ha avuto tanta fortuna. Un suo riposizionamento o, meglio, un ribaltamento di significato, almeno in relazione alla storia dell’istituzione, si ha a partire dagli ultimi decenni del Novecento quando sembra cadere quel diaframma del tempo che faceva sì che il museo separasse, per sua natura, il presente dal passato, il vecchio dal nuovo, il sacro dal profano, fino a diventare per questo un topos della cultura occidentale.
Il museo ha conosciuto fin dal Cinquecento anche il coevo, soprattutto con gli oggetti provenienti da terre sconosciute, ma la sua cifra più forte, soprattutto nel senso comune, è stata nel potere di ridurre sub specie aeternitatis tutto quello che entrava nelle sue stanze. Tant’è che il museo diverrà, talvolta, il simbolo di una cultura vecchia da abbattere per far posto al nuovo che avanza. Si può essere moderni oppure essere un museo, ma non entrambe le cose contemporaneamente, diceva Gertrude Stein a proposito del Moma, il Metropolitan Museum of Art di New York. «Ci vogliono almeno venti anni – aggiunge Giuseppe Panza, collezionista storico, creatore della prima raccolta di minimal art in Italia – prima che l’arte di vera qualità si imponga» (G. Panza, Ricordi di un collezionista, 2006). Questa distanza temporale oggi non è più intesa come costitutiva. Il museo diventa atemporale, comprime vecchio e nuovo in un unicum, consente, anzi, di dare l’aura del tempo a vissuti di persone e cose che altrimenti non l’avrebbero. Il museo tradizionalizza la contemporaneità.
Oggi è, almeno lessicalmente, una specie di packaging che costruisce valori simbolici in una società e in un’economia a forte dimensione immateriale. Il museo opera un processo inverso alla reificazione. Distilla simboli da storie, vite, beni di consumo. Nella società post industriale, post moderna, post comunista, serve a comunicare che quella cosa, persa, altrimenti, nel frullatore dello schermo planetario, ha un senso suo perché, appunto, ha un museo. La memorabilità di Messner è affidata a un museo, ma anche quella delle vittime della strage di Ustica, così come negli anni Settanta al museo si dava un passato, non ancora scomparso, da conservare, con le scorie della società rurale soppiantata da quella industriale. «Oggi il vistoso successo sociale – scrive Vincenzo Padiglione, docente di antropologia culturale e antropologia museale – ha esposto il museo a un fatale logorio.
Divenuto una delle parole chiave della contemporaneità è sottoposto ad una incessante torsione perché l’esperienza a cui rinvia va subendo una vorticosa dilatazione esistenziale perché – a fianco di simbiosi con l’immagine alta, sociale, idealizzata – è cresciuta una miriade di sperimentazioni e banalizzazioni» (V. Padiglione, e patrimoni: esercizi a decostruire, in «Annali di San Michele», 1994). Parola, ma non luogo di successo. Sette italiani su dieci non sono mai entrati in un museo e per molti l’incontro con il museo resta limitato nella vita a un’esperienza scolastica. Sarebbe interessante, a questo proposito, avere il rapporto, in termini percentuali, tra visitatori di musei che convenzionalmente possiamo definire classici e visitatori dei nuovi musei. Quello della ‘Ferrari’ con centosessantamila visitatori l’anno è già, ad esempio, il primo museo nell’Emilia. L’appropriazione della categoria per un uso più ampio della sfera storicamente delimitata del museo, spazio di iniziazione di generazioni alla cultura, «mito razionale – come scrive Karsten Schubert – dei più persistenti e poderosi», segnala, in ogni caso, un fenomeno complesso non semplicemente ascrivibile all’alfabetizzazione e all’espansionismo culturale di nuove classi. Non hanno avuto, ad esempio, altrettanto successo parole come biblioteca e teatro.
Eppure nei primi decenni del secondo dopoguerra erano questi i luoghi del confronto culturale e non certo il museo, visto come ‘istituzione sorpassata e ideologicamente sospetta’. «Chi avesse preconizzato – scrive Schubert – che di lì a vent’anni la sorte del museo sarebbe radicalmente cambiata, avrebbe riscosso soltanto irrisione» (K. Schubert, Il museo. Storia di un’idea, 2004). Il museo ha avuto così un recupero prodigioso e lo si sceglierebbe oggi perché in grado di dare una risposta al bisogno di storicità del presente e, tutto sommato, a un nuovo bisogno di ordine.
Per Krzysztof Pomian, storico del collezionismo, i musei sostituirebbero le chiese come luoghi in cui tutti i membri di una società possono «comunicare nella celebrazione di uno stesso culto». «Per questo il loro numero cresce nel XIX e XX secolo, mano a mano che cresce la disaffezione della popolazione, soprattutto urbana, per la religione tradizionale» (K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, 1989). Una posizione considerata eccessivamente rigida anche dallo stesso Padiglione, che mette in evidenza come – al momento in cui Pomian scrive –, ci sia ormai più di un dubbio verso la metanarrazione di una storia progressiva e laica. È certo che si è assistito negli ultimi anni a una sacralizzazione dei musei e a una musealizzazione delle chiese. I primi sono diventati spazi dai comportamenti codificati, luoghi per il rito, e le seconde luoghi di fruizione estetica.
Nella diffusione attuale del museo (una crescita ‘drammatica’, la definisce Salvatore Settis che invita a non dare per scontata la durata nel tempo dell’istituzione-museo) si può quindi leggere anche la percezione di uno spazio che accresce il senso di cose ed esperienze, e addensa il tempo in una società che non ha la cultura dell’attesa e il tempo di aspettare i cinquant’anni che il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio propone per l’attestazione di ‘interesse culturale’ per un manufatto.
Un’aporia, quella del museo attuale, che sembra essere rilevata solo da qualche critico d’arte che afferma che il museo d’arte contemporanea – ma potrebbe valere per molti altri tipi di musei – è, in fondo, un ossimoro.