Arte contemporanea Anno 6 Numero 32 ottobre-novembre 2012
intervista all’artista
Protagonista di una raffinata mostra intitolata Luce Propria al Museo Diocesano di Milano, conclusa il 6 settembre, Claudio Olivieri è una figura di rilievo nel panorama dell’astrattismo europeo. La ricerca di Olivieri, perseguita negli anni con gran rigore intellettuale, si origina nell’ambito della sperimentazione informale del dopoguerra per sfociare, sin dai primi anni settanta, in una visione poetica personale. La sua pittura cattura l’ineffabile, fissandolo sulla tela in corpi cromatici luminosi ed evanescenti. Le sue forme in divenire fluide e diafane, o concentrate in nuclei compatti di colore, sembrano vibrare davanti agli occhi come entità che sprigionano emozioni e regalano, nel clamore generale, rari momenti di silenzio e contemplazione.
A.A. Vorrei iniziare chiedendole della sua mostra al Museo Diocesiano.
C.O. La mostra si divide in due sezioni che occupano spazi paralleli, da una parte le opere più recenti, a partire dal 2008, dall’altra le opere dagli anni settanta ai novanta. E’ un confronto fra due momenti diversi del mio lavoro per verificarne la ragione interna. Questo è molto importante in un momento in cui tutto, dall’economia alla cultura, è determinato da fattori esterni e soprattutto dall’esibizione, che ha preso il sopravvento sulla ricerca dell’identità. Io ho cercato di fare un discorso sull’identità in un sistema dell’arte italiano imprigionato e chiuso, che rifiuta i confronti e respinge chi non è allineato con le correnti che lo hanno dominato fin dagli anni settanta.
A.A. Negli anni cinquanta si trasferisce da Mantova a Milano. Quali erano allora gli artisti che portavano avanti un tipo di ricerca che la stimolava?
C.O. Gli anni cinquanta e sessanta erano gli anni dell’informale, della scoperta dell’arte internazionale: la pittura americana e la grande pittura europea. C’era fermento e un dibattito acceso sull’astratto e il figurativo. Vi fu un’importante mostra al PAC che portò in Italia l’Astrattismo USA, Clifford Still, Mark Rothko ... Mi ricordo le affinità divise, chi ammirava Arshile Gorky e chi Barnett Newman. Contemporaneamente c’erano altre correnti come il Color-Field Painting, che faceva capo a Helen Frankenthaler e Morris Louis. E poi naturalmente il Pop: un fatto che già allora mi sembrava esterno alla sensibilità europea. Il tempo mi ha dato ragione: oggi questi quadri sono un oggetto di speculazione. Un’opera pagata venticinque milioni di dollari è evidentemente un fatto speculativo, un fenomeno che risponde ad una logica economica globale e alla necessità di inventare costantemente nuovi prodotti.
A.A. Il suo lavoro è stato spesso esposto in mostre d’Arte Analitica. In parte elementi come la smaterializzazione della pittura e la distanza dalla gestualità l’avvicinano ad un approccio analitico. Ma alcune sue affermazioni, ad esempio che ‘l’arte è un misticismo senza Dio’ sembrano più vicine alla sensibilità d’artisti come Barnett Newman per i quali dipingere era un viaggio spirituale. Come si colloca fra queste due polarità?
C.O. L’arte analitica aveva come obbiettivo svincolarsi dalla rappresentazione delle cose, della storia e della stessa astrazione, intesa come tema: questo mi andava bene. Quello che non mi piaceva era l’invadenza della prassi, un approccio troppo grammaticale legato a fattori predeterminati e allo strumentario. La pittura non è arte concettuale con il suo corollario di procedure prestabilite, ma fatta di strumenti da inventare ogni volta. Ciò non toglie che l’Arte Analitica sia servita come ‘contenitore’. Senza un movimento probabilmente non saremmo esposti a Palazzo Reale a Milano: i movimenti servono a questo. Tuttavia non li amo, perchè credo che un’opera non debba nascere per aderire ad un’etichetta, ma perchè vada a finire dove vuole.
A.A. Lei ha parlato di una graduale purificazione delle sue opere dal segno e poi dalla pennellata. Qual’ è stato il motivo della svolta?
C.O. Ai primi degli anni settanta mi sono accorto che usando i miei strumenti di lavoro potevo avere una superficie che non aveva caratteristiche tradizionali, a cominciare dal fatto che non la toccavo. La distanza fra me e il quadro è molto importante ancora oggi. Un problema che mi pongo spesso è quello della collocazione dei miei quadri nello spazio espositivo, perchè guardati da vicino o da lontano cambiano natura: sono entità se viste da lontano, ti abbracciano quando ti avvicini. Qualcuno mi ha fatto notare che il mio colore non sembra riempire o concludere l’opera come accade di solito in pittura, ma appare come appare il pensiero.
