Arte contemporanea Anno 8 Numero 36 marzo-aprile 2014
Dialogando di pittura
Arturo Carmassi: La pittura: cos'è la pittura mi chiedi, come fosse l'eterna incognita della creatività, la fenomenologia del fare svelata dal pittore. Non posso, né voglio dirti cosa sia la pittura, ma so che la pittura si guarda e si osserva e in essa si vede sempre qualcosa d'altro. Ci sono due Sassetta pressoché invisibili, nascosti in una sacrestia del duomo di Siena che si raggiungono dopo un tortuoso percorso. In una piccola cappella trovi questi due quadretti. Raffigurano due paesaggi senesi. E subito l'attento spettatore si chiede per quale diavolo Sassetta abbia messo due macchie di rosso proprio nel mezzo dei due paesaggi. Sarà perché il rosso evoca la tragedia o il dolore? Non lo so, ma quel rosso è paragonabile solamente alle stigmate del quadretto presente a Brera.
Anche ai giorni nostri si riflette su una macchia di colore rosso o per quali ragioni in quella macchia di colore rosso si possono riconoscere gli stessi effetti espressivi che hanno avuto allora.
Diego A. Collovini: Non sarai certo l'ultimo artista che evita di addentrarsi in una definizione di pittura che porterebbe a discussioni essenzialmente distintive fra i vari linguaggi espressivi dell'arte, per privilegiare un dialogo diretto tra spettatore e opera.
Come se ogni prodotto artistico, una volta completato e nel momento in cui viene fatto conoscere, si liberi del ragionamento privato dell'autore, per manifestarsi per quello che è; per ciò che porta con sé, sia questa una parte dell'artista, un momento della storia dell'arte o ancora come una sensazione privata o come identità di un tempo preciso. Capisco il tuo rifiuto a definire la pittura perché penso tu voglia sottolineare la sua atemporalità come linguaggio.
A. C. - Le opere letterarie, la poesia, la musica, la pittura, la scultura, la creatività in genere, sono sempre indipendenti, perché sono l'identificazione del tempo con la storia. Questa è la nostra avventura, l’avventura dell'uomo nell'oltrepassare il tempo limitato della singola esistenza. Ogni tanto penso che se, dopo una catastrofe, dovesse passare da queste parti un viaggiatore, davanti ai miei marmi e alle mie sculture che stanno sulla collina qui davanti, si chiederebbe: "ma che tribù avrà mai abitato questo luogo?". E non è una soddisfazione questa? Essere identificato con una comunità. Pittura e scultura sono linguaggi tecnici non sono il pensiero ma esprimono un pensiero.
La pittura e la scultura sono la voce del passaggio di una generazione, indipendente che sia europea, italiana o toscana, perché deve essere internazionale. Pensa alla pittura degli anni quaranta e cinquanta, quando io ero ancora un giovane artista, era una pittura imbevuta di più storie. Le esperienze cubiste, futuriste, astratte degli anni trenta si sono imbarcate per l'America, e dopo poco più di un decennio sono tornate in Europa, ma internazionalizzate e cariche di altre realtà, di altri modi di vedere l'espressività artistica.
Eppure davanti a questa visione internazionale dell'arte c'è sempre chi si lascia andare all'imitazione. E questo per l'arte, ma ancor di più per la pittura, è un segno di debolezza poiché riproduce quello che, temporalmente e storicamente, non può essere rifatto. Come nel caso della realtà pittorica americana, loro hanno avuto stimoli e motivazioni per approfondire le esperienze del nostro passato, benché anche loro, molto giovani, non trovassero una risposta alle ragioni della loro pittura. E di questo esistono testimonianze. Jean Marie Drot, ad esempio, non volle far sapere a nessuno che documentò tantissimi giovani artisti tra il 1959 e1960 e questi filmati non sono solo la testimonianza del lavoro dei giovani pittori, ma sono la dimostrazione dei loro tentativi di uscire da alcuni schemi pittorici. E questo impeto nel cercare il nuovo, oltre alla mancanza di talento, fu una delle ragioni dell'oblio di molti di loro.
C'è una macchina intellettuale, ahimè ancora arcaica, legata a schemi espressivi identificativi. La pittura americana ci ha portato questo senso internazionalista che mescola tradizioni e nuovi modi di dipingere senza ripetere il passato. Pensa per esempio alle dimensioni dei quadri, alla libertà del segno e all'ampiezza del gesto. Rifarsi a quella pittura è come voler essere alla moda. Mentre la pittura è l'arte più individualista che esista, molto più della musica poiché ha una fisicità inalterabile e soprattutto non ha bisogno della mediazione dell'esecutore. Stravinskij può aver scritto il più bel concerto per tromba, ma se non è eseguito da un grande strumentista, perde la sua funzione estetica e con essa le sensazioni che hanno spinto l'artista a ricostruirle con il linguaggio della musica.
