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Arte contemporanea Anno 4 Numero 16 gennaio-febbraio 2009



Arte come gioco

Giovanna Le Noci



bimestrale di informazione
e critica d'arte


SOMMARIO

Arte come gioco

Peggy Guggenheim e la nuova pittura americana
Ethnopassion
La collezione d’Arte etnica di Peggy Guggenheim

Carlo Cardazzo
una nuova visione dell’Arte

Futurismo 100
“illuminazioni. Avanguardia a confronto. Italia-Germania-Russia”

Mauro Staccioli: pensare la scultura

Edoer Agostini
opere degli anni ‘70-’80

Bianchi Nunzio
Pizzi Cannella

Jean-Michel Basquiat
Fantasmi da scacciare.

Estetica_Tecnologica
Franco Angeloni, Eros Bonamini, Adolfo Lugli, Maurizio Galimberti

Renato Mambor
in prestito all’infinito

Giosetta Fioroni
Intervista all’artista

The revolution continues:
New art from China

Beatrice Bolletta
Mondi paralleli

Matthew Barney
Mitologia contemporanee

Vittorio Formisano
una vita per la pittura

Manifestazioni artistiche

Eventi Flash

Risultati d’asta 2007/2008

Mostre in Italia
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Diego A. Collovini
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n. 35 novembre-dicembre 2013

Gianfranco Zappettini
Diego Collovini
n. 34 giugno-luglio 2013

Maurizio Cesarini
Katiuscia Biondi Giacomelli
n. 33 febbraio-marzo 2013


Emiliano Zucchini
v-Bag, 2008
5 x 30 x 25 cm

Maurizio Cesarini
Il velo nero, 2008
video
Collezione privata

Antonio D’Agostino
Matemorfosi, 2006
video, colore, sonoro, 15’

Parlando di gioco, occorre anzitutto precisarne i sensi e le molteplici definizioni, per arrivare all’asserzione di un suo possibile rispecchiamento nell’ambito dell’arte. Il dizionario ci dà questa definizione esemplare:”gioco, attività di natura varia a scopo di svago o come esercizio per lo sviluppo delle forze fisiche e delle facoltà intellettuali”, c’è già in questa asserzione un dualismo tra mente e corpo che possiamo sin d’ora rilevare in molte delle esperienze dell’arte contemporanea. Nel concetto di gioco è implicita l’idea di competizione, non casualmente si parla di avversari e di rischio, se non altro agonistico, e in ciò pare di sentire il riverbero della frase di Van Gogh, quando afferma che nel suo lavoro (la pittura), egli rischia la vita e la sua ragione vi si è quasi consumata. In questo senso appare in filigrana la dicotomia su accennata, il rischio, componente essenziale del gioco, per l’artista è letteralmente la vita, la sua possibile perdita, e ciò attiene all’ambito corporeo, ma altresì la mente rischia la perdita della ragione, la morte del pensiero di realtà in favore del pensiero allucinatorio. La caratteristica del gioco rispetto all’opacità e l’imprevedibilità del reale è il suo svolgersi all’interno di un quadro già determinato in anticipo, riunendo in sé i concetti di totalità, di regola e di libertà, tuttavia esso ricalca nel suo svolgersi i modelli della vita reale, tendendo però a sostituire l’anarchia del naturale, con un ordine culturale ed in alcuni casi cultuale. Wittgenstein pone un problema essenziale rispetto alla definizione di gioco, problema così esplicitamente articolato e complesso, che se sostituissimo questo termine con il nome di arte, avremmo chiaramente il senso di tante interrogazioni che questa ha posto su se stessa.

Egli elenca una serie di giochi (carte, palla, sport, ecc), e successivamente afferma: “Guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti(i giochi)-infatti se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie”. Il filosofo Nigel Warburton riprende significativamente questa asserzione di Wittgenstein, applicandola al concetto filosofico di Arte, dichiarando che questa non può essere definita in senso assoluto, ma mettendo in luce i complessi sistemi di somiglianze, parentele, sovrapposizioni, tra le cose che chiamiamo arte. Un altro aspetto significativo del gioco, risulta essere l’insieme di regole che lo definiscono, ma è noto che l’evoluzione di questo ha fatto sì che tali regole venissero nel tempo sovvertite, sostituite, ed in alcuni casi eliminate, pensiamo nell’ambito dell’arte al gesto duchampiano; per secoli l’opera era stata un prodotto delle mani dell’uomo, diversa nell’aspetto, ma sostanzialmente caratterizzata dal suo intervento fisico, da Duchamp questa diviene gesto di pensiero, tanto che nei ready-made più significativi, essa non reca traccia su di sé di alcun intervento manuale dell’artista. Non è casuale che un artista come Duchamp incarni perfettamente l’assonanza tra arte e gioco, già nell’assetto biografico egli si divide tra il ruolo di artista e quello di giocatore di scacchi, arrivando ad eccellere in entrambi gli ambiti.

