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Impackt (2006-2009) Anno 2008 Numero 2



L'Età dell'Imballaggio

Marco Senaldi

Nelle opere dell’artista francese Benjamin Sabatier una riflessione sulle questioni estetiche e sulle problematiche sociali del packaging



Contenitori e Contenuti


indice #2-08

user instructions
Emotional Pack
Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

identi-kit
L'Età dell'Imballaggio
Marco Senaldi

tools
L'Occhio e la Mente
Marco Senaldi

warning!
Contain Yourself
Francesco Spampinato

market release
Vitamina per il Brand
Luca Aragone
identi-kit
Zen e l'Arte del Packaging
Marco Ligas Tosi

market release
Robilant Associati
Sonia Pedrazzini

design box
Giocare è una Cosa Seria
Luca Aragone

shopping bag
Elisir di Lunga Vita
Francalma Nieddu

market release
Packaging: Plurale, Femminile
Maria Gallo

tools
Spazzatura Emozionale
Marco Senaldi

identi-kit
Ceci n'est Pas un Bijoux de Papier!
Rosita Fanelli

show box
H2O
Luca Aragone

impackt news

market release
Artefice Identità Dinamica
Luca Aragone

pack conneXion

my pack D
onata Paruccini/Malo

school box
Istituto Rosa Luxemburg

tools
This is (No) a Magazine
Francesco Spampinato

store story
Nobody is Perfekt F
rancalma Nieddu

impackt news

design box
Spirits of Design
Luca Aragone

impackt news

book box
Marco Senaldi
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Marco Senaldi
n. 2

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Marco Ligas Tosi
n. 1

Il Visionario Virtuoso
Marco Senaldi
n. 2


Etalage, 2004
Serie ‘Pavés’ 136 elementi
Installazione di imballaggi e rifiuti su gesso
cm 141,5 x 305 (part.)

BRY 2193, 2008
Collection: Post-pointillisme moderniste
Edizione di 3 esemplari
Puntine colorate, scatola di cartone e manuale di montaggio
diametro: 83 cm

IBK¹s Scotch Tower II, 2007
Rotoli di Scotch e di pvc
cm 240 x 16

Tra i tanti artisti che utilizzano l’imballaggio come fonte d’ispirazione del loro lavoro, Benjamin Sabatier occupa una posizione particolare. La sua ricerca infatti è la diretta conseguenza di una analisi approfondita del sistema attuale di produzione, e soprattutto della comunicazione spettacolare che ne è parte integrante. Se già Guy Debord quarant’anni fa aveva perfettamente descritto la società contemporanea come una società in cui lo spettacolo, in tutte le sue forme, costituisce la nuova merce e ridefinisce il senso del “consumo”, oggi possiamo aggiungere che anche le merci tradizionali si sono spettacolarizzate – e che il packaging è il mezzo tramite cui hanno operato questa magica metamorfosi. Come dice molto lucidamente Sabatier, oggi “il contenitore ha preso il sopravvento sul contenuto, e la merce non è più l’oggetto, ma il suo involucro”. Ne consegue che, se l’arte ha il compito di farci vedere il mondo sotto una nuova angolazione, l’artista deve confrontarsi proprio con questo universale diaframma che sembra distanziarci dalle cose, e che è divenuto cosa esso stesso, versione raddoppiata del classico feticismo della merce. Ecco perché Sabatier produce scatole vuote, ma piene dei segni tipici degli imballaggi internazionali, oppure pallets ricoperti di pile di fogli colorati, o brancusiane colonne infinite fatte di rotoli di nastro adesivo sovrapposti – tutto un mondo di apparenze policrome, ma non così inoffensive come sembra, con cui occorre confrontarsi con attenzione, dato che sono la parte più “visibile” della nostra quotidianità. Per capire anzi come funziona il predominio del packaging, bisogna abbandonare la passività tipica del consumatore, e provare a diventare dei produttori attivi: questo è il senso del progetto IBK (International Benjamin’s Kit), una specie di IKEA dell’arte, grazie alla quale l’artista vende non un’opera finita, ma il kit e le istruzioni per realizzarla da soli. L’operazione IBK implica una riflessione sul senso del valore artistico, ma anche un confronto su modi e metodi di “confezionare” la cosa più aleatoria possibile, cioè l’arte... Il risultato somiglia a qualcosa che potevamo fare da soli? Esattamente questo è l’intento di Sabatier: non evitare, ma incoraggiare la famosa osservazione “questo lo so fare anch’io”. Non sarebbe proprio questo “saperlo fare” la realizzazione del famoso motto di Beuys “ogni uomo è un artista” - e, insieme, la liberazione dalla schiavitù di essere sempre e solo dei consumatori?


