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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 7 Numero 21 inverno 2007



Un forum sull'arte italiana

Dopo il numero speciale di "Work. Art in Progress" dedicato ai giovani artisti italiani, apriamo il dibattito sulla situazione del sistema dell'arte nel nostro paese con uno scambio di idee e proposte tra gli addetti ai lavori



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


EditorialeEditorial
Fabio Cavallucci

DibattitiDebates
Un forum sull’arte italiana/A Forum on Italian Art
Cecilia Alemani, Fabio Cavallucci, Giacinto Di Pietrantonio, Milovan Farronato, Denis Isaia, Anna Mattirolo, Francesca Pasini, Cesare Pietroiusti, Roberto Pinto, Giancarlo Politi, Pierluigi Sacco

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Roberto Pinto

My New Theater
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Scuola di pittura/Painting School
Diario di uno studente/Diary of a Student
Gualtiero Madè

EventiEvents
Premio internazionale della performance/International Prize for Performance
Le regole del Premio: limite o sfida?/The rules of the Prize: a limit or a challenge?
Daniela Zangrando

Rewind
Work_show in progress
Biennali si, biennali no?/To biennial or not to biennial?
Lab_unitn

2000 words
Codice .Zmijewski/ .Zmijewski Code
Maurizio Cattelan in conversazione con/in conversation with Artur .Zmijewski

LibriBooks
This is Contemporary!
intervista a/interview with Adriana Polveroni di/by Fabio Cavalllucci

MostraExhibition
Elena Fia Fozzer
intervista a/interview with Elena Fia Fozzer
di/by Francesca Pedroni

Forward
Anteprima/Preview
Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento

Musei e GallerieMuseums and Galleries
Mostre in Trentino-Alto Adige e Tirolo/Exhibitions in Trentino-South Tyrol and Tyrol
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Fabio Cavallucci: In un momento in cui l’arte contemporanea raccoglie consensi sempre maggiori, da parte del mercato, del pubblico e dei media, l’arte italiana sembra invece in una fase di recessione. Lo mostrano con drammatica evidenza le grandi mostre internazionali del 2007, in cui gli artisti italiani sono quasi del tutto assenti. Nessuno a Kassel, nessuno a Münster, uno (guarda caso con un nome straniero, Multiplicity) a Istanbul, nessuno ad Atene, uno (anche qui con un nome non italiano, Norma Jeane) a Lione. Di fronte a questa debacle ben poco conta che ci fosse un gruppetto un po’ più consistente a Venezia, se si osserva che il curatore non si è nemmeno preso la briga di andare in giro per studi e gallerie, ma ha raccolto una manciata di amici e conoscenti attorno a casa sua, a New York. Naturalmente non si tratta di una questione di sciovinismo, di intoccabile rappresentanza. L’arte italiana è giusto che sia presente in proporzione alla sua rilevanza reale. È evidente tuttavia che manca una minima strategia che consenta ai nostri artisti di gareggiare almeno alla pari con quelli di altre nazionalità. Basterebbe poco per invitare i curatori delle principali biennali internazionali a fare un giro in Italia per studi, musei e gallerie, e i risultati sarebbero immediatamente visibili.
È anche vero che l’arte rispecchia l’andamento della considerazione generale di un paese. I paesi dominanti economicamente, o comunque in crescita, finiscono naturalmente per dettare legge sul piano culturale. E oggi purtroppo l’Italia appare evidentemente in declino, e manca dell’appeal che può avere un paese del terzo mondo, da cui ci si attende perlomeno un soffio di novità…
Il problema, però, non è soltanto di strategia politica o di solidità economica. E se fosse una questione di contenuti? E se l’arte italiana oggi non avesse molto da dire nel panorama internazionale perché il nostro sistema culturale (non unicamente gli artisti, che sono solo la punta di un iceberg) non affronta argomenti significativi? Di cosa parla oggi l’arte italiana? E soprattutto, perché?
E ancora: siamo sicuri che stiamo facendo il massimo, che i curatori, i musei, gli artisti stanno realmente lavorando per approfondire temi e linguaggi, per far sì che l’arte (quella italiana, ma tutta in generale) non sia solo un codice di superficie che non tocca i problemi reali?
Proviamo, con questo forum, ad affrontare questi argomenti, sapendo che poi sarà l’ultima volta. Presto non parleremo più di arte nazionale…

Giacinto Di Pietrantonio: Il problema sulla mancanza dell’arte italiana nei circuiti internazionali esiste, ma, benché faccia sempre bene discutere, affrontarlo con un forum a mio avviso è limitante. Si tratta di cose che sappiamo da tempo ed è quindi inutile che continuiamo a ripetercele, mi sembra invece che sia il momento di fare, fare, fare.