Il gioco, come insieme di regole trasgredibili, diviene per Duchamp l’assioma della sua ricerca; negli scacchi egli studia sottilmente l’insieme delle mosse, che pur inserite nella griglia delle regole, conducano allo stallo, al fine partita che non può per sua natura finire, così è come se il gioco sottratto al suo ambito di tangenza con il reale, precipiti in questo senza possibilità di soluzioni. Nell’arte il fulgore significativo dell’opera viene dirottato verso l’opacità del reale, coincidendo con l’oggetto bruto, con la cosa ottusa, apparentemente priva di senso se non quello strettamente funzionale al suo utilizzo. Questo contraddice in parte quel che Lacan afferma, configurando l’opera nell’ordine del Simbolico, quindi in posizione antitetica all’ordine del Reale, ma l’operazione duchampiana appare più sottile, egli si situa nel limen tra Reale e Simbolico, così che l’oggetto assume senso da entrambe le possibilità. Ma il gioco presuppone anche un aspetto ludico, quasi canzonatorio, ed è su questo versante che agisce Man Ray, giocando con i doppi sensi delle definizioni linguistiche, sovvertendo le regole che definiscono assertivamente l’agire e la sostanza delle cose.

In lui si intravede un valore poetico, elemento questo che vive di metafore, metonimie e giochi semantici squisitamente linguistici, arrivando a trovare assonanze tra il senso della poesia e quello più opaco del reale; si pensi ad esempio ad un’opera come L’enigma di Isidore Ducasse, chiaro omaggio al poeta Lautréamont, autore dei Canti di Maldoror. Ma pensiamo anche a opere come Il dono, ferro da stiro privato della sua funzione con l’inserimento di chiodi che vanificano scherzosamente il suo possibile utilizzo, oppure alla baguette dipinta di blu, il cui colore non attiene a nulla di commestibile a al tempo ne inibisce la possibilità di essere utilizzata come cibo. Se le regole pongono il gioco a ridosso del reale, gli artisti lavorano incessantemente perché il reale assuma le regole del gioco, ed in questo senso appare assai significativa l’opera di Andy Warhol, non solo per la riproduzione in scala reale delle innumerevoli scatole, come Brillo e Campbell’s, quest’ultima come chiaro riferimento autobiografico alla sua adolescenza, ma per un’opera poco nota come Bomb del 1967, una delle sue poche sculture conosciute. Intanto questa appare affine, essendo un modellino, all’idea di giocattolo, (oggetto atto a produrre gioco), ed è di gioco che si tratta, da un lato è evidente l’aspetto mimetico rispetto all’oggetto reale, dall’altro poiché riproduce fedelmente una vera bomba in dotazione all’esercito USA, allude amaramente ad un gioco, anch’esso determinato da ferree regole, spesso praticato dagli uomini: la guerra. Interessante rilevare in quest’ambito anche un’artista come Raymond Hains, che utilizza un sistema visivo spiazzante, tipico peraltro del gioco come riproduzione del reale: l’ingrandimento di un oggetto comune come una scatola di fiammiferi. Materiale povero, nella realtà destinato ad un uso che ne determina la distruzione, viene dall’artista enfatizzato nella dimensione e nella forma, sino ad arrivare a farne una sorta di simulacro assoluto, utilizzandolo come simbolo della caducità e della consunzione.

Un altro aspetto che coniuga l’attività artistica con l’idea del gioco è quello eminentemente corporeo; il primo oggetto dell’elaborazione ludica è il corpo, basti pensare all’esperienza di una psicanalista come Melanine Klein, che assume il gioco, in particolare quello dei ruoli, nel setting dell’analisi infantile. Non è quindi casuale che nella Vienna di Freud che per primo evidenzia varie fasi dello sviluppo psichico, strettamente correlate al corpo, quali la fase orale, caratterizzata da connotati autoerotici e quella anale, definita dall’interesse suscitato nel bambino per le funzioni defecatorie e per i fluidi organici corporei, l’esperienza degli artisti si sposti dalla pittura al corpo. Altresì non è certamente casuale la presenza culturale di uno scrittore come Arthur Schnitzler, che smaschera le ipocrisie del camuffamento piccolo borghese, evidenziando l’aspetto inquietante e a tratti liberatorio delle pulsioni psichiche, o il poeta Georg Trakl che va al di là dell’effimera immagine delle cose, creando un mondo chiuso che solo a lui appartiene e del quale egli solo detiene il senso. Da questo retroterra culturale nasce e si sviluppa l’Azionismo Viennese, un movimento certamente non coeso, ma attraversato da una comune inquietudine, dall’uso e l’abuso del gioco del corpo, ma un gioco che non assume il valore di una scoperta gioiosa, semmai esplicita l’aspetto più tragico e mortifero della funzione corporea. Se la realtà culturale e sociale della Vienna dell’epoca, tende alla sublimazione, cioè alla eliminazione degli elementi più strettamente connessi ad un senso organico, questi artisti recuperano le fasi di evoluzione corporea pescando nei recessi delle rimozioni infantili; ecco quindi l’ossessione sadico-anale delle azioni di Gunther Brus e Otto Muehl, alla ricerca di un gioco originario, sepolto dalla cultura, che dia nuovamente un senso ad un corpo che risulta ingabbiato e prigioniero da valori sociali dettati dall’apparenza. Ecco la disperata ricerca di un atto liberatorio che generi una abreazione delle pulsioni psichiche rimosse, attraverso la messa in scena ritualizzata, dei miti ancestrali dell’umanità, nelle azioni di Hermann Nitsch. Ecco il senso di un dolore, inferto da una ferita narcisistica, che anela ad una accettazione di sé ed una affettività verso l’altro, richiesta d’amore espressa attraverso l’esibizione della propria fragilità, nelle azioni di Rudolf Schwarzkogler. Pur se apparentemente paradossale anche in queste esperienze appare il senso del gioco, difatti questo non è solo ludica soddisfazione di un piacere, ma a volte anche esplicitazione di un bisogno, di una mancanza, di una mai cicatrizzata ferita interiore.

