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Impackt (2006-2009) Anno 2008 Numero 1



Marca di Bronzo / Born to Shop

Marco Senaldi

Nelle opere dell’artista americano Jonathan Seliger i packaging divengono elaborate sculture per far “rallentare” lo sguardo



Contenitori e Contenuti


indice #1-08

user instructions
Packaging Prêt-à-Porter
Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

identi-kit
Dietro le Quinte di Paul Smith
Sonia Pedrazzini

identi-kit
Superflat Superfashion
Takashi Murakami & Louis Vuitton
Francesco Spampinato

tools
Carta da Pacchi
Nancy Martin

identi-kit
Marca di Bronzo
Marco Senaldi

market release

shopping bag
Profumi alla Moda
Sonia Pedrazzini, Erica Ghisalberti

warning!
La Nuova Geografia della Fashion Culture
Francesco Morace

tools
Carmencita Mon Amour

store story
Freitag Shop Hamburg
Francalma Nieddu

design box
Superfici (tra Vista e Tatto)
Valeria Bucchetti

shopping bag
Dalaleo
shopping bag
Sogni di Rilievo
Sonia Pedrazzini

my pack
Odoardo Fioravanti/Yoox

identi-kit
La Terapia dell'Amore
Marco Ligas Tosi

pack conneXion

school box
Konstfack - Svezia
Accademia di Macerata

tools
Kinky Atoms
Lusso a Piccoli Sorsi
The Thing:C'è Posta per Te
Luca Aragone

show box
Message on the Bottle

shopping bag
Un Coccodrillo in Scatola
Maria Gallo

ready to use
News

tools
Sushehat
Francalma Nieddu

book box
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Between Cups, 2006
Acrylic and modeling paste on canvas
Courtesy Jack Shainman. Gallery New York

Keeping the Flame 2006
Acrylic and modeling paste on canvas, wood, brass.

Princess, 2007
Automotive Enamel On Bronze with zinc plated copper rope and bronze finials

Il lavoro di Jonathan Seliger (New York, 1955) potrebbe facilmente essere etichettato come postmoderno, appropriazionista, simulacrale, e via dicendo. Nell’epoca della cosiddetta post-pop art molti artisti hanno attinto all’immaginario della merce e della marca per realizzare installazioni, sculture, ambienti. Viceversa, come lui stesso ci tiene a precisare, anche se a prima vista le sue opere sembrano dei semplici ready-made, cioè degli oggetti trovati bell’e pronti, esse derivano da fonti culturalmente molto elevate, come la tradizione, prima europea e americana poi, del trompe-l’oeil. Si tratta infatti di vere trappole per lo sguardo: ciò che a prima vista appare come una classica borsa da shopping di Gucci, è un realtà un solido e “pesante” bronzo dipinto con particolari finiture; il cartone del latte, o la confezione take away della pizza, vanno fuori misura e divengono dei quadri tridimensionali eccezionalmente ricercati per fattura, composizione, uso del colore.
Si tratta di un lavoro molto “lento”, il cui paradosso risiede nel fatto che lo sforzo è quello di tradurre nei termini di un’attività artistica eccezionalmente virtuosa, oggetti di cui generalmente si tende a sbarazzarsi il più in fretta possibile, dato che costituiscono solo l’”involucro” della merce vera e propria, del “tesoro” che costituisce il traguardo dello shopaholic o del semplice consumatore quotidiano. Ecco perché Seliger parla non di ready-made, ma di re-made: perché il suo lavoro rientra in quella nutrita serie di operazioni di re-make culturale a cui oggi molti artisti si stanno dedicando. Dopo anni di ibridazioni tra gusto d’elite e oggetto pop, dopo tanta svalutazione dell’abilità “artistica”, dopo tanta trasgressione fine a se stessa – è sorprendente incontrare artisti come Seliger che si dedicano con scrupolo incredibile alla ricostruzione di “frammenti minimi” del nostro universo consumistico. Sono proprio artisti come lui che riescono a farci riflettere e farci capire la bellezza segreta di un mondo ormai totalmente artificiale, che spesso percepiamo come estraneo, pur essendo stato costruito dalle nostre mani e pur facendo parte della nostra quotidiana esperienza.


Ho letto che “il tuo lavoro spinge lo spettatore a riflettere sulle relazioni tra contenuto e packaging”… Come mai sei così affascinato dal packaging?
Mi piace il packaging perché viviamo in una cultura del consumo, definiamo noi stessi in base al consumo e mi piace lavorare con soggetti con cui chiunque si può relazionare – forse li fa sorridere o forse li infastidisce, ma chiunque li riconosce e li comprende. In questa direzione direi che sono d’accordo con ciò che ha detto Duchamp, che l’opera d’arte viene completata dallo spettatore – e allo stesso modo io non intendo controllare le sue reazioni. Comunque è ovvio che la mia opera non è un “ready-made” (fatto-e-pronto), ma è un “re-made” (ri-facimento). L’intenzione è che il processo elevi la materia in oggetto dalla sua condizione di oggetto disponibile, ma la disponibilità della fonte potrebbe anche far parte del suo aspetto affettivo, se non del suo pathos. Il mio lavoro non sarebbe possibile senza il gesto originario di Duchamp, ma è il suo opposto. In aggiunta alla domanda, è successo un po’ di volte che io abbia rifatto un design del tutto onnipresente e che poi i produttori abbiano cambiato quel design apparentemente senza tempo – allora il mio lavoro diviene un pezzo d’archeologia piuttosto che riflettere il momento presente. Questo è un rapporto curioso. Mi dà il senso di come il mio lavoro verrà inevitabilmente visto in futuro.

