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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 7 Numero 22 primavera 2008



Dipingere è una cosa ordinaria

Maria Brewi?ska

Intervista a Wilhelm Sasnal



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


EditorialeEditorial
Fabio Cavallucci

MostraExhibition
Wilhelm Sasnal. Anni di Lotta/Years of Struggle

Una pittura iconoclasta/Iconoclastic painting
Fabio Cavallucci

Dipingere è una cosa ordinaria/Painting is ordinary
intervista a/interview with Wilhelm Sasnal di/by Maria Brewin’ska

Rewind
Live in galleria/Live in Gallery
Marco Anesi

Speciale Manifesta 7Manifesta 7 Special

Prossima fermata Trentino-Alto Adige/Next stop Trentino-South Tyrol
conversazione tra/conversation among Fabio Cavallucci, Hedwig Fijen e/and Andreas Hapkemeyer

Che cos’è Manifesta 7?/
What is Manifesta 7?

L’impresa Manifesta. Giro di voci in un territorio in attesa/The Manifesta venture. Vox pops in a territory in waits
Alessandro Franceschini

La parola ai curatori. Visioni a confronto/In the words of curators. Comparing their visions
intervista a/Interview with Adam Budak, Anselm Franke e/and Hila Peleg,
Raqs Media Collective di/by Cristina Natalicchio

In Progress
Gillian Wearing. Aspettando il monumento/Waiting for the monument
Cristina Natalicchio

2000 words
Bang
Maurizio Cattelan in conversazione con/in conversation with Pietro Roccasalva

MusicaMusic
Boredoms. Un ponte tra cielo e terra/A bridge between the earth and the sky
Gianluca Taraborelli

DocumentiDocuments
Chiamatelo Godzilla/Call him Godzilla
Maurizio Sciaccaluga

Forward
Anteprima/Preview
Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento

Musei e GallerieMuseums and Galleries
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ia-Family, 2006
olio su tela
courtesy dell'artista e Foksal Gallery Foundation

rest, 2002
olio su tela
courtesy dell'artista e Hauser e Wirth Z%FCrich-London

Sasnal, shoah (interprete), 2003
olio su tela
Boros Collection-Berlin

Realizzi film e dipingi, ed entrambe le cose sono per te molto importanti. Prendi parte a grandi mostre collettive di pittura come Urgent Painting, Painting on the Move e ora The Painting of Modern Life alla Hayward Gallery di Londra. Hai cominciato la tua carriera artistica, tra l’altro, con mostre alla Zderzak e al CSW nel 1999. Ma nel 2001 alla Galleria Foksal hai proiettato il film Automobili e persone. Eri già attivo come pittore celebre, e hai allora annunciato che lavori anche con i film.
Questo avvenimento mi ha fatto venire in mente quando recentemente tu stesso hai detto di “avere rischiato per la seconda volta” e alla mostra dei candidati al premio Vincent allo Stedelijk Museum hai presentato unicamente tre film. E le tue ultime mostre individuali si componevano consapevolmente di quadri e film, come se non volessi che ti si associasse solo alla pittura.
Che cos’è per te più importante, con che cosa ti identifichi?

È un po’ colpa mia se sono percepito principalmente come pittore. Fino al 2004 ho esposto quasi esclusivamente quadri, mentre i film erano riposti in un cassetto.
Un’eccezione è stata la mostra alla Galleria Foksal, che è stata in gran parte un’idea di Andrzej Przywara. Si trattava di aspettare... a un certo punto hanno cominciato ad espormi e abbiamo preso la decisione consapevole di non mostrare i quadri, ma solo i film.
Per la prima volta ho presentato i film insieme ai quadri a una mostra presso la Kunsthalle di Zurigo (2003) – erano proiettati in un luogo un po’ defilato, in biblioteca, su uno schermo televisivo. Nel 2004 allo Stedelijk Museum di Amsterdam ho preso parte alla mostra Who if not we...? di artisti dei paesi che erano entrati nell’Unione Europea. Ho esposto sia i dipinti che i film, e due anni dopo alla mostra The Vincent 2006 allo Stedelijk ho deciso di presentare solo i film River, Kodachrome e Camera.