Pensa a Picasso che ha fatto conoscere un certo Stravinskij attraverso il disegno. Lo riproduce con imponenza e con una figuratività che curiosamente non è spagnola. Picasso era un uomo che acchiappava quello che c'era. Con gli occhi si riempiva il cuore e l'anima e poi cacciava tutto fuori con il disegno e la pittura, un po' come fece Matisse, sebbene questi esprimesse l'eleganza francese del pensiero … nelle opere di Matisse c'è dentro Baudelaire e la poesia.
D.A.C. - La pittura è il colore. Convinzione comune in tutti gli artisti è che il colore sia un elemento necessario del linguaggio della pittura e che sia proprio il colore a determinarne il loro procedere, altre volte invece si manifesta come un corollario ad altro linguaggio altre volte, come nel caso della pittura gestuale, diventa l'assoluto protagonista trasformandosi nel segno distintivo del fare di un artista.
A. C. - Ma quale pittore non ama il colore. C'è gente che fa benissimo tante cose ma che non sente il colore. Immagina Morandi, se nelle sue opere fosse presente una macchia rossa come quella del Sassetta significherebbe disconoscere un'idea di pittura, alterare il proprio lavoro. Morandi quando si è avvicinato al colore rosso si è limitato a dare maggior vivacità al marrone. D'altronde io sono cresciuto in una società, quella torinese, che accanto alle divise degli ufficiali c'erano le divise che distinguevano i lavoratori. C'erano delle distinzioni sociali evidenti.
Prova a pensare in quell'ottica quanto difficile poteva essere proporre una certa idea innovativa anche nella pittura. Io uso i cinque colori della tavolozza, il giallo, il rosso, il blu, il nero e il bianco. Con questi cinque colori dipingi la Cappella Sistina, fai tutti i colori che vuoi. Io ti dirò che il mio istinto, benché razionalizzato da una forma di educazione e da un'esperienza di mestiere, è quello dell'illogicità nella quale mi trovo a scegliere un certo tipo di colore. Raramente è una scelta aprioristica. Faccio un quadro che, banalizzando la libertà creativa, si chiama astrazione, cioè la libertà della non immagine; un'opera d'arte astratta possiede gli stessi segreti e lo stesso mistero delle opere figurative, come il segreto di Giorgione proprio per prendere un esempio molto alto. La differenza ci può essere nel talento, ma non nelle angosce esistenziali.
Sono però certo che il colore si usa per far la forma perché se la forma non ha colore non esiste. E per questo che rifiuto l'idea che un mio quadro possa essere ascritto nel concetto di monocromo. Io rifiuto un po' queste considerazioni intellettuali aprioristiche o semiconcettuali. Sarebbe innaturale pensare che un'opera diversa da quella progettata si debba considerare sbagliata; se è realizzata e funziona, è perché doveva essere così, malgrado le convinzioni dell'artista. Secondo me questo diventa il segno dell'artista. Sono convinto che non sia possibile a priori pensare che l'opera diventi come s'era pensata, c'è sempre un momento in cui nel procedere si cambia prospettiva, si cambia destinazione. E ci vuole poco anche una diversa gradazione del colore può far cambiare strada al percorso della pittura. Io posso passare da un bianco a un nero, da un rosso a un giallo e ciò mi è possibile perché amo la pittura … la pittura è anche il nero e il bianco, il buio e la luce.
Quest'ultimo è un grande colore; pensa per esempio a una grande superficie bianca, se non c'è artisticità è opera di un imbianchino se lo fa un pittore diventa un'opera d'arte. Poi sui neri bisogna aprire una parentesi a parte perché i miei neri sono molti e ciò mi allontana ulteriormente da ogni riflessione sul monocromo e dalle sue interpretazioni, per entrare nel grande tema della luce. Io non uso mai i neri puri, io uso diversi neri e spesso metto del blu dentro il nero. Se lo mescoli a un cobalto il nero diventa ancor più freddo; se dentro metti un oltremare, lo rinforzi e devi stare attento ché l'oltremare tende a involgarire il nero. L'oltremare è uno dei colori più volgari che esistono sulla tavolozza.
D.A.C. - Sono aspetti questi che caratterizzano bene le tue idee sul cromatismo e le tue considerazioni sugli effetti della percezione. Credo che ogni colore abbia in sé qualcosa di magico che origina dalle singole esperienze. Come credo che il processo creativo di ogni artista abbia più possibilità di manifestarsi; come se esistesse una nuova percezione che induce l'artista a riguardare la propria opera. Le tue pitture monocromatiche non sono certo un ripensamento né credo si possa parlare di azzeramento, come potrebbe essere inteso teoricamente il monocromo. Per esempio ci sono dei collage che hai ricoperto di bianco dando loro un'altra vita.
