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Mousse Anno 3 Numero 15 ottobre-novembre 2008



Welcome to the Jungle

Massimiliano Gioni





Sommario Mousse 15 ottobre-novembre 2008

KLARA LIDEN / PAG. 10
WELCOME TO THE JUNGLE
STERLING RUBY / PAG. 15
SPRAY-PAINTED VANDALISM
SIMON DYBBROE MØLLER / PAG. 18
ANOTHER CHANCE
JOÃO MARIA GUSMÃO + PEDRO PAIVA / PAG. 24
SCALING MOUNT ANALOGUE
CITY FOCUS / PAG. 29
REYKJAVIK
RAGNAR KJARTANSSON / PAG. 32
EVERYONE IS DECADENT THESE DAYS
HARK! / PAG. 38
GETTING TOGETHER ALMOST
PORTFOLIO / PAG. 45
RYAN Trecartin & Lizie Fitch,
KLAUS WEBER / PAG. 48
SENSE OF DOUBT
ARMANDO ANDRADE TUDELA / PAG. 53
MISPLACED, DISPLACED, BUT HERE
NONETHELESS: A NON-INTERVIEW WITH
ARMANDO ANDRADE TUDELA
CHRISTOPH BÜCHEL / PAG. 58
NO EASY WAY OUT
SPECIAL GUEST / PAG. 63
DAVID MALJKOVIC - THE ELUSIVE PAST
AHMET ÖGÜT / PAG. 67
MIND THE GAP
NATASCHA SADR HAGHIGHIAN / PAG. 72
NO ONE DOES ANYTHING ON THEIR OWN
DAVIDE CASCIO / PAG. 74
ECOTOPIAS AND SOCIAL SPACES
KITTY KRAUS / PAG. 79
THE CONTROL AND DRAMA OF FORM
CURATOR’S CORNER / PAG. 83
ROLAND FLEXNER / PAG. 85
INK WORLDS
FRANCO VACCARI / PAG. 88
EXTRAORDINARY COINCIDENCES
PABLO BRONSTEIN / PAG. 92
A QUESTION OF FRAGMENTS
SKELETONS IN THE CLOSET / PAG. 95
ETTORE FAVINI
INTRODUCING / PAG. 98
ALBERTO TADIELLO
LOST IN THE SUPERMARKET / PAG. 100
NEWS AND BOOKS
CORRESPONDENCES / PAG. 112
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PARIS-MILANO
LONDON - MILANO
NEW YORK - MILANO
LOS ANGELES - MILANO
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Archeologa di una civiltà quasi postatomica, Klara Liden affonda le mani tra gli scarti della civiltà, rivitalizzando, in rifugi effimeri, i rifiuti della strada. Per la sua ultima personale newyorkese ha costruito in galleria un covo per i volatili urbani che s'infiltrano da una finestra aperta, fra cumuli di mobili e suppellettili.
Ma il suo è anche un lavoro intimista che esplora la possibilità di estraniarsi e nascondersi, salvo poi esplodere in un espressionismo esagitato e plateale, come nel video dove performa uno scomposto e antierotico spogliarello davanti agli allibiti passeggeri di un vagone del metrò.