Ho letto, con piacere e con sorpresa, che consideri il packaging un pezzo importante della cultura attuale – il che trova Impackt naturalmente d’accordo! – Eppure, è un elemento spesso sottovalutato nella vita di tutti i giorni; come mai, secondo te?
Penso che la nostra società sia entrata in pieno nell’ “era dell’imballaggio”. E’ una questione soggiacente alle preoccupazioni sociali e economiche attuali: l’iperconsumismo e il problema dei rifiuti, l’esternalizzazione delle imprese di produzione e i suoi flussi di import-export; la qualità delle merci che scompare nella quantità, la qualità di vita dei consumatori e degli utenti... ma è anche una questione profondamente legata al corpo, e direi in particolare al corpo sociale.
La questione del packaging rinvia a una problematica universale: sta a significare l’atto di presentare e allo stesso tempo dissimulare, di mostrare prima di tutto l’involucro che ricopre, e quindi nasconde, l’essenziale. È il luogo dove l’intimo, il soggettivo, è mascherato dal collettivo, presentato in modo ben determinato, si potrebbe dire sotto la sua luce migliore.
L’imballaggio è ciò che vediamo per primo. Serve per proteggere l’oggetto, soprattutto durante il trasporto, ma è anche ciò che nasconde il vero valore dell’oggetto. In un certo senso l’imballaggio “dà valore” a ciò che contiene. Alla fine il contenitore ha preso il sopravvento sul contenuto; la “merce” non è più l’oggetto ma ciò che lo ricopre. Spesso è molto più artistico e più creativo di ciò che deve contenere. L’involucro della merce, il packaging, maschera il valore d’uso dell’oggetto che contiene lasciando apparire solo il valore di scambio.
Da questo momento, l’oggetto è ridotto a mero strumento discorsivo di un’idea di sé. Ed è proprio questa idea il pretesto allo scambio commerciale.
Questo continuo aggirare la verità degli oggetti in un certo senso speculativa, tende a generare un valore distorto dell’oggetto. Questa pratica di dissimulazione o d’disattenzione volontaria mette in luce l’apparenza delle cose e non la loro vera natura, l’immagine e non il fatto. Il valore di scambio, e quindi il feticismo della merce, è la superficie dietro la quale le cose non solo diventano invisibili, ma tendono a scomparire completamente. Questa superficie deliberatamente seducente, provoca in noi il desiderio di consumo.
In fin dei conti, ciò che si compra, ciò che crea il nostro desiderio, non è l’oggetto ma l’involucro dell’oggetto, ciò che d’altronde noi gettiamo per primo. Lo sviluppo del capitalismo porta alla conversione degli usi in consumi, dato che occorre ricordare che il capitalismo è divenuto innanzitutto, nel corso del XX secolo, ciò che organizza il consumo (così come nel XIX secolo organizzava la produzione) per canalizzare il desiderio del consumatore, la sua energia libidinale.
Se il capitalismo contemporaneo è così visibile e descrivibile nel condizionamento delle merci, questo è dovuto proprio all’importanza del packaging che è diventato uno dei pilastri del mercato.


Come sei arrivato ai tuoi lavori attuali?E in modo particolare come è nato e come hai sviluppato il progetto IBK ?
Tutte le mie opere nascono una dopo l’altra, con un legame diretto e riconoscibile. Allo stesso tempo tutto deriva da una ricerca riflessiva e dalla manipolazione formale. Per me sono inscindibili: le mie opere sono legate le une alle altre. Per me la pratica artistica è un mezzo per comprendere il mondo in cui vivo. Questo mi permette di capire dove sono prima di agire. Più capisco, più posso muovermi nel mondo con disinvoltura. Per me è molto importante trovare una collocazione nello spazio in cui esisto. In qualche modo l’arte è diventata per me un’ “arte di vivere”.
Il mio lavoro sulle opere d’arte in kit “fai-da-te”, mi ha portato a interrogarmi sui condizionamenti esercitati dalle imprese e sulle strategie commerciali che adottano. Per esempio, se IKEA trascura l’aspetto dell’imballaggio, è una questione puramente strategica. Oggi nulla è lasciato al caso, ogni cosa è il frutto di una riflessione, tutto viene analizzato, decodificato e codificato prima di essere lanciato sul mercato. Viviamo in un mondo “iper-orientato al consumatore”, cosa che spesso la maggior parte degli utenti ignora.
Il mio lavoro consiste nel far emergere dall’opera la mia comprensione del mondo. Non sto dicendo di possedere la verità assoluta sul mondo, cerco solamente i mezzi, materiali e artistici, per svelare certi aspetti del mondo.
Il lavoro sulle opere in kit, che erano inizialmente un progetto sulla partecipazione attiva dello spettatore alla costruzione di un’opera, mi ha portato molto presto nella sfera economica, ovvero all’elaborazione di una strategia di confezionamento e diffusione di questi kit. D’un tratto da artista che ero sono diventato imprenditore. Questo solleva molte questioni sulla strategia commerciale degli artisti attuali.
Ho voluto penetrare lo spazio economico con uno spirito critico e per questo ho creato la mia impresa con il marchio IBK. IBK o International Benjamin’s Kit, adotta il modello dell’impresa, e infatti la mia firma è diventati il nome della ditta.
IBK deriva dal prende ispirazione della tendenza a trasformare ogni cosa in sigla, tipica del mondo degli affari, ma fa anche riferimento all’arte: IKB (International Klein’s Blue) è il colore depositato come marca da Yves Klein; c’è un velato rimando anche al pensiero estetico di Walter Benjamin, il grande filosofo tedesco col quale ho in comune il nome. Per l’ente che va sotto il nome di IBK, interrogare e decodificare l’imballaggio, e più in generale i meccanismi contemporanei da cui deriva, è diventata una priorità. Il mio pensiero evolve in questo modo, per incroci di sguardi, un concatenamento di idee simultanee, un insieme che suggerisce e indica l’evoluzione della mia impresa.