In che modo scegli questo o quel packaging per le tue opere (e in particolare del fashion packaging o delle borse della spesa)?
Le mie scelte iniziano sempre con un fondamentale senso di attrazione – qualcosa cattura i miei occhi: qualcosa di misterioso, strano, elegante, imbarazzante o bello che mi porta fino al soggetto, forse senza neppure sapere perché. Non è un procedimento clinico. Un punto di partenza originario nei miei interessi è molto vicino all’uso degli oggetti da parte di Jasper Johns, oggetti così banali che quasi ci accorgiamo a malapena della loro esistenza – scatole di fiammiferi, buste da lettera, cartoni del latte, cose che sono destinate letteralmente ad essere gettate via. Gradualmente ho allargato il mio campo di tematiche mentre, giocando anche con le dimensioni, il colore, la texture, la superficie e il design, volevo far rallentare lo spettatore e metterlo in relazione al pezzo come un oggetto “unico”.

Tenuto conto dei tipici problemi di materiali (bronzo, pittura, ecc…) e del cambiamento di dimensioni, come riesci a trasformare un “packaging reale” in un’opera d’arte ?
Le mie opere non riproducono esattamente un oggetto esistente, non sono simulacri, ma sono destinate a diventare una cosa che va contemplata in se stessa, un oggetto visuale, è questo il loro uso. Amo la pesantezza del bronzo e la sua durata, opposte a quelle della carta. Mi piace anche come la pittura ha una pelle e può avere delle leggere pieghe, una sorta di corollario del corpo – quasi delle vene. Giocando con le dimensioni, provocano differenti tipi di reazioni fisiologiche – l’intimità del tenersi per mano di contro all’imporsi di un monolite.

Come hai raggiunto il livello delle tue opere attuali – quali sono stati il tuo punto di partenza e la tua evoluzione?
Ho cominciato col riprodurre piccoli ritagli di buste da lettera, scatole di fiammiferi, scatole di lampadine, custodie, in scala reale. Dopo aver vagato inizialmente per un po’ di anni cercando di comporre su tela un dipinto bidimensionale, sono rimasto affascinato dal non dover prendere decisioni riguardo alla composizione e al colore. Alla fine comunque trovavo tutto ciò costrittivo, e ho voluto “comporre” a modo mio.


Cosa pensi della tendenza attuale ad usare il packaging e ciò che vi è connesso, come elemento di ispirazione da parte di vari artisti contemporanei, come Rachel Whiteread o Tom Sachs?
Per me Rachel Whiteread sta lavorando sull’eredità del primo Bruce Naumann, mentre Tom Sachs è fondamentalmente un dadaista moderno, che fa le pernacchie alla “borghesia”. Il mio lavoro non è assolutamente interessato a quell’atteggiamento. È un ibrido di pittura e scultura e tenta di portare la pittura nello spazio reale – cioè, deriva dagli spazi piatti dipinti degli artisti americani di trompe l’oil, come Harnett e Peto, filtrati attraverso le “bandiere” e le serie di “tratteggi incrociati” alla Jasper Jones, che affermavano l’oggettualità della pittura. Per dirla con semplicità, tutti i miei lavori iniziano come un oggetto piatto, un pezzo di tela stesa su un muro o un foglio di bronzo o di alluminio, che alla fine viene piegato o curvato, incollato o saldato, per manifestare se stesso nello spazio reale. Una mia opera è allo stesso tempo una cosa e il dipinto di una cosa. Io non mi aspetto mai che qualcuno la scambi per una “cosa reale”, benché alcune opere in passato siano state gettate via dalle donne delle pulizie o smontate da ispettori della dogana italiani. Mi hanno detto che una volta qualcuno ha cercato di usare una delle mie scatole di fiammiferi per accendersi una sigaretta dopo aver fatto sesso. Immagino che siano dei compimenti, anche se veramente molto singolari!

Cosa provi verso il packaging come consumatore quotidiano (ammesso che tu lo sia!)?
Domanda divertente… Anche se il mio lavoro riguarda lo shopping, spendo la maggior parte del mio denaro in materiali d’arte e nel mantenimento dello studio. Vi è una particolare ironia in tutto ciò. Ma posso ancora considerare la cosa! Bisogna che comincia a pensare a un sacco di cose da comprare…