Quale reazione hai riscontrato?
Il curatore non ha commentato i film, ha detto solo che ama molto la mia pittura. Ma sentivo che questa volta non dovevo esporre la mia pittura. Davvero non mi aspettavo di ricevere un premio, è stato un grande evento nella mia vita adulta. Ho capito allora che qualcosa era cambiato. Per molto tempo, quando provavo a mettere insieme i quadri e i film, era come se le persone non si accorgessero dei film. Ora sono sempre più spesso percepito sia come un artista pittorico che filmico. Il fatto di dipingere e realizzare film mi fa prendere una certa distanza nei confronti di entrambe le discipline. Non devo professarmi solo pittore. “Essere pittore” lo associo a ciò che mi hanno insegnato all’Accademia. Non nascondo che è un guscio che ancora mi porto sulle spalle.

Spesso parli con una certa avversione dell’Accademia e dell’“essere pittore” in senso negativo, accademico.
La pittura spesso mi fa pensare a una tecnica sterile, cioè a una tecnica perfetta, ma priva di anima ed energia. Non voglio essere perfetto, vorrei avere il massimo della distanza possibile da ciò che faccio e la facoltà di guardare ad esso da una prospettiva più ampia. Dipingendo a volte ho la sensazione che non so nulla e che sia il quadro a guidare me, non io il quadro. Provo questa sensazione ancora più spesso facendo film. D’altra parte ho questa facilità di dipingere; se voglio risolvere qualche problema, mi è molto più semplice dipingerlo, mentre filmare è sempre un lavoro su un materiale che ho prima raccolto e dal quale solo dopo voglio tirare fuori qualcosa.

Che cosa è venuto prima, la pittura o i film?
La pittura, ma in verità prima ancora c’era l’ascolto della musica... È cominciato con il ricalcare le copertine dei dischi di heavy metal, durante il primo anno di istituto professionale. Ho scoperto anche il gruppo rock Bauhaus e ho appreso allora che cosa fosse il Bauhaus in arte, ho letto un libro sul cubismo, non ci ho capito niente, ma l’ho letto fino alla fine.

Vivevamo oltre la cortina di ferro, e dunque non tutto arrivava fino a noi. La fonte principale per la musica era la radio. Quale radio ascoltavi allora?
Soprattutto il Terzo canale. C’era anche il Secondo Canale della Radio Polacca e le sue serate dedicate ai dischi. Uno dei dischi più importanti per me è stato South of Heaven degli Slayer, la prima volta l’ho registrato proprio dal Secondo canale, una domenica alle nove di sera. Non ascoltavo la Stazione degli Scout, allora non ero ancora così alternativo.

Andavi a lezione di disegno, imparavi a dipingere e fare film?
Ricordo il mio primo quadro, che ho dipinto su una tavola con colori a olio – era un paesaggio di Cracovia, dal libro Paesaggi di Cracovia di Adam Bujak. Ero forse al quarto anno di scuola. Tornavo da scuola, dipingevo, per me stesso, e disegnavo moltissimo. All’università scelsi architettura, perché sapevo che non ce l’avrei fatta a entrare all’Accademia. L’architettura divenne un surrogato degli studi artistici. Allora avevo già cominciato a frequentare le lezioni, andavo a Cracovia da un professore del Politecnico che teneva i corsi per i candidati a entrare all’università. Entrai ad Architettura, e dopo due anni, quando ormai dipingevo più di quanto facessi progetti, superai l’esame per entrare all’Accademia.

Come hai fatto a sopportare quei due anni ad Architettura? Sentivi di essere costretto a fare una cosa invece di un’altra?
No, non posso dire che fosse una costrizione. Gli studi universitari davano molte possibilità, potevo fare varie cose. Ma quando entrai in Accademia sentii che qualcosa stava cambiando nella mia vita. Fu forse al secondo anno che comprai dal padre di un amico d’infanzia una cinepresa a 8 mm. E fu il mio primo contatto con una cinepresa, nel 1995. Giravo, filmando situazioni normali, familiari. Mi sono interessato ai film perché ero affascinato da quelli di Ryszard Antoniszczak.

