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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 5 Numero 19 estate 2007



Dall'umanesimo al cyborg. Per una nuova storia della pittura

Fabio Cavallucci

Intervista a Gian Marco Montesano



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


EditorialeEditorial
Fabio Cavallucci

MostraExhibition
Scuola di Pittura/Painting School

Dall’umanesimo al cyborg/From Humanism to Cyborg
intervista a/interview with Gian Marco Montesano di/by Fabio Cavallucci


Pictor in fabula
Generi e stili della pittura tra passato e presente/Genres and Styles in Painting between Past and Present
Orietta Berlanda

Italo Bressan/Giovanni Maria Accame
Francesco De Grandi/Marco Meneguzzo
Fulvio Di Piazza/Andrea Bruciati
Greta Frau/Giuliana Altea
Francesco Lauretta/Roberto Pinto
Federico Lombardo/Lorenzo Canova
Marco Raparelli/Cecilia Canziani
Alessandro Roma/Alberto Mugnaini
Esther Stocker/Martin Prinzhorn

In progress
Goodnight, Family!
Cristina Natalicchio

Web
Formato tv
Oriana Bosco

DidatticaEducation
A scuola con gli artisti/At school with the artists

Estetica a misura di bambino/Aesthetics on a children’s scale
Ylenia Angeli

A12/Elena Bordignon
Gianluca e Massimiliano De Serio/Luigi Fassi
Michael Fliri/Letizia Ragaglia
Stefano Mandracchia/Daniela Lotta
Laurina Paperina/Francesca Baboni
Patrick Tuttofuoco e Christian Frosi/Tomas Molino

2000 words
Art Community
Maurizio Cattelan in conversazione con/in conversation with Aleksandra Mir

Estetica a misura di bambino/Aestetics on children’s scale
Ylenia Angeli

Indagini localiLocal investigation
New entry. La Galleria Civica G. Segantini di Arco
Intervista a/interview with Giovanna Nicoletti di/by Fabrizia Endrizzi

L’incerto futuro della /The uncertain future of the Galleria Civica
Chiara Veronesi

Forward
Anteprima/Preview Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento

Musei e GallerieMuseums and Galleries
Mostre in Trentino-Alto Adige e Tirolo/Exhibitions in Trentino-South Tyrol and Tyrol
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Gian Marco Montesano
I grandi momenti dell'ecologia nazista, 1993
olio su tela
Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

Andy Warhol
Double Mickey Mouse

Gian Marco Montesano
I guardiani dell'Arte,1992
olio su tela
Courtesy Archivio Flash Art.

Cosa ha da dire ancora la pittura nel 2007?
La pittura storicamente intesa – non mi riferisco tanto ai quadri, quanto alla mentalità – la pittura umanistica, secondo me non solo non ha più nulla da dire, ma è morta. Qualcuno potrebbe obiettare che il mercato, i musei, dicono il contrario; certo, è ovvio, il valore della pittura si prolunga per forza di inerzia. Ma per quel che è della produzione di pensiero attuale, la pittura è fuori gioco. Non è morta per una questione di moda, di gusto, o chissà per quale altra strana ragione, ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi; è venuto meno quel mondo, tutto il sistema di valori che la esprimeva, che la giustificava. E che mondo era? Era il mondo umanistico, cioè il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell’utopia, che genera le avanguardie – sia politiche che artistiche – della posizione critica estetica, politica, sociale. Oggi questi riferimenti sono scaduti, sono persistenze memoriali. Concedimi di precisare: quando dico pittura “storicamente intesa” potrei dire lavoro “storicamente inteso”. Sono storie finite, finite come il sistema di valori del vecchio mondo. Valore del lavoro? Che fine ha fatto? La ricchezza si crea escludendo l’umano dal processo produttivo. Il valore politico di “classe operaia” non esiste più; la vecchia classe operaia è oggi una sparuta minoranza nei cicli produttivi. Si lavora in altro modo. Questa società produttiva, economica, culturale, espressiva, ecc. è morta. La fine di quel mondo è alle nostre spalle. La pittura, i pittori, questi valori, hanno fatto la fine dell’operaio specializzato, sono diventati i valori morti dell’operaio-massa.