Pier Luigi Sacco: Sicuramente i nostri artisti sono danneggiati dal fatto che, soprattutto nelle prime fasi della loro carriera, fanno fatica a trovare da noi occasioni di maturazione nelle quali sperimentare e perfezionare la propria ricerca. Nei paesi di lingua tedesca, ad esempio, l’ampia rete di istituzioni non profit fatta di Kunsthalle, Kunstverein e Künstlerhaus permette agli artisti di arrivare in breve tempo a confrontarsi con la scena internazionale avendo alle spalle già una o più mostre personali significative in spazi pressoché museali.
Potremmo forse fare di più. Da un lato, certamente, impiegando un po’ di risorse (non ne servono molte) per le residenze di curatori stranieri in Italia, come vado proponendo da tempo e come mi sembra si cominci a fare. Dall’altro, certamente, sostenendo la nascita di spazi e istituzioni non profit di qualità e ben connesse a livello internazionale che forniscano ai nostri artisti la palestra progettuale di cui hanno bisogno. Però bisognerà anche che siamo noi i primi a credere un po’ di più nella nostra scena artistica e a sostenerla con più convinzione. Nell’ultima biennale di Lione ad esempio (la cui formula peraltro mi pare molto discutibile), è vero che l’unico artista italiano invitato (dal curatore svizzero, si badi bene, Giovanni Carmine) è Norma Jeane, ma è altrettanto vero che di curatori italiani coinvolti ce ne sono quattro: semplicemente, gli artisti che hanno proposto non sono italiani. Non voglio dire che ora i curatori italiani debbano essere costretti a lavorare solo con gli artisti nostrani, ci mancherebbe altro, ma sono pronto a scommettere che, poniamo, se quattro curatori tedeschi sono invitati a selezionare degli artisti, la probabilità che questi non indichino almeno un artista tedesco è a mio parere praticamente zero (e infatti a Lione ci sono curatori tedeschi che hanno puntualmente invitato artisti tedeschi e altri che hanno invitato artisti di altri paesi).
Gli altri promuovono con convinzione, coraggio ed energia la loro scena artistica nazionale, a noi sembra un atteggiamento provinciale. È questo, il vero problema. Come fanno gli altri a credere nel futuro e nella rilevanza della nostra arte quando vedono che noi in primo luogo, quando ce ne è data la possibilità, non ci crediamo e ci rivolgiamo (quasi) sempre e comunque altrove?

Anna Mattirolo: Sono piuttosto d’accordo con Pier Luigi Sacco che un fondo di provincialismo sta anche alla base di questo momento così critico per noi ( momento che, d’altra parte riflette sostanzialmente quello altrettanto difficile che vivono molti altri settori del nostro paese). Al di là delle singole circostanze, stentiamo a creare un sistema, facciamo fatica a ragionare insieme per un progetto comune. La consapevolezza che investire sul nostro settore, così come su quello della ricerca, della scuola, della formazione in genere, sia prioritaria, dovrebbe derivare da un progetto politico nazionale ben strutturato. Per tornare più sullo specifico, la Darc può assumersi – e in qualche misura già lo sta facendo da tempo – il ruolo di punto di convergenza di scambio di informazioni e di sollecitazioni per dare avvio ad una comune politica progettuale. Certo, va da sé che ognuno di noi debba sentire questa come emergenza reale sulla quale impegnarsi.