Antoniszczak impiegava diverse tecniche di animazione, inclusa quella di disegnare direttamente sulla pellicola.
Lo faceva a mano e per quei tempi primitivi era qualcosa di molto coraggioso; secondo me fu il capostipite del punk nel cinema. Colorai il mio primo super 8 – mi piaceva scrivere, incidere la pellicola con pennarelli ad alcol perché le scene prendessero vita come nei film di Antoniszczak.

I tuoi primi film erano molto sperimentali, allora provavi le possibilità del mezzo. Imparavi a conoscere il materiale...
Sì, mi aiutarono molto Marek Norek e Krzysztof Szafraniec del Centro di Cultura di Nowa Huta. Mi davano la pellicola, mi facevano vedere come si sviluppano i film e imparai a farlo in autonomia. I miei primi film, che ora in qualche modo funzionano ancora, sono stati girati con una cinepresa a 16 mm che avevo ricevuto da loro.

Perché utilizzi la pellicola e non la banda magnetica?
Perché è un altro tipo di immagine. Quando dipingo qualcuno, creo un tipo di universum. Mi sembra che un simile risultato lo dia la pellicola – una certa solidità, densità del medium, come il colore a olio. Ha anche importanza il modo in cui in seguito lo proietto – l’immagine dal proiettore è così e non altra. Ho anche la consapevolezza che non posso filmare tutto, senza fine, la pellicola è corta, solo tre minuti e devo prendere la decisione di girare qualcosa proprio in quel momento.

Hai scelto la pittura in un momento in cui dominava la video arte e l’installazione, e l’interesse per la pittura era minore... Che cosa ti interessava allora?
Non mi orientavo molto bene in ciò che accadeva nel mondo dell’arte. A quel tempo era così, che se a una cosa non ci si arrivava da soli, certo a scuola non si imparava. Per me furono molto importanti Andrzej Wróblewski e il Gruppa, percepivo la loro opera come un qualcosa di ancora molto fresco, avevano un buon approccio alla pittura, vi compariva anche la musica... Non era pittura seriosa, pomposa. Ero anche a conoscenza di Libera, Kozyra, anche se non erano pittori.

I quadri dipinti tra il 1997 e il 2001 erano completamente diversi – pop-banalistici, nominalistici – la critica li chiama in vario modo... Come sei arrivato a una svolta nella tua pittura?
Suppongo che fossi stanco del gruppo ?adnie. Provai a fare qualcosa di mio, ma c’era sempre quel forte marchio di fabbrica. E a un certo punto mi sono detto che non volevo più avere nulla a che fare con quello che avevo fatto fino ad allora, con quella creazione allegra, acritica, che non tocca le cose fondamentali. Capii anche che si dipinge perché c’è qualcosa che non si può nominare con le parole, che in larga misura l’arte è misteriosa, tocca ciò che è invisibile, indicibile. E in verità non mi piacciono i giochi in arte né l’arte che è vicina al modo in cui funziona la pubblicità, ma piuttosto amo le emozioni e il mistero che l’arte contiene. Del resto ho anche un problema nell’ascoltare musica in cui al primo posto ci sia il gioco o lo scherzo. Era il 2001, ma ancora mi capitava di fare certi quadri pop... Non accadde però che bruciai tutto e dissi “mai più”... Forse non è stata una rivoluzione, ma un’evoluzione.

Oggi dipingi quadri molto diversi, giochi con le convenzioni, decostruisci, riduci, utilizzi sfasamenti, commetti errori – rifuggi costantemente il “bel” quadro.
Quando non sapevo che cosa filmare, facevo sempre qualche casino, perché ci fosse un po’ di azione che potessi riprendere, e probabilmente è lo stesso con i quadri. Forse è una contraddizione, la ricerca dell’estremo; per me è importante mettere qualcosa sottosopra, rivoltarla, è in gran parte una ricerca. Ma ci sono anche molti quadri pianificati.