A. C. - È vero che ho coperto con il bianco delle opere che non mi piacevano; ma sono frutto dell'inquietudine. Il pittore deve essere il primo giudice delle sue opere, e se un artista non ha uno spirito critico non fa niente, anzi rincorre quelle cose che nella realtà non gli appartengono. C'è una retorica in molte cose. Come li ho dipinti tutti bianchi, potevo farlo con dei gialli con dei rossi ecc.
Prima di questi bianchi ci sono questi splendidi collage che ho inventati con una tecnica inusitata e che mi hanno dato una certa soddisfazione. A volte un quadro vecchio diventa nuovo perché viene ripreso in mano.
Credo non ci siano grandi spiegazioni, perché in arte non si sa cosa appare alla fine, spesso si segue un segno e si va avanti fino a che ci si rende conto che al quadro non manca più nulla. Poi, nel tempo, quella traccia che si era seguita scompare e ne appare un'altra che ci invita a fare altro. Io sono naturalmente un capace colorista, non ho paura del colore. L'unica cosa che so fare è pitturare, e nel tempo mi sono convinto di essere nato per fare questo.
D.A.C. - Nel tuo percorso creativo s'intersecano diversi periodi; molti sono dedicati ai lavori multipli, nei quali l'elemento espressivo che li caratterizza è il segno. Mi viene in mente il tuo "Journal perpétuel", nel quale il segno si manifesta nelle sue più estrose forme e dinamiche; spesso liberatorie, altre costrittive comunque sempre espressione di un segno in continuo sviluppo ma che unisce la libertà del movimento con quello riflessivo e razionale che va alla ricerca di una forma.
Altre volte lo stesso segno diventa invece un corollario alla pittura, difficilmente si rende protagonista, poiché il suo essere si giustifica nella libertà di espressione trasformandosi però in un'identità narrativa.
A. C. - C'è un istinto, un desiderio, un mestiere nella pittura, pensa a Dürer che viene dalla scuola del cesello. Di lui c'è solo un'acquaforte. Mi ha affascinato l'uso del segno per come disegna le foglie, l'albero, gli abiti, il cannone, le ruote, il tetto delle case. Per ogni soggetto presente nell'opera c'è l'uso di un segno per definirlo; se tu hai esperienza e conoscenza prendendo un centimetro quadrato riesci a riconoscere a quale oggetto il segno appartiene.
Come in pittura la pennellata è quella che decide la personalità di un artista più ancora della calligrafia, se prendi solo alcuni centimetri quadrati puoi riconoscere Rembrandt, Rubens, Cézanne, non parliamo di Van Gogh.
Ho spesso dato importanza al segno ma ora nei miei quadri il segno non c'è più, ma l'ho dentro. Spesso alcuni segni sono delle trouvé per chiudere il quadro con una certa eleganza, per rompere quell'idea di monocromo che limita la lettura o semplicemente rende elegante la superficie; se tu in un quadro tutto nero fai un cerchio bianco, rendi elegante la pittura senza con questo sconfinare nella decorazione; perché il decoratore, benché sia un bravo interprete del linguaggio dell'arte, è uno che si è dimenticato per la strada le palle.
D.A.C. - Affrontiamo un po' il tema della materia. I tuoi colori non sono mai privi di spessore, anzi appaiono sempre più come dei corpi cromatici. Hanno spessore e tendono a isolarsi completamente da ogni raffigurazione per diventare pura forma. Non è un modo esclusivo del fare pittura, però nel tuo lavoro è sempre evidente il colore grasso, che descrive il movimento e sottolinea la pennellata. Non credo di sbagliare se intendo la materia colorata come lo strumento per riflettere sulla luce e del rapporto tra questa con il segno e il colore.
A. C. - Prendiamo la differenza tra un ritrattista inglese e uno francese della stessa epoca. Noterai che l'inglese è preso dalla necessità di rappresentare un certo tipo di società che è quella oleografica, quando poi vedi un Goya e altri pittori europei, scopri che la materia diventa il linguaggio essenziale non solo del contenuto, ma soprattutto della pittura. Non si può non rispondere a una domanda precisa postaci dalla pittura. Le grasse pennellate possono dire tante cose, come del resto la differenziazione della superficie e dello spazio pittorico.
Per me la materia è necessaria per fare il quadro, la materia viene utilizzata nel modo più ovvio anche con corpi estranei alla pittura stessa, come uso soltanto il colore, ma è un colore che ha corpo, uno spessore tanto da diventare una forma. È diverso l'uso che faccio del colore di fondo, quello diventa l'oggetto centrale dell'interesse. In questi termini la pittura è sempre stata anche spessore e varianti cromatiche che danno identità al dialogo tra colore e materia, benché non si possa dare l'una senza l'altro.
D.A.C. - Allora, il prossimo anno, avremo modo di vedere le tue opere a Parigi: sculture al museo Rodin e pitture a Petit Palais?
A. C. - Per chi sarà a Parigi certamente sì.