Giancarlo Politi: Scusatemi ma non credo molto agli interventi dall’alto, soprattutto pubblici. L’arte non ha bisogno di ombrelli né di sostegni, e quelli pubblici spesso sono biechi, ciechi e clientelari. In realtà in Italia, unico esempio di paese a socialismo reale, vive e prospera ancora il Minculpop, cioè il Ministero della Cultura: e tutto nasce, vive, ruota attorno allo Stato e alla sua politica: dall’economia alla finanza, dalla medicina all’università, sino alla cultura e all’arte. Dalle nomine della Biennale di Venezia, Quadriennale, Triennale, a tutte le istituzioni nazionali sino a quelle locali, è un allegro ed esclusivo giro di nomine da parte della sinistra, del centro, della destra. Mentre nei Paesi anglosassoni l’arte e la cultura si autodeterminano e si autogovernano, qui siamo tutti sottoposti alle isterie e alle cecità di funzionari spesso incapaci o impreparati.
Ecco spiegato l’arcano della latitanza dell’Italia dai processi culturali e artistici rilevanti. L’arte e la cultura hanno bisogno di confronti, di flussi e di concorrenza. Le idee e le immagini (l’arte) debbono circolare liberamente, partecipare alla vita, confrontarsi con essa e con noi. I nostri musei, per retaggio storico e possibilità di bilancio, sono costretti a proporre artisti italiani quasi sempre mediocri per mancanza di confronti, e quindi di respiro. Non può esserci arte senza confronto, come non può esserci vita senza aria. Guardiamo i tre artisti italiani affermatisi internazionalmente negli ultimi vent’anni: Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft, Francesco Vezzoli. Tutti e tre nati in Italia ma prestissimo operanti in Europa o a New York. Un puro caso? Gli unici due curatori con un rilievo e attività internazionale sono Francesco Bonami e Massimiliano Gioni. Entrambi nati in Italia ma affermatisi a New York. Altra coincidenza?
La realtà è che l’arte e la cultura hanno bisogno di aria sempre nuova e fresca, di idee che si confrontano e che si arricchiscono con i contributi di molti. L’arte è un crogiolo rovente in cui ribollono culture, etnie, retaggi che si completano o si trasformano.
In Italia, purtroppo, nulla di tutto questo. Musei e spazi pubblici (quasi tutti) annoiati, noiosi, ripetitivi, gallerie private con mediocri italiani in via di sviluppo ma che per mancanza di stimoli e di confronti resteranno artisti dimezzati, curatori e critici senza alcuna visione o esperienza internazionali. Ecco perché gli artisti italiani non partecipano ai grandi eventi internazionali, ecco perché la giovane arte italiana resta sempre fuori dai processi più interessanti.

Fabio Cavallucci: È vero che in Italia la cultura è spesso soggetta alle determinazioni politiche, da cui dipendono nomine di direttori, soprintendenti e funzionari. E magari fosse una questione di destra o di sinistra, che almeno si potrebbe pensare a linee ideologiche: il fatto è che il più delle volte si tratta di scelte personali. Però non si può negare che da qualche anno qualcosa si sta muovendo, che la Darc ha dato un impulso alla giovane arte italiana, con il premio, con la presentazione del vincitore alla Biennale di Venezia e con l’acquisizione di opere per il Maxxi. Certo le sue armi andrebbero affinate, con la costituzione di un vero e proprio organismo per la promozione (come la Mondriaan Foundation olandese, la Pro Helvetia per la Svizzera, o il British Council per il Regno Unito). Del resto gli artisti e i critici non hanno colpe? Non credete che anche all’interno del mondo della cultura, come dice Sacco, spesso si pecchi di provincialismo? Non solo per quanto riguarda il sostegno degli artisti italiani quando si è chiamati a fare nomi, ma anche, prima ancora, nell’elaborazione di temi e contenuti. Spesso artisti e critici si accontentano della pacca sulla spalla reciproca, si compiacciono del proprio piccolo giro, senza accorgersi che il mondo sta andando da un’altra parte.