A.A. Si riferisce al concetto di ‘vedere pensando’ che ha espresso nei suoi scritti?
Esattamente, c’è una strana identità nel mio lavoro, difficile da spiegare, fra pensiero e natura del lavoro.
A.A. La luce è evidentemente un elemento cardine nel suo lavoro. In una precedente intervista ha legato la scoperta della luce all’arte greca. Mi ha incuriosito una sua definizione: durante un viaggio giovanile lei dice di essere rimasto colpito dall’arte greca classica e la definisce “luciferina” . Può spiegare perchè?
C.O. Innanzitutto perchè è drammatica, e quindi la lettura che ne ha fatto il Neoclassicismo è sbagliata. La mia riflessione sulla luce è scattata ad Olimpia, davanti all’Hermes di Prassitele, un’opera tutta giocata sulla luce che la costituisce, costruendo prospettive diverse a seconda del punto dal quale la si osserva. Ecco, questo mi ha fatto pensare che la luce è sostanza, non si pone sul mondo ma lo costituisce, formandolo.
A.A. A che punto decide che un suo quadro è finito?
C.O. Quando diventa ‘altro’, non è più mio e si mette lui ad osservarmi assumendo un’ identità propria. In questo il mio lavoro si distingue dalla Pittura Analitica che non contempla questo tipo di problema.
A.A. Com’è cambiata la funzione del critico negli ultimi trent’anni?
C.O. La grande differenza con il passato è che allora l’opinione degli artisti contava. Oggi conta molto di più la figura del curatore che spesso è indifferente alla qualità del lavoro o magari non la percepisce proprio perché è mutato il codice di riferimento. Ho avuto l’opportunità di conoscere diverse generazioni di critici e quelli più anziani, la generazione di Guido Ballo, Franco Russoli, Marco Valsecchi e altri erano dei conoscitori raffinati e di una notevole capacità di giudizio,sorretta da un rapporto d’amore con l’arte. Ebbi poi un’esperienza con i critici più giovani quando mi trovai a collaborare con il Pac di Milano dai primi anni ottanta,sotto la direzione di Mercedes Garberi,allora direttrice dei Musei Civici di Milano. Per un periodo Zeno Birolli poi Flaminio Gualdoni, Elena Pontiggia e altri, tutte persone preparate e attente. Furono organizzate mostre molto importanti come per esempio quella di Richter nel 1982 di Boetti, Dadamaino, Richard Long, Morris Louis e molte altre. Certo il problema era sempre lo stesso cioè vivere alla giornata, nel senso di non sapere mai quanti fondi avevamo a disposizione né quando li avremmo avuti. Tutto finì con il colpo di grazia delle bombe mafiose a via Palestro nel ’93 che uccisero 5 persone e sventrarono il Pac.
A.A. Lei ha definito il presente un deserto modaiolo. In questo deserto sempre più regolato da leggi di mercato, è ancora possibile un’autonomia dell’artista e una sua funzione critica?
C.O. La scelta autonoma è punitiva e in un certo senso comporta l’isolamento. Tuttavia c’è sempre la possibilità di trasformare l’esilio in un posto di frontiera da cui tendere agguati, per quante poche speranze di riuscita questi abbiano in un mondo che non ha grandi riserve morali... D’altra parte fare alleanze con il potere è sempre pericoloso: spesso si finisce con l’esserne distrutti.
A.A. Quindi lei pensa che neppure le recenti aperture italiane all’arte ‘globalizzata’ abbiano cambiato le cose?
C.O. No, per nulla. Anzi il sistema globale è per definizione del tutto privo di contradditorio. Quello poi che colpisce in Italia è la mancanza di una direzione precisa, la Biennale di Venezia n’è la prova: Baratta ha affidato la scorsa edizione a Vittorio Sgarbi, un conservatore, e la prossima sarà curata da Massimiliano Gioni, un giovane curatore internazionale di segno totalmente opposto. Sembra che in questo paese non si viva seguendo scelte ponderate ma secondo apparentamenti d’amicizia, di conoscenze e in definitiva di potere. Anche il ruolo del museo oggi è sostenuto in gran parte da ragioni di potere ed economiche, in quanto non ha più la funzione di raccogliere ma di promuovere. Pinault è l’esempio eclatante: ha un ruolo decisivo nelle scelte espositive dell’arte contemporanea a Venezia, ed è anche il padrone di Christie’s.
A.A. Se questa è la situazione, immagino che lei non veda un futuro roseo per i giovani artisti...
C.O. Per i giovani, assumere una posizione così detta globale significa costruire un tipo di lavoro orientato alla carriera. Può andar bene o male: o si vince un terno al lotto, oppure si è spazzati via...