L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Con-fine (2007-2013) Anno 2 Numero 9 marzo-maggio 2008



Maria Micozzi

Giuseppe Di Bella

Il gesto rinfrangente del dolore



Trimestrale di Arte&Cultura Contemporanea


con -
Femminilità Violata.
Il silenzio della ferita.
Gino Fienga, pag. 10

relazioni
Eva, questa sconosciuta
Luciana Ricci Aliotta, pag. 12

kaleidos
Ghada Amer.

Il Riscatto della Femminilità.
Matelda Buscaroli, pag. 16

passeurs
Elena Mutinelli.
Le parole delle mani.
Stefano Lento, pag. 17

Maria Micozzi.
Il Nome il Branco.
Gino Fienga
Il gesto rifrangente del dolore.
Giuseppe Di Bella, pag. 21

in-camera
Confine in movimento
Nadia Lazzarini, pag. 29

chiaroscuro
Le Cicatrici Invisibili
Francesca Conti, pag. 32

exlibris
Trasparenze.
Manuela Gargiulo, pag. 35

pulsioni
E venne il tempo dei lupi.
Mario Ricci, pag. 38

quid
Artemisia Gentileschi.
Dall’essere all’essere violato, dall’atto alla sublimazione.
Pippo Lombardo, pag. 39

- fine
Le voci soffocate della femminilità.
Monica Mormone, pag. 40
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Un viaggio nei segni dell’uomo
Gino Fienga
n. 26 inverno 2012-2013

Silenzio in sala
Chiara Casarin
n. 25 estate 2012

Antonio Sgroi
Gino Fienga
n. 23 settembre-novembre 2011

Tobias Zielony
Matteo Bergamini
n. 22 giugno-agosto 2011

David Schnell
Giuseppe di Bella
n. 21 marzo-maggio 2011

Luigi Presicce. Reincantare la natura
Luciana Ricci Aliotta
n. 20 dicembre 2010 - febbraio 2011


Maria Micozzi
Giocano le bambine dentro il cuore delle donne
Olio su tavola sintetica e materiali vari - cm 112x107
2007

Maria Micozzi
Dentro l’Assenza
Olio su tela cm 70x100
2006

Maria Micozzi
Il Nome Antico
Olio e inchiostri su tavola sintetica - cm 107x120
2007

