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Mousse Anno 3 Numero 16 dicembre 2008-gennaio 2009



The teaches of the speechless

Dieter Roelstraete

Jos De Gruyter & Harald Thys’ Radical Silence





Sommario Mousse 16 dicembre-gennaio 2009

MATIAS FALDBAKKEN / PAG. 10
A MILLION WAYS TO SAY NO

MATHIAS POLEDNA / PAG. 15
THE MAKING OF

JOS DE GRUYTER & HARALD THYS / PAG. 18
THE TEACHES OF THE SPEECHLESS


HARK! / PAG. 22
READYMADE WOMEN

PAUL SIETSEMA / PAG. 26
DIG FOREVER AND NEVER IT BOTTOM

PORTFOLIO / PAG. 31
EILEEN QUINLAN

CURATOR’S CORNER / PAG. 34
RAYMUNDAS MALASAUSKAS

FABIAN MARTI / PAG. 36
I AM MANY

AARON CURRY / PAG. 42
ARCHAEOLOGY OF THE FUTURE

CLIMATE IS CLIMATE IS CLIMATE? / PAG. 46

STEPHEN G. RHODES / PAG. 50
AN AMERICAN DE-MITHOLOGY

DAVID LAMELAS / PAG. 52
A GATHERING OF CLUES

INTRODUCING / PAG. 56
ROSA BARBA

ARTIST’S PROJECT / PAG. 59
CHRISTIAN HOLSTAD

EMILY WARDILL / PAG. 64
FORM EXCEEDING IDEAS

AURÉLIEN FROMENT / PAG. 68
PENSER I CLASSER

CITY FOCUS / PAG. 73
ISTANBUL

MARTHA ROSLER / PAG. 77
BRINGING WARS HOME

THE CARNIVAL OF ART / PAG. 80

SKELETONS IN THE CLOSET / PAG. 85
DIEGO PERRONE

LOST IN THE SUPERMARKET / PAG. 88

BOOK SHOPPING / PAG. 98

BERLIN-MILANO / PAG. 100
ANNETTE KELM

PARIS-MILANO / PAG. 104
OSCAR TUAZON

LONDON - MILANO / PAG. 108
NINA BEIER & MARIE LUND

NEW YORK - MILANO / PAG. 112
LISA OPPENHEIM

LOS ANGELES - MILANO / PAG. 116
ANTHONY BURDIN
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Il mondo di silenziosa alienazione del duo belga Jos de Gruyter & Harald Thys riflette i comportamenti socialmente indotti, confrontando la marginalità di spazi e individui in modo tutt’altro che documentaristico. I loro film, intrisi di humor nero, dipingono inesplicabili disfunzionalità, individui dai movimenti robotici e spazi utopici ridotti a scenari kafkiani per i “diversi”. Dieter Roelstraete penetra i tetri scenari di alcuni dei migliori lavori del duo, svelando le distopie contemporanee e i rapporti di potere indagati, allegorie di un universo non troppo lontano dal nostro…