In uno dei suoi primi autoritratti Klara Liden si mette in posa da maniaco sessuale o da venditore di merce che scotta, con tanto di impermeabile spalancato a rivelare, invece di Rolex rubati o chissà quali sconcerie, un armamentario di pinze, chiavi inglesi, torce elettriche e altri utensili da furto con scasso. È un ritratto dell’artista da ladro, armata delle chiavi della città, come recita il titolo dell’opera. Scattata a Berlino, dove Klara Liden vive quando non è di passaggio a Stoccolma o New York, la fotografia ci racconta di un mondo sotterraneo, di cunicoli, rifugi, passaggi segreti ed effrazioni – un mondo clandestino che pare sopravvivere ai margini di una civiltà sull’orlo del collasso. È un mondo in cui le città sembrano prossime al degrado più totale, al punto da richiedere la costruzione di rifugi e tane per uomini topi. A Berlino, quando ancora studiava architettura, Klara Liden ha costruito un’abitazione precaria, su una riva del fiume Spree senz’alcun permesso o autorizzazione – una casa aperta a chiunque avesse bisogno di una via di fuga o di un riparo per la notte. A Stoccolma Liden ha persino gestito un sistema postale Fai Da Te, incaricandosi personalmente di consegnare lettere gratis, in qualsiasi parte del mondo – più o meno una settimana di attesa per una lettera Stoccolma-Londra, fino a un anno per New York. Come ne L’Incanto del Lotto 49 di Thomas Pynchon, il sistema postale di Klara Liden descrive un universo parallelo, e vagamente paranoide, in cui si possono scovare collegamenti segreti tra mondi lontanissimi. Come quello dei Tristero – i postini di Pynchon che nascondono le cassette postali tra la spazzatura – anche il motto di Liden potrebbe essere WASTE – rifiuto – a indicare l’ossessione con cui l’artista ricicla e trasforma i materiali urbani in costruzioni precarie di cartone, tubi e materiali di scarto tra cui sono comparse anche alcune transenne della polizia rubate la notte per strada. Le strade sono per Klara Liden un serbatoio inesauribile di ispirazioni e materiali.
Il suo ultimo video – presentato nella collettiva After Nature al New Museum – ritrae l’artista mentre cammina al contrario in una New York notturna e quasi svuotata di qualsiasi presenza umana. Installato in una costruzione di cartone il video si ripete all’infinito, ipnotico come un carillon. Anche per la sua ultima personale da Reena Spaulings, Klara Liden ha costruito un covo, questa volta issando pareti di cartongesso e ammassando vecchi mobili usati: nascosta alla fine di un lungo e angusto corridoio, una stanza illuminata solo da una luce fioca risuona dei battiti d’ali e del tubare di uno stormo di piccioni. Al di là della parete, infatti, Liden ha spalancato le finestre della galleria e costruito un rifugio per gli uccelli che si aggirano così tra gli spazi della mostra, spaesati come clandestini ai quali sia stato concesso un inaspettato diritto di asilo. È una giungla urbana quella creata da Klara Liden, una natura degradata, da Marcovaldo, in cui per scaldarsi ci si avvolge in coperte di cartone e si allacciano relazioni contro natura tra organismi ospiti e parassiti. Ma il corridoio di quest’ultima mostra naturalmente evoca anche le architetture di Bruce Nauman.
Certo è un Nauman aggiornato e corretto quello che interessa a Klara Liden: reso – se possibile – più feroce, meno mentale, come investito di una forza esistenziale ancora più ruvida, primaria. Non sono speculazioni né sillogismi quelli di Klara Liden. Piuttosto si ha l’impressione che l’artista ne faccia una questione di vita o di morte, come se i suoi interventi urbanistici e i rifugi insomma avessero a che fare più con i barboni, i reietti e gli sciacalli che con l’arte anni Sessanta, con Bruce Nauman o Matta-Clark.

È strutturalismo post atomico quello di Klara Liden, environmental art da sopravvissuti, concettualismo selvaggio, earth art da strada. Quando ci s’infiltra nei suoi cunicoli o nei suoi nidi di cartone, capita di sentirsi come animali da laboratorio o come senza tetto che abbiano trovato un anfratto dove passare la notte. Ed ecco allora affiorare forse anche un ricordo involontario di Dieter Roth, il Roth più cupo e disperato, quello delle Solo Scenes (1997-1998) che sottopone l’intera sua vita allo scrutinio impietoso delle telecamere, per comporre un autoritratto esploso di centinaia di ore e immagini in cui scorrono le giornate più banali e le notti più disperate di un uomo ormai bolso, stanco, distrutto che cerca di stare alla larga dalla bottiglia e ritrovare un equilibrio in una casa trasformata in rifugio, labirinto caotico, caverna. Questo aspetto confessionale ritorna nell’opera di Klara Liden, nei suoi molti autoritratti in video, in cui l’artista appare indaffarata in strane scene che sono piccole tragedie da camera, momenti di violenza domestica, in cui l’artista si filma mentre sfascia una bicicletta o si prende a pugni in testa e crolla da una sedia o si lancia in uno spogliarello su un vagone della metropolitana. C’è qualcosa di profondamente nordico in queste scene, una tristezza abissale, da lunghi inverni, una cabin fever – una febbre da isolamento – che di nuovo ricorda la solitudine dell’ultimo Roth, barricato nella sua casa in Islanda.
E come per Roth, anche per Liden, queste stanze in cui si consumano psicodrammi ora tragici ora comici, sempre per lo più incomprensibili, ecco queste stanze hanno qualcosa di profondamente allucinato, come se fossero luoghi mentali, piccole camere stracolme di ricordi e visioni, ripostigli dimenticati in fondo ai corridoi più oscuri della mente. Gli spazi in cui si svolgono i video di Liden, così come i suoi ambienti ricavati assemblando pezzi di cartone e oggetti di strada, sono al contempo rifugi da fine del mondo e santuari da meditazione, luoghi i cui confini seguono la geografia segreta della nostre paure.