Un quanto di enigmatica malia affiora dalle opere che abbiamo davanti, non sappiamo cosa sia, ma sappiamo di trovarci di fronte a una materia complessa, stratificata, unica per orchestrazione di suoni colorici, ritmi trasposti da qualcosa che non è la pittura, non arte dall’arte, ma frutto di una sedimentazione che intuiamo più personale, davvero fuori dagli schemi e perciò suo malgrado capace come poche formulazioni contemporanee, di fornire schemi ulteriori, possibilità di destrutturazione o costruzione rigenerata della partitura compositiva.
Questo è quello che traiamo fuori da un primo sguardo sui transfert creativi di Maria Micozzi, in cui le tensioni sono polimorfe perché si immergono in un polimorfismo che è totale, nasce dalle concatenazioni naturali, dai sistemi matematici, dalla filosofia, dalla musica, dalla parola scritta (soprattutto poetica), dalla scienza, dalla politica. È il cortocircuito che genera l’opera inarrestabile dell’artista, che scaturisce da interessi molteplici, non clona ciò che lo precede, ma si ispira ad un multilinguismo che trova un unico comune denominatore nello scopo, come nelle dinamiche parallele che tramutano un movimento coreografico in un frammento scultoreo, un verso lirico in pura luce. Notevole è l’originalità di tale percorso, in un mare magnum di stili che diventano tendenze a copiare l’idea che domina in maniera dicotomica la nostra cultura dove tutto è contrapposto ed è visto tramite il filtro di un altro occhio, di un altro gesto, un gesto che non è proprio, non può offrire la propria visione del mondo, la propria forma-mondo.
A tal proposito Jean- Luc Nancy si esprime sul concetto di arte: «Ciò che l’arte può trasmettere è una determinata formazione, configurazione o percezione di sé del mondo contemporaneo, una certa forma di mondo. […] La sparizione di schemi e figure come supporto alla possibilità di creare forme caratterizza il mondo in cui viviamo, facendogli perdere in qualche modo se stesso, il suo senso, in mancanza di grandi schemi e idee regolatrici [...]. Anche per tale ragione gli artisti contemporanei spesso vogliono essere definiti testimoni [leggi creatori, ndr] più che artisti».
La Micozzi in maniera collaterale e opposta a questo, in quanto creatrice e non solo testimone procede attraverso una analisi fenomenologica ed estetica che trova l’esatta corrispondenza fra l’esteriorità di ogni valore gestuale che la lega al suo corpo, con l’interiorità di conflitti irrisolvibili, ma resi legittimi per via di una sintesi che non slega mente e corpo, non li pone su piani diversi, ma ingloba tutto, percepisce la totalità delle cose, percezione e fantasia, stimolo simbiotico e sguardo, geometria e anamnesi fino al punto in cui lo scibile nelle sue opere acquista la fisionomia di un unicum mediato dall’emozione dell’arte. Si sente platonicamente parte dell’universo. O con un cenno al tutto infinitesimale di Parmenide.
Così se nulla è lasciato fuori, se il concetto di psiche o di anima hanno lo stesso peso di carne e respiro, e l’inconscio può esondare ed invadere i vasti territori della fisicità tattile, ogni ferita inferta all’uno diviene cicatrice invisibile, ma indelebile per l’altra. Il gesto che si perpetra con violenza, con la ferocia tronfia di possesso afferente ad una personalità maschia, è il contrario del gesto dell’artista che nasce come per gioco, ma un gioco serissimo colmo di pietà, laica o cristiana davvero è superfluo stabilirlo, stratificato nella sapienza millenaria che reca dentro il suo moto di autonomia; svincolato da epistemi costrittori, libero verso la dichiarazione del proprio Io, affermazione che contrariamente a chi coltiva solipsistiche manie, è volta alla affermazione dell’altro, perché ha un senso solo nella comunicazione che se proferita intende già raggiungere il diverso da sé.
Ed è la storia per prefigurazioni dei diversi, quella illustrata dalla Micozzi, diversi non perché emarginati, ma perché radiati dall’establishment di codificazione, che traccia le rotte, spartisce i ruoli, definisce gli status, di fronte ai quali il diverso costituisce una minaccia, un’imperfezione che potrebbe compromettere l’intero sistema omologante, mentre tale diversità realizza una ricchezza, quel valore della complessità, del variegato che l’artista percepisce come una moltitudine compatta. Complesse anche come le protagoniste dell’ultimo ciclo pittorico Il nome il branco: sono le donne violentate, strappate nel ludibrio alla loro stessa appartenenza di identità fisica, ma con una forza interiore e sociale maggiore rispetto a ciò che può illudersi di vincerle solo nella possessione e I cacciatori impauriti lo sanno. Immergendoci nella fortissima spirale empatica che ci avvolge, è istantaneo lo straniamento generato dall’escursione fra la drammaticità degli eventi e la formula elegantemente reticente dell’iconografia, ma solo perché le figure si negano ad un puro riflesso tradizionale e si applicano ad un aureo disimpegno, antiretorico, divenendo espressivamente eccentriche, come i tacchi rossi o le metamorfiche fisicità che non si riconoscono simboli o simulacri del piacere ideale ad uso e consumo del maschio.