Se l’umanesimo è finito, cosa succederà dopo?
A livello artistico oggi, o per meglio dire, da vent’anni a questa parte, si parla di post-human. Questo perché abbiamo preso atto della fine del mondo umanistico, umano – qualcuno aveva detto troppo umano – e, nel contempo, siamo in attesa di un mondo che deve ancora venire. Ecco la grande Babele dei linguaggi, la mancanza di riferimenti certi. Quando un pensiero complessivo decade, giace inutilizzabile, e qualcosa di nuovo e veramente formato ancora non si manifesta, nell’interregno, nel momento di transizione, emergono molte diverse espressioni individuali. Pur ritenendo inutile leggere i fondi del caffé per scoprire cosa sarà il mondo che verrà, una certezza esiste: non sarà mai come il mondo che ci siamo lasciati alle spalle; non si può più pensare al ritorno, per esempio, delle vecchie utopie politiche, dei grandi postulati che organizzavano il mondo. Tutti i riferimenti umanistici sono fuori gioco. Ecco che l’arte sul versante delle discipline “plastiche” – come le si definiva una volta – che si esprimeva con la pittura, ha iniziato a decadere con la fine della modernità, con la fine dell’Ottocento; ha cominciato ad uscire dalla cornice, ad integrare materiali eterogenei, e dunque non è più quella comunemente intesa nel vecchio mondo umanistico. Poi, finita la modernità, abbiamo la postmodernità, ma oggi siamo ben oltre la classica definizione di postmoderno, infatti esso non è più un referente sul quale fare affidamento, ma rimane come qualcosa che “galleggia” in mezzo ad altre cose.

Allora perché continua a dipingere, fonda un’accademia di pittura, e ci sono ancora molti giovani che dipingono… come si giustifica questa inerzia della pittura?
Potrei proporre una risposta esaustiva, questa: so benissimo che il mondo si colloca ormai oltre il postmoderno, ma da buon reazionario mi fermo, mi attesto sui miei piaceri. Li conservo finché durano. Temo però che questa risposta non sia sufficiente, infatti non lo è neppure per me, in realtà non si tratta di questo. La posizione del reazionario è questa: reagisce a qualcosa che ha analizzato bene, ha fatto una ricognizione del mondo, è perfettamente a conoscenza di quello che succede ma, con un atto di volontà lucida e deliberata, decide di reagire. Ti dirò, questa del reazionario è una classica posizione da “grande artista”, posizione da non confondere con le fissazioni sclerotiche di quanti continuano a riferirsi a valori, a modelli che tali non sono più per nessuno. Ecco perché costoro si accaniscono contro l’ultima contemporaneità; ne è un esempio l’odio di alcuni nei confronti di Cattelan.

Possiamo fare qualche nome di questi reazionari che hanno capito come va il mondo ma dicono “io me ne frego”?
È difficile trovare un artista che si serva attualmente della pittura con la netta consapevolezza di tutto quello che stiamo dicendo, che si ritenga cioè l’ultimo testimone di un mondo morto, assumendo una posizione eroica, straordinaria. Devo dire che attualmente di queste posizioni non ne vedo.