Da sempre dipingi a partire da fotografie, ma tratti la fotografia solo come un utile medium, perché conta il soggetto, ciò che è nella foto...
Dopo la scuola fuggivo dalla pittura dei quadri, ritoccavo le foto in modo che il quadro fosse il meno possibile artistico, accademico. E ora, come vedi, compaiono colle, tessiture ecc., cose puramente pittoriche che prima non avrei mai usato, perché le associavo a qualcosa di anacronistico. In questo momento il medium da cui prendo le immagini non ha importanza, è secondario. Ma c’è sempre qualche fotografia.

Suppongo che alla pittura non si accompagni un’immagine fissa nella mente, ma che sia soggetta a cambiamenti...
Effettivamente non è un fermo immagine, nel quadro costruisco un intero mondo, incluso il tempo che passa mentre dipingo, ma anche il tempo di cui un dato soggetto è impregnato.

Può sembrare che registri incessantemente un soggetto dopo l’altro per i tuoi quadri...
Oggi, mentre andavo in macchina, ho visto una cornacchia che teneva qualcosa nel becco. Ho pensato che ciò che vedevo avesse molti significati, ma non voglio dargli un nome, rinchiuderlo. Non ho fatto in tempo a fare delle foto, ho cercato delle foto con una cornacchia su internet. Ne ho trovata qualcuna, compresa una vicina a ciò che avevo visto, e un’altra più strana. La prima visione di una cornacchia agisce come un motorino d’avviamento, perché poi inizio a rovistare, a cercare una cosa dopo l’altra. E non so in che direzione vado, ma trovo sempre qualcosa di interessante lungo la via. In gran parte è il caso. Ciò che riconosco come osservazioni importanti viene da presentimenti, intuizioni, e non da una scelta o da un’associazione razionale, come ad esempio le cornacchie nell’emblema nazionale tedesco.

Una volta hai detto che dipingere ti rinchiude e filmare ti apre. È ancora così?
Quando dipingo, sono solo con la mia tela. Il lavoro su un quadro procede in varie tappe. La pittura di un quadro è sempre in qualche modo la trasformazione di ciò che una volta ho visto, o mi è venuto in mente – è come praticare un foro nella propria pancia, escolare i colori da qualche parte all’interno, io quando dipingo mi immergo profondamente dentro me stesso. Le immagini che mi si presentano sono piuttosto casuali, compaiono prima che le inizi a dipingere. Raramente le cerco, più spesso le trovo. Ma con i film devo piazzare la cinepresa, indirizzare lo sguardo sulle situazioni su cui in seguito posso costruire la narrazione, o che posso abbinare alla musica. Per me un film in gran parte si lega alla musica. Quelli tra i miei film che sono un’illustrazione della musica hanno preso origine dal mio girovagare per la città con il walkman; è il video musicale più bello, che si gira nella mente – ascolti musica e guardi il mondo adattandolo alla musica. Allora devo avere
gli occhi ovunque intorno alla testa, per trovare la situazione appropriata. Assorbo più di quanto non “sputi fuori”. Dipingere è un po’ sputare, e filmare è assorbire.

Che cosa accade al materiale raccolto, fino a che punto lo sottoponi a una selezione e a un trattamento?
A volte il materiale giace per un paio d’anni e aspetta il suo momento. Gli do un’occhiata, ascolto la musica e mi figuro che cosa potrebbe funzionare. Se giro secondo un piano o un copione, inizio a lavorare su quello subito dopo aver sviluppato la pellicola.

Dipingi/sputi un gran numero di quadri, solo la mostra Cento pezzi, svoltasi alla Zderzak nel 1999, suggeriva l’esistenza di una considerevole quantità di quadri. Da dove viene questa energia nel dipingere? Si può parlare in generale di energia?
Sì, ti senti il fuoco dentro e devi fare qualcosa. Mi sveglio con questa sensazione e so che devo subito mettermi a lavoro. E d’altra parte è un modo ideale per combattere la noia.