Il maschio che viene ribadito così differente dall’uomo, e così originariamente abile a formare una resistenza compatta di violenza designa i ruoli in un Branco, monolite fallico, ma cangiante che la Micozzi cristallizza nella scultura omonima. Tale ingerenza nasce da un confronto diretto con la sistemica gerarchia patriarcale in cui il potere coincide con il possesso. Ma l’espressività del segno micozziano, non si esaurisce in modalità precipuamente analitiche, tende anzi più che altro a scoprire la sintesi estrema, quella che si ricollega in circolo temporale all’idea del graffito preistorico, del manufatto compiuto dal puro atto che incide il dolore, dolore che rivela l’umano, dolore che piega il rame sulle superfici di contatto grezzo, come quello di una mano che non accarezza, ma sordidamente consuma l’epidermide marezzata da brividi di orrore.
Allora in tale gestualità strettamente connessa al rapporto individuale del suo creatore, confluisce il dolore che l’artista è in grado di sentire ogni volta che nel mondo ha luogo la brutalità contro l’essere femminile, e che a sua volta ritorna ad alimentare il suo opposto, il movimento contratto e contrito dell’artista. Da qui si sviluppa un’ermeneutica con la quale si risale alla ricreazione della realtà, grazie alla personale mediazione del surplus immaginifico, e per mezzo di forme dinamiche increspate densamente su una superficie dove un dripping sensoriale eietta tutto il rancore nei filamenti, nel bianco cupo o nel blu elettrico che evidenziano il contrasto tattile e semantico tra l’informe e già la modulazione di impronte, macchie figurali e palpiti rinascimentali. Forme che presenti nel fluire si connettono a un’eco che si vuole appunto, primordiale, originaria, quindi con una nuance che connette al femminile intatto, materno e fecondo. Sono lampanti i titoli come Prima dell’alba, La fenice, Sguardo sulla madre o Un nome antico titoli consapevoli del potere evocativo e portati a trasfondere il loro suono fino a un futuro straniante che prefigurano gli scorci uterini, a volte ricuciti come si cuciono i brandelli di pelle, le bocche che incutono timore, che proferiscono verità angoscianti, su arazzi fluorescenti dove si stampano lettere scarlatte o Geometrie scarlatte che non fungono da trasposizione allegorica di un significato, ma sono l’esatta equivalenza matematica o iconica di un espressione emotiva o di un processo logico.
Un capitolo specifico merita l’uso dei materiali cromatici in questo svolgersi di ritmi ora figurativi, ora concettuali ora monocromatici: infatti la scelta che cade quasi sempre sui colori primari viene alterata dalla irradiazione concettuale dei dipinti che li differenzia da un astrattismo compassato per toccare corde più profonde di risonanza, il trasferimento nel momento creativo configura il rovente livore di una ferita senza volerne edulcorare o ridimensionare per pudore e ipocrisia la fenomenologia esatta. Infatti è assente la mitologia intesa come mezzo per raccontare epurando, e le strutture, le pennellate graffiano fino a generare il correlativo oggettivo di un dolore che è informe, inesprimibile se non tramite la durezza che mineralizza l’umano e le realtà fino a renderle Ossidi, slogando il senso taumaturgico della fenice ad una sembianza metamorfopoietica che sussurra il dubbio atroce dell’efferatezza congenita alla natura stessa delle cose, come in Sguardo sulla madre dove casomai il mito serve a rafforzare l’idea di un Edipo fintamente ignaro della propria carnalità incestuosa e svelto nel carpire la nudità casuale del corpo materno.
Nell’opera Escludendo l’Entropia invece si apre una vera e propria fenditura sulla parte più sentita della poetica dell’artista, infatti, alludendo all’Entropia direttamente estratta dal campo della termodinamica, Maria denuncia quella tendenza insita in un tempo che semplifica tutto indicando la diversità come elemento reagente al sistema, che in realtà deve essere riaccolto nella complessità del sistema stesso.
Infine nel quadro La donna che ride dove pare che su una carta velina troppo sottile per essere serbata, il volto del ricordo che precede il trauma, ridona quel senso di speranza mai del tutto evasa dal lavoro artistico, quell’ombra che appare come un ritratto in bianco e nero nella camera oscura della mente, dove il gesto è ormai giunto a sublimare con un’intenzione che è creazione e riscatto, non solo testimonianza, la bruciante essenza colta dal flagrante sguardo emozionato.