Nemmeno per esempio Clemente, Cucchi, De Maria?
Per quanto riguarda Clemente, non ho gli strumenti di analisi sufficienti per esprimermi; ma temo che gli altri due siano ancora convinti dei valori della pittura, che si fondino ancora su quei valori. I loro riferimenti sono tutti interni alla storia dell’arte (infatti De Maria è un meraviglioso pittore, il più bravo), la quale non ha più niente da dire, operativamente non serve più a nessuno, non interessa più a nessuno di quei giovani che oggi operano nella moltitudine. Questo problema è delicatissimo, come una partita a scacchi; sembra quasi che aprendo un’accademia di pittura non si abbiano che due mosse a disposizione: asserire che si compie un’operazione paradossale, ultra-postmoderna, cioè fondata sull’ironia e l’autoironia che distruggono l’aura seriosa dell’artista, oppure dichiararsi eroicamente reazionari, affermare di aver capito tutto e proprio per questo decidere di suicidarsi. È evidente che se dichiariamo l’accademia di pittura come paradosso e come ironia oppure come ultimo grido reazionario, evitiamo lo scacco matto, ma non ci facciamo molti amici. Però in definitiva sono due mosse povere, si esauriscono in sé. In realtà c’è una terza mossa che è possibile fare, complicatissima da spiegare, che consiste nel riuscire a far capire che si possono ancora usare gli strumenti della pittura per fare un qualcosa che pittura, così come nel vecchio mondo la si intendeva, non è più.

E quindi cos’è, cosa può essere?
Occorre secondo me – è soltanto un’ipotesi, una mossa complicata – partire da alcuni presupposti: capire che già il Novecento, cioè le avanguardie, l’umanesimo morente che esprimeva le ultime due grandi utopie politiche dell’occidente – le quali poi faranno la fine orrenda che hanno fatto – era ancora carico di volontà critica del mondo, voleva rifare l’arte, ricostruirla, cioè prefigurava il nuovo senza però capire e dichiarare la fine della cultura umanistica. Riuscirono a produrre soltanto Picasso, la figura dominante che informa di sé l’ultimo bagliore di quella cultura. Eppure nel Novecento si sono prodotti i due fenomeni che già indicano la necessità di andare oltre, di abbandonare i vecchi riferimenti, fossero pure d’avanguardia, per andare altrove, in un luogo che non conosciamo.
Uno è Walt Disney, una figura artistica certamente non meno nota di Picasso, tutt’altro. E poi colui che sposta tutto il problema nella terra di nessuno: Andy Warhol.

E Duchamp?
Duchamp, in fondo, appartiene ancora al concetto di avanguardia, di volontà critica, di sensatezza che mostra l’insensatezza dei vecchi postulati da rinnovare, al fine di rendere estetico ciò che non lo era. Con Duchamp siamo comunque ancora di fronte ad una figura del vecchio mondo – certo la più estrema, più alta, più ultima. Ma si tratta sempre del vecchio concetto umanistico di artista; con lui siamo addirittura al taumaturgo, cioè l’artista è talmente significativo che basta il suo sguardo per resuscitare gli oggetti a nuova vita estetica. Con Warhol, al contrario, assistiamo alla distruzione dell’idea dell’artista e della creazione. Ma stavamo parlando di pittura, e penso di dover chiudere i conti con Picasso. Oggi egli è l’artista i cui postulati sono i meno praticati al mondo; è l’artista più inutile che esista oggi. Inutile a chi? Non alle forze inerziali del mercato, è ovvio. Ma ai produttori di pensiero, a tutti coloro che hanno vent’anni e che vivono nella moltitudine del mondo. Ditemi se aprendo una rivista specializzata trovate un solo artista che dimostri di avere in memoria Picasso. Picasso lo troviamo in tutti gli artisti di provincia, nei dilettanti che sono “finalmente” arrivati al moderno.
Andy Warhol è presente come concetto. Piuttosto che la sua opera, è la sua posizione rispetto all’arte e all’artista che è universale. Innanzitutto i suoi riferimenti non sono più la storia dell’arte. Il colpo di grazia a tutta la cultura precedente Warhol lo da quando dichiara che il suo desiderio ultimo è quello di diventare macchina. Le macchine sono perfette perché non si oppongono a nulla, non criticano nulla. Il concetto di cyborg, al di là della letteratura, è rimasto sempre aperto, perché è il processo in divenire di questa fase post-umana. Siamo in una relazione sempre più stretta con le nostre macchine e loro con noi, arrivando a sentire fortemente noi stessi come macchine e amandole per ciò che sono – non tanto per ciò che fanno, sarebbe troppo ovvio – in quanto nostre creature; riempiendoci delle loro facoltà, si può tentare di dare un volto giusto al desiderio dell’uomo di diventare macchina. In realtà voler essere un cyborg, qualcosa di inedito, che non esiste, che non si sa nemmeno se potrà esistere, in questo passaggio, in questo cammino, può dar luogo ad un uso “macchinico” degli strumenti della pittura. Ci si chiede: perché non usare direttamente la macchina? Perché l’ipotesi è l’incontro, la nuova creatura, il mutante, l’angelo. Non sono io che devo usare la macchina fotografica, è la macchina fotografica che deve usarsi attraverso me. Questo rapporto pulsionale, inedito, un rapporto d’amore contro natura – simile alla zoofilia – può far nascere una creatura, come il Minotauro da questo incontro. Ecco perché si può ancora, in questi termini, parlare di strumenti della pittura.