Si può avere l’impressione che hai un’eccezionale facilità nel dipingere...
No, è un’illusione. Se sei serio con te stesso, e onesto con le persone che guardano, allora diventi sempre più esigente con te stesso. È il mio pane quotidiano, ad esempio quello che ho fatto oggi con quell’uccello nero su sfondo verde. L’ho dipinto, ma ho pensato che ancora non ci siamo. Davvero lotto con questo, cancello il colore e ricomincio da capo. E questo è un’altro lavoro rispetto alle illustrazioni dei fumetti. La pittura è per me come assorbire un frammento della tela tramite l’energia e la densità del colore...

Che cosa vuoi in tal modo ottenere?
Luc Tuymans ha detto che ha sempre dipinto quadri in modo tale che sembrassero dipinti cinquant’anni fa. Ma io voglio dipingere quadri tali che fra cinquant’anni sembreranno identici, voglio trovare una forma che va oltre il tempo. È proprio questo che mi impressiona nella pittura – trovare una tale consistenza, una densità del colore, delle tinte, che determinino il carattere imperituro del quadro.

Spesso dipingi i quadri in serie, costruendo una narrazione più ampia intorno a un soggetto che ti interessa.
Ci sono soggetti che richiedono più di un quadro, un più ampio commento: Ural, Mos’cice, mi interessa anche la tensione, la chimica tra i quadri, perché l’accostamento di due dipinti crea una nuova situazione, un nuovo contesto. E alcuni di essi sono autosufficienti, possono funzionare al di fuori del gruppo. Ma per dipingere un tale quadro bisogna portare un certo bagaglio, acquisire credibilità tramite altri lavori.

Come sono nati i quadri della serie di Mos’cice? È un soggetto importante nei tuoi dipinti, molto personale.
Sulla base di fotografie di famiglia e foto prese dai libri. Non c’è solo questa serie, è stata in qualche modo integrata perché ho dipinto molti altri quadri: il cielo e i riflettori dello stadio, Anka alla casa della cultura, la strada per Mos’cice. Questo soggetto vive in me, non ho ancora realizzato un lavoro che illustri per intero Mos’cice.

Dipingi le serie di getto o a distanza di tempo?
La serie di Metinides l’ho dipinta di getto, e anche le altre. Ma alcuni soggetti si ripetono continuamente, ogni tanto ritornano e li continuo, come ad esempio gli aerei o i pianeti.

Perché ti affascinano così tanto gli aerei?
Perché non c’è un altro dispositivo che, sebbene sollevi in aria il corpo umano, sia allo stesso tempo così comune come l’aereo. È un normale mezzo di trasporto, anche se non è la condizione naturale dell’uomo. Nel caso dell’Ufo si trattava di qualcos’altro, di dipingerlo sulla base delle foto anche se non si sa se siano foto di un oggetto reale
o una manipolazione. Ci si invischia nella psichedelia – il soggetto stesso è ambiguo, tocca la questione della fede, dell’ingenuità...

Il film Concorde è anch’esso sul volo, sul volo di addio di questo gigante, a cui del resto hai partecipato...
Da bambino sapevo dell’esistenza di un aereo che era il più veloce, il più bello e che volava più in alto di tutti. Quando hanno annunciato la fine dei voli del Concorde, volevo fare qualcosa. Per me era come la fine di un’era, come se avessero rinchiuso la mia infanzia nella bacheca di un museo. Per questo ho volato con il Concorde e ho filmato il cielo attraverso il finestrino. Volevo che in seguito questo film, mostrato al proiettore, si consumasse fino a scomparire, come il tempo, come la memoria.

È un film sulla fugacità? È piuttosto sentimentale.
Sì, in ciò che faccio c’è molto sentimentalismo, non lo nego.