Il gioco è anche imitazione, camuffamento; rotture delle regole dell’essere, in funzione dell’apparire, basti pensare all’attitudine primaria del bambino di imitare gli adulti, con l’idea di assumerne anche il valore protettivo, ebbene in questo senso appare significativa una esperienza come quella di Urs Luthi, dove l’identità è continuamente affermata e contraddetta, dove l’imago mitica originaria non è semplicemente agognata e desiderata, ma viene assunta corporalmente attraverso l’esplicitazione della maschera. L’adulto deve quindi mettere in scena i suoi fantasmi, per liberarsi della loro invasiva presenza ed in questo risiede uno degli aspetti dell’esperienza di Fabio Mauri. Il fascismo con i suoi rituali, con il suo aspetto se vogliamo, travestitistico, fatto di divise, di orpelli, di gesti, viene rimesso in scena da Mauri nelle sue innumerevoli performances, in una sorta di gioco tragico in cui il meccanismo dell’evocazione, serve ad esorcizzare i fantasmi del passato. Ma tornando all’azione, all’atto liberatorio e significante, quale miglior esempio di gioco, di quello che si compie nel distruggere per ricostruire? Ed in questo appare significativa una esperienza come quella di Jacques Villeglè, con i suoi manifesti strappati ad un ambiente ormai anonimo; a muri che non comunicano più nulla, se non l’ossessività di un messaggio superficiale quale quello eminentemente pubblicitario, e che nel suo gesto di appropriazione e rimessa in forma, acquistano ben altri e più significativi messaggi. Vorrei citare inoltre in questa breve disamina, anche un artista come Antonio D’Agostino, che sin dagli esordi pittorici, gioca con il senso delle cose per arrivare ad un luogo del significato, che le cose del mondo spesso camuffano dietro l’opacità del loro essere tali.

A cominciare dalla Gabbie, dove il gioco è eminentemente ottico e percettivo, alle azioni quali quella di riempire dei sacchetti d’aria, in un senso dell’agire che diviene significativo gesto collettivo, sino alla manipolazione delle pellicole trovate che documentano intimi momenti, il cui senso è deviato da inserzioni filmiche che ne evidenziano la potenziale incongruenza. Inoltre si può intendere il gioco come visione, manipolazione della realtà, attraverso l’uso del video, come nel caso di Maurizio Cesarini, che adotta una tipologia di ripresa piana e quasi amatoriale, salvo poi intervenire successivamente sul montaggio e l’aggregazione di immagini, così da ottenere il senso di un reale che viene di fatto filtrato attraverso l’occhio dell’artista. Ed è sempre la manipolazione che appare nelle opere fotografiche, dove il volto dell’artista assume sembianze di natura dal vegetale all’organico.

Oppure l’ironica e giocosa dissacrazione di Emiliano Zucchini, che adotta la forma del taglio di Fontana, salvo poi ricucirlo attraverso zip che alludono ad una scelta possibile del fruitore di attraversare o no la superficie della tela dipinta, scoprendo un altrove che sa quasi di evocazione magica. Così come nei video egli assembla con furore giocoso frames di vario genere, per arrivare ad un nuovo senso del racconto visivo. Che dire poi di un artista come Cattelan, che ha assunto l’idea di gioco nella sua accezione ludica, evidenziando all’interno della congruenza del senso, sacche di non-senso, paradossi formali, visivi e linguistici, mettendo in evidenza che il re (nella fattispecie tutto l’assetto della cultura, con i suoi riti ed i suoi miti), è nudo, ed ancora una volta, come nella fiaba, l’artista, il bambino, colui che vede oltre le apparenze, ad individuarne l’aspetto reale. Il gioco degli adulti, maschera della convenienza e dell’ottusa acquiescenza, viene smascherato dal bambino artista, e forse è proprio questo il gioco dell’arte: camuffare per evidenziare e disvelare l’ovvio per arrivare all’essenza delle cose.