Che differenza c’è tra questa pittura e, ad esempio, una foto ritoccata al computer con Photoshop?
Nessuno in questa storia d’amore deve essere quello che è, cioè il computer che svolge il suo lavoro e io che, con vecchia presunzione umanistica, lo uso per ritoccare. Warhol dice di voler essere una macchina, non di voler utilizzare le macchine; si tratta di dire “io abdico”. Non voglio più essere un uomo, voglio essere una macchina – eppure sono uomo; e in questa continua contaminazione, che è un processo appena cominciato, da ciò dovrebbe nascere una nuova sensibilità, un’inedita creatura prodotta dal rapporto tra l’uomo e la macchina. Il voler diventare macchina non c’entra nulla con l’utilizzazione delle macchine. Già nelle prime fasi di questo cammino si ha il disgusto per l’Io, ci si allontana spontaneamente da questa arroganza e si entra in una nuova dimensione, in compagnia di cose che non hanno un Io ma funzionano e pensano in modo diverso.

Quanti di questi giovani che verranno ad insegnare nella scuola pensi che lavorino in questa dimensione?
Non lo so, forse nessuno. Questo mi dispiace. Guardo la vostra rivista ed è vero, non trovo pittura ma tutti lavorano con il loro Io ipertrofico, narrano la loro vecchia umanità usando l’occhio limpido della macchina. D’altra parte noi dobbiamo fornire degli strumenti di riflessione.

Come mai assistiamo al fatto che il 90% della pittura oggi è figurativa, di narrazione, o anche se è astratta comunque si tratta di un astratto un po’ fumettistico, che mantiene dell’ironia, dei riferimenti all’immagine della realtà che, pur scomparsa, ci rimane negli occhi?
La macchina non inventa il fantasioso (la fantasia è una pessima invenzione rinascimentale), ciò che non c’è; rileva ciò che ha figura decifrabile. In secondo luogo credo che questo avvenga perché in questo mondo post-umano c’è una grande capacità di comunicare in superficie – sappiamo che oggi la profondità è tutta in superficie. Le persone, le cose sono finalmente diventate immagini, e le immagini si attraggono, si chiamano, si amano, prolificano. E questo mondo è un mondo angelico. Non siamo più nell’umano. L’accademia che ci apprestiamo a fondare potremmo chiamarla “accademia angelica”, come in paradiso. Infatti lasciato l’umano non si va all’inferno, si va in paradiso.

E se ci chiedessimo a cosa serve questa accademia, la risposta sarebbe...?
A niente. Al puro piacere di produrre immagini che si seducono l’un l’altra, che si attraggono. Anche perché tutti noi in quanto tali non serviamo a nulla; anzi, a dire la verità non ci siamo nemmeno, siamo immagini.


Gian Marco Montesano (Torino, 1949) è artista, regista teatrale e intellettuale. Lavora tra Parigi ,Pescara, dove dirige il Teatro stabile dell’innovazione, e Trento. Negli anni Ottanta ha contribuito a riportare l’attenzione sulla pittura, che ha sempre inteso come uno strumento per navigare tra le icone del Novecento.