Hai affrontato un tema simile nel film Kodachrome – la fine di una tecnologia di culto…
In Occidente intere generazioni hanno girato film in Kodachrome, volevo mostrare la fine di quest’epoca. Nel film ho raccolto le dichiarazioni di varie persone che lavoravano su Kodachrome a livello amatoriale e anche l’opinione di specialisti sul fatto che questa pellicola era particolare perché non si sarebbe mai sbiadita. Le ho mischiate con informazioni come quella che l’omicidio del presidente Kennedy era stato registrato su quella pellicola, perché un parrucchiere aveva la cinepresa e aveva filmato l’arrivo del presidente... Entrambi i film sono sulla fine di un’epoca e della tecnologia che l’ha contrassegnata. Concorde è forse meno immediato, più concettuale. Nel film Kodachrome ho mescolato le citazioni che riguardano il materiale e la pellicola con quelle di chi ha viaggiato in Concorde ed era tanto felice di realizzare il proprio sogno. Entrambi i fenomeni sono nati e sono morti più o meno nello stesso periodo.

Con i film lotti forse meno che con la pittura. In aggiunta alla musica e ai viaggi, girare film ti dà molto godimento?
Girare film è meno impegnativo che dipingere. Sì, è un grande godimento portare la cinepresa in un posto nuovo e interessante, dove tutto si dispone in una totalità. Girare film è anche afferrare una realtà che mi sfugge, che per me è nuova. Nel film Brazil tutto si svolgeva casualmente, le dimostrazioni di piazza non erano pianificate, accadeva di fronte ai nostri occhi e non sapevamo di che cosa si trattasse. Era un puro piacere filmare quegli avvenimenti, ma in un tale trattamento della realtà c’è anche la mia bramosia: quando qualcosa mi interessa voglio filmare tutto. Del resto anche in pittura voglio appropriarmi del più grande spazio possibile, avere tutto per me. Nei film mi piace creare una nuova realtà a partire da quella esistente, costruire una nuova vita a partire da elementi reali, da ciò che attualmente si verifica. Si può commuovere lo spettatore fino alle lacrime... Le persone non si commuovono così tanto guardando i quadri...

Si può dipingere tutto ciò che si può immaginare. Senti di essere in qualche modo limitato in ciò che puoi dipingere?
Sì, ci sono cose che non dipingo, sebbene altri lo facciano. Gerhard Richter in qualche intervista ha detto che in Atlas ha raccolto un archivio di foto tra le quali c’erano quelle dei campi di concentramento, e ha pensato che ciò non può essere dipinto. Anch’io la penso così, posso dipingere sulla base di Maus, perché lì c’è come una diluizione, sul confine tra la morale e l’estetica, ci sono cose che non affronta...

A proposito del film 80064 di Artur Z.mijewski e del suo protagonista, che ha accettato di farsi tatuare nuovamente il numero del campo, hai detto che queste persone sono per te intoccabili, e dunque non avresti mai potuto comportarti come ?mijewski né in un film né in un quadro, così come non dipingeresti il campo di concentramento a partire da una foto.
Ciò che ha fatto Artur riguardava un uomo reale e il suo vissuto. Io non l’avrei mai fatto, non avrei rischiato di risvegliare emozioni in un uomo che è passato per una cosa del genere. Forse è nella mia immaginazione, del resto queste persone sono riuscite a cavarsela in quella realtà. Non so, ad ogni modo non l’avrei fatto.

I quadri in cui risali all’epoca dell’Olocausto parlano spesso attraverso paesaggi, luoghi della memoria o dell’oblio, i quali, come in Lanzmann, svolgono il ruolo di testimoni della morte. Se appaiono persone, sono ad esempio l’interprete con il volto cancellato.
Sì, si trattava di dipingere un testimone muto, che traduce solamente, che non prende alcuna posizione, che semplicemente si trova in mezzo agli interlocutori.