Francesca Pasini: Il “piccolo giro” è legato al fatto che in questo ultimo decennio l’arte contemporanea ha decisamente superato i confini nazionali. Nel 2001 Szeemann aveva intitolato la sua seconda Biennale di Venezia La platea dell’umanità, all’ultima Biennale la platea è diventata simbolo di quelle “geografie della centralità” di cui parla la sociologa Saskia Sassen: “rassomiglianze tra pezzi del territorio, autorità e diritti che un tempo erano invece associati allo stato nazionale”. Il sistema dell’arte può essere inteso come una delle geografie della centralità, dove il diritto risponde alle esigenze comunicative ed economiche più che ai messaggi culturali: in questo vedo la disparità rispetto al tradizionale rapporto tra arte e mercato e anche il rischio di un adeguamento tra costo dell’opera e valore culturale, che non può aiutarci a individuare un processo di de-nazionalizzazione aperta e sganciata dal potere corporate. In Italia non appartenendo, peraltro, alle geografie della centralità, ci troviamo a privilegiare tutto ciò che proviene da quei luoghi senza controproporre la nostra realtà. Cosa che, invece, fanno tutti quei paesi che dopo la caduta del muro di Berlino sono entrati in modo diretto ed efficace nel dibattito artistico contemporaneo, o quelli che oggi costituiscono la nuova espansione economica e tecnologica, come India e Cina.
O tutti ritengono che in questo momento in Italia non ci siano artisti di valore (cosa che io non condivido) o subiamo talmente il potere delle geografie centrali, da preferire il ruolo di diffusori della cultura artistica altrui, alla proposta di una ricerca autonoma nazionale.
Se, come afferma Saskia Sassen, bisogna analizzare il cambiamento rispetto al concetto di stato nazionale e allargarne i confini, questo non significa abdicare alla dimensione individuale della nazionalità, ma esprimerla con altri sistemi di dialogo. L’arte contemporanea italiana può partecipare a questo processo se prima sperimenta i propri legami con il territorio a cui appartiene. Altrimenti è impossibile registrare la sua funzione critico-costruttiva nei confronti una de-nazionalizzazione aperta ad altri influssi. In Italia non c’è una selezione reale, anche dura, dei valori emergenti e così anche i grandi maestri, ultimamente, sono meno rappresentati nelle rassegne internazionali. Siamo in una duplice impasse: da un lato, non investendo sulla nostra realtà non abbiamo concrete verifiche di ciò che sta emergendo, né delle evoluzioni di ricerche già affermate; dall’altro nelle gallerie, e spesso anche nei musei, non arrivano mostre internazionali che rappresentano punti nodali. Bertrand Russell diceva “meglio mai che tardi”, io credo, invece, che anche se tardi bisogna avviare una grande campagna di analisi dell’arte contemporanea italiana e documentare una selezione critica.

Denis Isaia: Avevo preparato un intervento a cui rinuncio con convinzione per sottoscrivere la proposta di Francesca Pasini.

Cecilia Alemani: Tra le cause della mancanza dell’arte italiana dalla scena internazionale credo ci sia anche un problema di contenuti e di linguaggio. Salta sicuramente agli occhi una certa autoreferenzialità nei lavori di molti giovani italiani, un girare attorno agli stessi aspetti e temi, non necessariamente approfondendoli però. Trovo per esempio significativo che ci siano pochissimi giovani artisti che affrontino tematiche politiche nelle loro opere. Non che lavori politici implichino necessariamente una maggiore profondità, ma sicuramente ci sono problematiche sociali e internazionali che restano ancora tabù agli artisti italiani, e che forse permetterebbero loro di entrare in dialogo più facilmente con altri artisti europei e americani. Questo è anche il frutto di una certa mancanza di identità non solo nazionale, ma di linguaggio artistico e di contenuti. Recentemente a New York al PS1 si è tenuta una mostra di arte italiana dal titolo Senso Unico, spacciata come un perfetto sguardo sul panorama della giovane arte italiana. L’America pensa quindi che Vezzoli, Filomeno, Canevari, Pivi, Roccasalva, Paci, di Martino e Beecroft siano i nostri migliori rappresentanti all’estero. Senza togliere a nessuno dei partecipanti il merito di una produzione artistica sicuramente significativa e importante, trovo che la mostra sia un perfetto specchio della situazione italiana: una grande confusione, una totale mancanza di un qualsiasi linguaggio comune o di un focus, e una serie di individualità accostate in modo completamente casuale.

Francesca Pasini: La crisi dell’idealità politica italiana influisce in tutti, mentre le emozioni e i pensieri politici che hanno connotato le opere degli artisti emersi all’inizio degli anni Novanta da tutta quella parte del mondo che prima non aveva partecipato all’arte contemporanea provengono da un effettivo cambiamento sociale, tradottosi in una libertà che ha consentito di uscire concretamente e metaforicamente dal proprio paese. In Italia nel dopoguerra c’è stata una situazione analoga, che ha raggiunto una punta di eccellenza con il neorealismo del cinema, mentre gli anni Settanta hanno fatto da detonatore all’Arte Povera. L’autoreferenzialità si manifesta quando non c’è una effettiva decisione nel partire da sé, nel dichiarare le contraddizioni che singolarmente tutti, e non solo gli artisti, devono affrontare. I temi all’ordine del giorno riguardano la crisi della democrazia in un paese sviluppato e non la liberazione da autoritarismi, come è avvenuto in molti paesi dell’ex Unione Sovietica. La qualità politica dell’arte italiana sta nei percorsi che affrontano l’idea di crisi culturale e individuale. Come diceva Gertrude Stein nel suo ritratto di Picasso, gli artisti prevedono il futuro perché “sono i primi a intuire il cambiamento che avviene all’interno della loro generazione”. Alcuni artisti italiani hanno offerto visioni differenziate della necessità di partire da sé, ma in altri vedo un’incertezza nel decidere qual è la questione che li riguarda, qui e ora, e non in una indistinta area internazionale: è questo che determina la disparità rispetto a chi analizza con precisione l’appartenenza alla propria cultura. L’arte ha sempre messo in primo piano una questione culturale che poteva contribuire all’innovazione sociale e non solo la registrazione dei movimenti politici in atto.