La coppia di artisti di Bruxelles Jos de Gruyter & Harald Thys (nati rispettivamente nel 1966 e nel 1967) opera ormai da più di quindici anni, suscitando l’apprezzamento internazionale del mondo dell’arte, eppure, il loro corpus in espansione di film e video, e le occasionali incursioni nel disegno, nella performance e nella fotografia, esprimono un gusto troppo alienante per garantirsi un vasto consenso popolare nel loro nativo Belgio – paese noto per la sua proverbiale (e istituzionalizzata) tolleranza, se non vivaio di pazzoidi e outsider, reietti e falliti di ogni risma. L’inserimento dei loro lavori in collettive di alto profilo come la Quinta Bienniale di Berlino e Manifesta 7, oltre a una serie di mostre in gallerie berlinesi e parigine, ha aiutato a puntare i riflettori sulla loro attività – niente di più meritato, perché il duo rappresenta, forse, la più preziosa gemma nascosta dell’arte di Bruxelles (e ce ne sono parecchie). Lo scorso autunno, la proiezione dei loro ultimi tre film – non compongono una trilogia, ma perdoneremmo lo spettatore inesperto che pensasse il contrario – in una sala di Baker Street, durante la Frieze Art Fair, ha offerto una straordinaria esperienza cinematografica: un tour a trecentosessanta gradi in un universo bizzarro, oscuro e claustrofobico, spesso inquietante, popolato di sadici meccanici, maghi dal volto annerito, minacciosi “diversi”, arcigne donne nell’atto di assumere un’ampia gamma di pose disturbanti (molti degli attori non professionisti di questi film sono stati reclutati nelle folte famiglie degli artisti) e un intero cast di personaggi stravaganti che, con i loro movimenti robotici e il loro inflessibile mutismo, evocano il ricordo del più solido cliché dell’estetica freudiana, il Perturbante.
Il lavoro di De Gruyter & Thys non ha niente a che fare con il format del documentario, privilegiato da tanti artisti impegnati nel vasto campo della cronaca sociale e politica, né lascia molto spazio (in realtà, nessuno – fra poco tornerò su questo fatto insolito) alle convenzioni narrative che improntano tanta parte di questo genere di lavoro “sociologico”. Eppure i loro film, in particolare Ten Weyngaert, Die Fregatte e Der Schlamm von Branst, hanno contenuti intensamente, innegabilmente, “politici”– se non altro per il modo spietato in cui ritraggono le dinamiche e le condizioni che generano il comportamento sociale. Nelle parole di Monika Szewczyk, “gli artisti cercano modi di affrontare soggetti marginali, feriti, confusi e alienati senza definire questi ‘diversi’ in termini sociologici. In questo senso, e soprattutto grazie al loro uso inedito dell’umorismo macabro, Thys e de Gruyter ampliano il raggio della rappresentazione dei comportamenti socialmente indotti”.
Queste rappresentazioni sono invariabilmente tetre, spesso insopportabilmente prive di eventi, ma sempre, come indica il riferimento a un umorismo nero e grandguignolesco, divertenti – in un modo disturbante che finisce per tradire il loro notevole debito verso la sinistra tradizione underground di un surrealismo noir tipicamente belga.

Ten Weyngaert – “vigneto” in fiammingo arcaico – prende il nome da un centro culturale di Vorst, un sobborgo di Bruxelles, aperto negli ultimi anni ’70, quando un’ondata di utopismo culturale investì le Fiandre; a trent’anni di distanza, l’utopia di emancipazione culturale e auto-realizzazione attraverso l’arte ha tristemente ceduto il posto a lezioni di arti marziali per la gioventù disincantata della zona e altri indesiderabili “diversi” (Jos de Gruyter conosce il luogo da vicino, avendoci lavorato come proiezionista). Alcune tracce di questo retaggio progressista – in fin dei conti, il clima culturale in cui sono maturati gli stessi artisti – sono ancora visibili, ma il film è innanzitutto uno studio dei rapporti orwelliani di potere in un microcosmo di disorientanti gerarchie piramidali. L’amore evidente (ma non per questo meno strano) degli artisti per i dettagli dell’estetica pauperistica e burocratica del centro non fa che rendere più drastica la loro diagnosi cinematografica delle dinamiche kafkiane di gruppo in quello che, una volta, Theodor Adorno ha definito il “mondo amministrato”. Eppure, seguendo la triste spirale regressiva in cui sono rimasti invischiati molti centri culturali simili al Ten Weyngaert delle origini – dall’utopismo pseudo-socialista degli anni ’70 alla distopia contemporanea – il film descrive i capricci della psicologia di gruppo e dei giochi di ruolo, con effetti di volta in volta caustici e divertenti.