I quadri sui rapporti tra ebrei e polacchi affrontano un tema tabù. Sono molti, quali sono le tue motivazioni?
Tra i vari motivi, prima di tutto l’acquisizione della conoscenza, della consapevolezza di ciò
che è successo. Il film di Lanzmann Shoah e il fumetto Maus di Spiegelman sono apparsi nello stesso periodo, ecco perché ho fatto dei quadri su di loro. Dall’altro lato, e lo ammetto, è una forma di sentimentalismo, il passato è più romantico, e io attraverso questi lavori in qualche modo mi trasporto nel tempo.

Adam Szymczyk ha detto che affrontando temi che erano o sono ancora difficili, rimossi, tocchi la questione della vergogna e della colpevolezza e ti poni in posizione di colpevole, sebbene tu non lo sia.
Non è tanto la colpa, quanto il sentimento di vergogna, perché è successo qui. È terrificante che i polacchi vi abbiano preso parte. Nel libro Fear di Jan Gross sono citati i testi di Jastrun o di Andrzejewski sul fatto che è molto inverosimile che dopo la seconda guerra mondiale in Polonia sia potuto sopravvivere un così forte antisemitismo. È la rabbia, forse non la vergogna, ma l’onta di essere di qui.

I tuoi quadri generano anche una nuova sfera di soggetti collegati alla storia, nessun artista in Polonia scopre il passato come lo fai tu.
Mi sta a cuore, amo vedere i vecchi film. Sento che il tema della guerra è terribile, ma d’altro canto, per qualcuno che la conosce solo dalla televisione e dai racconti, è come una calda coperta con cui tutti ci copriamo. È una piattaforma comune, sulla quale si può dialogare.

Un simile quadro del passato, della memoria collettiva, è il ritratto di Narutowicz, che forse è un rifacimento... Ridipingi spesso i quadri?
Ho dipinto il ritratto di Narutowicz, che aveva un aspetto terribile, come se fosse stata la commissione per un dignitario qualsiasi. Ho pensato che l’unica cosa che avrebbe potuto salvarlo era offuscarlo con una specie di pellicola nera, un filtro, che suscitasse associazioni d’idee completamente diverse. E allora l’ho dipinto scuro. Spesso queste cose coperte di colore sono semplicemente malriuscite, ma non sempre ciò avviene senza una riflessione, mi domando quale sia il significato che potrà avere. A volte i quadri si dipingono da soli. Accade che dipinga un quadro, e dopo un anno spulcio nell’archivio e vedo che quel quadro non vale niente e non mi piace più. Ma non posso lasciare un quadro così cattivo, devo ridipingerlo, ricoprirlo, a volte perfino a più riprese.

Ci sono molti ritratti in cui manca una definizione del volto, ci sono buchi al posto delle labbra o delle cancellazioni, macchie...
Perché il volto dipinto in questo o in quell’altro modo spesso diventa una caricatura, o tradisce troppo. Hai citato il nominalismo – quei quadri sono ancora nominalisti, io voglio che contengano il più possibile, voglio creare una sorta di simbolo. Dipingendo oggi quella cornacchia,volevo dipingere tutte le cornacchie del mondo. Ecco perché a volte ricopro i volti, perché voglio creare un modello, voglio dipingere su quel volto tutti i volti del mondo
– puoi essere tu, posso essere io...

I tuoi quadri non ci permettono di dimenticare che guardiamo a delle pitture – nonostante tutto...
Una volta non volevo sentire una cosa del genere, ma adesso non mi disturba, forse consiste in ciò la liberazione da quel guscio (l’Accademia) del quale parlavo. Ora mi sento bene, e i quadri dipinti con gli olii e le colle vanno bene.

Non molto tempo fa in una conversazione telefonica hai detto: “È tanto che non dipingo un quadro”. Non hai dipinto a causa del lavoro con i film. Ho percepito un leggero rimorso di coscienza e ho pensato che ti senti nonostante tutto più un pittore.
Sì, me ne rendo conto ora – mi sento più un pittore. Quando non faccio film, non provo rimorsi di coscienza come quando non dipingo. Dipingere è semplicemente qualcosa di ordinario.


Maria Brewinska è critica e curatrice presso la Zacheta National Gallery of Art di Varsavia.