Milovan Farronato: Condivido il sentimento di casualità che aleggia alla base della recente mostra che cita Cecilia Alemani, non condivido appieno l’ipotesi di una mancanza di contenuti e significati. Che l’arte italiana non sia in generale legata a tematiche politiche è un assunto abbastanza evidente ma forzarla in tal senso mi sembra, per l’appunto, una forzatura. E se il provincialismo, il “local”, fosse il contenuto e la chiave di volta? Non si potrebbe valorizzare il genius loci e contro la centralità, per citare Okwui Enwezor, innalzare la bandiera, anche per l’Italia, di uno stato e una condizione di “soft power”? Quello che voglio sostenere è sostanzialmente che se non riusciamo ad essere perfettamente “allineati”, per tutti i motivi che sono emersi nel corso di questa conversazione e per altri che subentreranno, è meglio non provarci neppure. Meglio essere autentici che scimmiottare… In questo modo ci si può permettere il lusso almeno di “delirare” nel senso etimologico del termine, e quindi debordare oltre la “lira”, verso l’incolto per riscoprire eventualmente lo specifico “italiano”.

Roberto Pinto: Nonostante condivida le analisi precedenti, continuo a pensare che il lato debole sia il sistema e non le singole personalità (artisti e curatori). I musei italiani, con le eccezioni di Trento e Bolzano, per reclutare curatori e direttori non hanno mai indetto concorsi aperti in cui una commissione scientifica valuti curriculum, progetti e capacità realizzativa dei candidati. Conseguenza di questo dato di fatto è la casualità delle nomine (dipende dalle conoscenze e dalle simpatie dell’assessore alla cultura di turno) che riserva a volte lodevoli sorprese ma, in generale, fa sì che l’enorme sforzo che le singole città, piccole e grandi, stanno facendo negli ultimi anni sia assolutamente privo di efficacia e inadeguato per la creazione di un serio network di sperimentazione e di ricerca. La situazione non migliora se spostiamo l’attenzione su Accademie e Università, le prime affollate di docenti assolutamente privi di qualsiasi contatto con il mondo artistico reale e le seconde troppo intimorite dalla complessità sfuggente del contemporaneo.
Viviamo, quindi, in un sistema completamente privo di punti di riferimento sia a livello pratico che teorico, e i musei che cercano di diventarlo, Rivoli o il Mart (per fare gli esempi di gran lunga più positivi, con le differenti caratteristiche che li contraddistinguono), sono palesi roccaforti di potere: non mi sembra che si possa considerare “normale” il fatto che Ida Gianelli sia da diciassette anni la direttrice di Rivoli o che Gabriella Belli “da sempre” sia la direttrice del suo museo. E gli artisti che in questi anni hanno lavorato con modalità diverse e/o con intenti politici (e ce ne sono stati diversi) sono stati ignorati anche dal mercato, proprio per la limitatezza del sistema italiano privo (come ha giustamente sottolineato Pierluigi Sacco nel suo intervento) della necessaria complessità e di un buon rapporto con il pubblico.
La confusione e la casualità credo siano semplicemente il frutto della situazione italiana che continua ad essere allo sbando, unicamente a caccia di eventi (Milano potrebbe assurgere ad emblema di questa situazione) e incapace di costruire se non per rinforzare le proprie strutture di potere. Con fatica devo ammettere che ci siamo adagiati (artisti e curatori) in questa situazione applicando strategie di sopravvivenza che non sono servite a costruire reti di informazioni, di collaborazioni fondate sui saperi e le conoscenze. Tuttavia, se si vuole cominciare a cambiare, bisogna darsi delle regole etiche (perché la Darc non fa un prontuario ad uso delle singole amministrazioni su come reclutare e gestire gli spazi espositivi?), oltre a cambiare aria sia andando fuori sia, soprattutto, organizzando residenze di artisti e curatori con l’obiettivo di farli collaborare con istituzioni espositive, Università e Accademie italiane.