Come mai nei tuoi lavori utilizzi soprattutto elementi dell’imballaggio “poveri” (nastro adesivo, cartone, scatole...) e non packaging pop, eclatanti, spettacolari, alla Warhol?
Interrogando le diverse forme del capitalismo, le sue rappresentazioni e quindi una sorta di estetica industriale, sono arrivato alla fabbricazione artigianale dell’oggetto d’arte, al “fatto a mano”. Questa distinzione è molto importante per me, io opero in modo diverso da ciò che analizzo. Questo mi permette di salvaguardare una distanza tra il mio gesto artistico di produzione e la fabbricazione in serie, che invece è impersonale.
Utilizzo materiali facilmente disponibili in grande quantità e accessibili a tutti, e li combino a modi di fabbricazione riproducibili e facilmente riducibili a modelli. L’idea è quella che, al momento dell’esposizione dell’opera, lo spettatore possa dire “anch’io lo posso fare”.
E questo è assolutamente vero, lo spettatore può davvero ricreare le mie opere.
Questo «manufatto» mantiene in seno all’opera una sorta di umanità. È un’opera d’arte a misura d’uomo. Il mio lavoro è antispettacolare, antitecnicista, in qualche modo antihollywoodiano.

Il tuo lavoro resta comunque nell’ambito della scultura oppure va considerato una installazione?
Le mie opere possono definirsi, al di fuori dello spazio espositivo, scultura e pittura. Ma nel momento della loro rappresentazione l’insieme è così intrinsecamente collegato e pieno di rimandi che preferisco parlare di una grande installazione processuale. Un’installazione che si sviluppa nella comprensione dei pezzi che la compongono, e, in riferimento a IBK, al sistema della loro produzione. Infatti la concezione dell’opera avviene nello spazio-tempo della sua rappresentazione. È in questo momento che nasce l’arte e che gli oggetti diventano oggetti sensibili, che acquisiscono senso nell’insieme della produzione.
Il mio lavoro è comprensibile a fondo solo con uno visione globale. Si può anche parlare di una sorta di lavoro in corso, di un’impresa a lungo termine.
Spesso è possibile comprare solo una porzione delle mie opere, il collezionista può acquisirne solo una parte, un pezzo. L’installazione globale diviene scultura o pittura solo dopo l’acquisto. Da questo punto di vista, le mie mostre, e quindi le mie installazioni, funzionano come dei “materiali promozionali”, vetrine per IBK.

Cosa pensi dell’attuale tendenza all’utilizzo di elementi dell’imballaggio nel lavoro di molti artisti contemporanei – penso all’installazione di scatole alla Tate Modern di Rachel Whiteread, o al lavoro di Tom Sachs, tanto per citare il caso di due artisti piuttosto famosi - ?
La questione del packaging è talmente attuale e ricca che non può fare a meno di suscitare l’interesse degli artisti dato che si presta al recupero, con minore o maggiore pertinenza e efficacia a seconda dei casi. Detto questo, il packaging è stato una costante nel corso della storia dell’arte del XX secolo: da dada, passando per Fluxus, fino a Warhol, Manzoni o Christo… il senso e la forma dell’imballaggio evolve allo stesso ritmo delle nostre società e dei suoi modi di vita, e sicuramente non si è ancora esaurito come fonte d’ispirazione o materia artistica.

Che consumatore sei? e che rapporto personale hai con le merci e il loro packaging?
Di primo acchito, concepisco le mie opere come un puro consumatore. I supermercati, i negozi di ogni genere ma soprattutto quelli di bricolage e di design sono la mia fonte di ispirazione quotidiana. Ne vado ghiotto, fanno parte della mia vita e non posso non frequentarli. Come ho detto prima, vivo ed evolvo in questo mondo iper-customer-oriented che cerco di comprendere analizzandolo.
Alcune delle mie opere sono prodotte direttamente a partire dalle mie peregrinazioni fra le corsie dei supermercati. Scelgo e compro diversi oggetti per i loro packaging e dopo l’acquisto mi sbarazzo del contenuto. Il mio modo di consumare è qui completamente opposto a quello tradizionale. È in questi sguardi specifici e in questi cambiamenti degli usi sociali del consumo che le cose si rivelano. Per me l’atto artistico è proprio questo. Guardare in un altro modo il mondo che ci circonda e rivelarlo allo spettatore in una nuova forma. Alla fine la sfida per me consiste proprio nello scegliere dei modi di vita inventando delle forme. O piuttosto produrre delle forme inventando altre possibilità di essere al mondo.