Die Fregatte, forse a tutt’oggi il loro lavoro più importante, ruota attorno al modellino di una nave nera (la fregata del titolo) che incarna il centro di una fitta rete di interazioni sociali, sempre rigorosamente mute – in sintesi, si tratta di un gruppo di disinvolti maschioni in tenuta da attaccabrighe (uno di loro sfoggia una ridicola barba finta, un altro riprende nervosamente la situazione con una videocamera) che girano attorno all’unica donna seduta su un audace divano; una stridente, lugubre parodia della famiglia mononucleare intrappolata nei suoi pacchiani interni domestici – altro motivo ricorrente in molti dei loro lavori. Nel film non c’è alcun movimento reale, e neanche una parola di dialogo – solo una distorta, incongrua musica da chiesa suonata da un organo. L’unico dialogo di Ten Weyngaert, invece, è un monologo, per giunta un monologo interiore: su un uomo che prova un piacere perverso a tormentare un raro esemplare di topo saltatore della Siberia dentro alle tasche dei suoi jeans; a parte ciò, si sentono solo risate sardoniche, qualche lamento e uno strano sbuffare e ansimare. In poche parole, è chiaro che l’assenza, l’impossibilità o il rifiuto del linguaggio, gli “insegnamenti del silenzio”, rappresentano il nucleo dell’intero progetto artistico di De Gruyter & Thys.
In una conferenza che ho tenuto l’anno scorso alla Biennale di Berlino, in occasione della quale questo lavoro era esposto al Kunst Werke, ho definito la fregata del film come un lacaniano objet petit (a) rispetto alla mostra – o almeno alla sede in cui era collocato: nascosto com’era nel seminterrato del Kunst Werke, era facile, o perlomeno allettante, considerare il lavoro di De Gruyter & Thys come il fosco e silenzioso inconscio dell’intera Biennale, in cui Die Fregatte seminava il suo oggetto del desiderio sempre perduto, resto o traccia residuale – il nocciolo duro del Reale che sopravvive, come segreto terribile, sul piano Simbolico. In altre parole, una Cosa (freudiana, perturbante), che scaglia il suo sinistro incantesimo di impenetrabile magia sui soggetti umani, riducendoli di colpo a uno stato di animalesco silenzio, pilastri di sale e di sabbia...
Le metafore geologiche, infine, sono al centro del loro ultimo – e più estremo – film, Der Schlamm von Branst (“Schlamm” significa “argilla” in tedesco, Branst è il nome di un sonnacchioso villaggio delle Fiandre, sulle rive del fiume Scheldt, famoso appunto per la produzione dell’argilla), ambientato in un laboratorio di lavorazione dell’argilla, con un’illuminazione cruda e un’ambientazione sui toni del marrone. È qui che la dialettica triangolare di materia inanimata, animazione e “spirito” si sviluppa nella sua forma più letterale e conflittuale – è l’ironica versione dell’antica leggenda del Golem secondo De Gruyter & Thys, il loro modo tagliente di raccontare per l’ennesima volta la classica storia di Frankenstein, dove il laboratorio funge da crudele metafora del laboratorio di ingegneria sociale. Bambole vudù vengono infilzate, l’umanoide testa di argilla di una divinità (con gli occhi fissi su un cielo invisibile) venerata, langue e parole rimpiazzate da brontolii e farfugliamenti, suoni animaleschi. Nel bel mezzo di questa sconcertante rappresentazione della condizione umana come caso di Selbstsozialplastik – cosa ne avrebbe detto Beuys? – ci viene offerto uno scorcio fugace su un irraggiungibile mondo esterno, i veri argini del fiume di Branst, i suoi alberi frondosi che ondeggiano sopra lo Scheldt. A detta loro, l’eterea, fantascientifica musica che accompagna questa improvvisa affermazione dell’esistenza di un mondo esterno è stata tratta da un film amatoriale dei primi anni ’80 che celebrava le virtù dell’oggi defunta Senator, linea di limousine per la classe media della Opel. È importante aggiungere qui che le automobili sono una grande passione per entrambi gli artisti – probabilmente il punto in cui l’Uomo si è più avvicinato a esaudire il sogno di realizzare il proprio Golem, e la cultura dell’automobile dovrebbe rappresentare il nucleo del prossimo film della coppia...

Dal 2003, lavoro come curatore al Museo di arte contemporanea di Anversa MuHKA, che nella primavera del 2007 ha avuto la fortuna di ospitare la prima di Ten Weyngaert di Jos de Gruyter & Harald Thys, primo lieto fine di un rapporto di lavoro di vecchia data. Tuttavia, per una serie di ragioni, installare il lavoro – il film era accompagnato da una suite di 23 foto in bianco e nero – si è dimostrato più difficile del previsto per il personale stanco (ma a volte anche semplicemente incurante) del museo, e più si trascinava questo lancinante, frustrante processo, più sentivo che il museo iniziava ad assomigliare, anche visivamente, al centro culturale di Bruxelles da cui il film aveva preso il nome (la cosa, naturalmente, mi è stata fatta notare dagli stessi artisti). Forse è stata quella la prima volta in cui mi sono trovato di fronte all’allarmante possibilità di leggere i parodisti sketch sociologici di De Gruyter & Thys come specchi allegorici del mondo che io stesso consideravo la mia casa – infatti, il mondo dell’arte (la “casa” in questione) non è diverso da qualsiasi altro settore e anfratto dello Zoo Umano. Jos de Gruyter & Harald Thys sono allo stesso tempo i suoi più spietati osservatori e i suoi visitatori più attenti e compassionevoli.