Cesare Pietroiusti: Anche a me sembra che in Italia manchi un vero sistema dell’arte contemporanea, prima di tutto perché gli attori – ancora abituati ad attitudini monopolistiche – non si riconoscono reciprocamente e sprecano molta energia a negare l’altrui esistenza. Questo paradossalmente provoca una specie di paralisi del pensiero critico e una quasi totale assenza di luoghi di dibattito sul contenuto delle ricerche degli artisti. Ai  partecipanti e ai lettori di questo forum io chiedo: ma non vi viene mai voglia di stare davanti ad un’opera e discutere, con l’artista e con altri, apertamente, criticamente, anche duramente, fino a sviscerarne i significati e le implicazioni? Mi sembra che sia urgente fondare un luogo, sia pure il tavolino di un bar, dove succeda qualcosa del genere. Inoltre non si può, per buona educazione, nascondere il fatto che troppe fra le decisioni che contano, vengono prese per interessi partitici o di bottega, oppure con lo scopo di sfruttare l’”effetto annuncio” (al Maxxi è stato cambiato nome varie volte, ma è sempre lo stesso: se ne parla dal 1997, è stato “lanciato” tre o quattro volte, e, come in un permanente stato di eccezione, è ancora in costruzione…). Vogliamo parlare della competenza “scientifica” del direttore della Festa del Cinema di Roma, o del Palazzo delle Esposizioni, tanto per dire? Mi permetto di chiedere ai responsabili della Darc un impegno concreto: che la nomina del direttore del Maxxi (se e quando esisterà) si faccia attraverso bando pubblico, con una giuria di artisti e curatori internazionali, senza burocrati o rappresentanti di partito. È assurdo?
Detto ciò, che grosso modo è noto, vorrei aggiungere che ritengo l’ampliamento dell’interesse (soprattutto da parte di persone giovani) per l’arte contemporanea in Italia una cosa entusiasmante: il vero pubblico di qualità, quello con cui è possibile scambiare significato, è costituito dagli studenti (di università, accademie, master ecc.). Personalmente mi capita di incontrarne sempre di più e, contrariamente ai loro colleghi di soltanto dieci anni fa, oggi mi sembrano finalmente liberi di informarsi (praticamente gratis) sulle ricerche degli artisti attraverso internet e le newsletter e quindi di muoversi oltre il depressivo orizzonte finora offerto dai loro professori. Che risposta danno, a questa domanda di senso, le grandi rassegne, le biennali o le fiere? Perché non fondiamo una fiera d’arte contemporanea in cui le opere si scambiano non con il denaro, ma con il pensiero, con il significato? L’arte è di chi la capisce, non di chi ha i soldi per comprarla, o il potere politico per nominare i direttori dei musei. Se facessimo una fiera del genere, in Italia, saremmo, almeno in questo, i primi nel mondo. E state pur certi che in molti si accorgerebbero di noi.


Cecilia Alemani, curatrice indipendente e critica d’arte, vive tra New York e Milano.

Giacinto Di Pietrantonio, critico e curatore, è direttore della GAMeC, Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo.

Milovan Farronato, critico e curatore indipendente, dal 2006 è direttore artistico di Viafarini, Milano.

Denis Isaia, critico e curatore indipendente, ha curato nel 2007 per la Provincia di Bolzano il premio internazionale per giovani curatori Best Art Practices.

Anna Mattirolo è storica dell'arte e curatrice, è responsabile del servizio arte contemporanea della Darc e direttrice del Maxxi Arte di Roma.

Francesca Pasini, critica e curatrice indipendente, collabora con “Artforum”, “Tema Celeste”, “Flash Art” ed è direttrice della Fondazione Pier Luigi e Natalina Remotti di Camogli (Ge).

Cesare Pietroiusti è artista e insegna alla Facoltà di Design e Arti dello IUAV a Venezia. Vive e lavora a Roma.

Roberto Pinto, critico e curatore indipendente, collabora con C/O Careof e Viafarini a Milano, con la Fondazione Ratti di Como e insegna all’Università di Trento.

Giancarlo Politi è direttore ed editore di “Flash Art” e curatore della Biennale di Praga.

Pierluigi Sacco è economista dell’arte e insegna allo IUAV di Venezia.



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