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Nero Anno 6 Numero 21 autunno 2009



The (continuing) use-value of Mike Kelley

Justin Lieberman

An open letter etc. etc.



free magazine


No. 21 - Autumn 2009
Copertina di Benny Chirco
Special Project di Emilio Prini

ARTICOLI
CRACKERS
CERI D'ONTANO, A DIALOGUE BETWEEN CERITH WYN EVANS & LUIGI O...
LA CITTÀ ORDINARIA
THE (CONTINUING) USE-VALUE OF MIKE KELLEY, AN OPEN LETTER ...
ANACONDA
A CONVERSATION ABOUT NEW YORK CAFES AND RESTAURANTS

SPECIAL PROJECT
Emilio Prini

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Mike Kelley and Tony Oursler
The Poetics Project 1977-1997
Documenta Version 1997

Sterling Ruby
Grid Ripper 2008

Con questo testo vorrei discutere brevemente dell'influenza, ancora attuale, di Mike Kelley su una generazione di giovani artisti che, per comodità, dividerò in due categorie: Neo-Formalista Pop, nella quale colloco Banks Violette, Sterling Ruby, e Rachel Harrison; e Auto-Riflessiva Antropologica, tra le cui fila annovero Cory Arcangel, Ryan Trecartin, Stephen G. Rhodes. Prima di tutto vorrei però riesaminare lo stesso Kelley, riconsiderando il suo lavoro alla luce di questi artisti più giovani.

Una delle principali novità introdotte da Kelley è stato l'inserimento di materiali sub-culturali all'interno di un discorso artistico che, prima di lui, si limitava a questioni di tipo fenomenologico. La sua opera ha a che fare con la natura (quasi) inconciliabile di questo accostamento, portando continuamente alla luce le imperfezioni della logica riduttiva, propria del modello fenomenologico, e allo stesso tempo rifiutandosi di abbandonare tale modello d'interpretazione. Il lavoro di Kelley inizia a prendere forma dal momento in cui, all'interno dell'arte concettuale e del minimalismo, si cominciano a riconoscere dei tratti stilistici. Oggi, ovviamente, tutto ciò non rappresenta più una novità; la fotografia amatoriale e le pagine scritte a macchina, tipiche dell'arte concettuale, così come i materiali industriali e le forme geometriche del minimalismo, sono stati più volte messi in questione proprio per il programma ideologico che nascondevano. Ma questa non è la posizione di Kelley. L'opera di Mike Kelley non abbandona mai del tutto il modello fenomenologico in favore della sua comprensione. Non cerca di de-sublimare questo significato. Anzi, l'ambiguità del suo lavoro si fonda proprio su questo. Kelley non riduce il minimalismo o l'arte concettuale allo stato di puri segni. In realtà il lavoro di Kelley opera in maniera simile a questi ultimi, e ne condivide le ambizioni, ossia l'espansione del concetto di arte e dei suoi limiti spaziali. La strategia di Kelley, che consiste nell'introdurre il discorso sub-culturale all'interno di quello fenomenologico, mostra alcune affinità con il lavoro d'altri artisti che hanno tentato di espandere la definizione di opera d'arte in favore della sua interpretazione politica e sociale, portando avanti così il classico paradigma modernista dell'auto-riflessività. Vengono subito in mente Hans Haacke e Michael Asher, ma, mentre il loro lavoro puntava ad incorporare le istituzioni artistiche e il mercato dell'arte nel campo dell'autoriflessività, Kelley cerca di introdurre al suo interno le componenti psicologiche e sociali che sono alla base del gusto e del meccanismo di identificazione dello spettatore. In tal senso Kelley ha cominciato a mettere in discussione quelle che considerava delle semplici questioni formali di stampo puritano (riconosciute come universali) che erano profondamente radicate proprio in questo tentativo.

Il lavoro di Kelley esemplifica il gioco della cavallina, basato sul trauma, che secondo Hal Foster avviene costantemente tra il moderno ed il post-moderno. (Anche se nella sua raccolta di saggi Il Ritorno del Reale, Foster sbaglia a sostenere che il lavoro di Kelley rappresenta una forma di degradazione e quindi un vicolo cieco). Kelley non tenta di ridurre il minimalismo ad un segno, ma cerca invece di espanderne gli obbiettivi. I materiali sub-culturali, impiegati da Kelley per raggiungere il suo scopo, non sono usati come segni del "basso" al fine di creare un'equazione diagrammatica (dove il minimalismo sarebbe l'"alto"), ma costituiscono le basi di un regionalismo critico che è cresciuto in parallelo al modernismo istituzionale. Questo regionalismo critico non è visto o rappresentato dall'artista come alternativa all'universale. (Una delle sue reali funzioni è di dimostrare che la cultura istituzionale non è affatto universale. Alla luce del lavoro di Kelley essa appare come una forma di regionalismo tra le tante). Piuttosto, nel suo lavoro, quello che conta è il riconoscimento di obbiettivi comuni. A proposito dei fumetti underground Kelley dichiara:

"Sostengo vivamente che i fumettisti underground siano stati dei grandi artisti – i loro fumetti erano talmente in contraddizione con la storia del fumetto di massa, sia da un punto di vista ideologico che formale, che non potrebbero essere considerati altrimenti. Inoltre, l'adozione del formato del giornale a fumetti come mezzo di presentazione, li collega ad altri movimenti radicali d'avanguardia degli anni sessanta, come gli Happenings e la Earth art, che allo stesso modo cercavano di sfuggire ai confini del circuito delle gallerie. Questo è un dato spesso tralasciato quando si parla di fumettisti underground." (1)

Per Kelley gli obbiettivi condivisi sono quelli dell'espansione. Tuttavia, egli è molto cosciente della precarietà del proprio progetto. Il suo lavoro riflette profondamente sul Surrealismo e sul suo lascito. La scomparsa dei confini tra arte e vita, cui il Surrealismo aspirava (con il suo susseguente fallimento), per Kelley è una lezione acquisita. E' questa l'origine del pathos che vive nella maggior parte dei suoi lavori. Eppure Kelley non si arrende. Le sue esplorazioni antropologiche delle forme appartenenti alla sub-cultura e alla cultura di massa indicano come l'esperimento surrealista si sia sviluppato e abbia ottenuto risultati in forme e in luoghi inaspettati. Questi luoghi e queste forme sono gli alleati di Kelley, dal momento che le istituzioni artistiche hanno ridotto il Surrealismo ad un cumulo di rifiuti kitsch. Ma anche questo non corrisponde esattamente alla verità. Infatti, più Kelley va avanti, più ritrova l'impulso surrealista che si ripete all'interno del canone, come qualcosa che, dopo essere stato represso, tenta di rialzare la testa. Si raggiunge così una sovrapposizione di idee sulla quale lo stesso Kelley indulge occasionalmente, e che ritengo centrale per la comprensione della sua opera. Si tratta della sovrapposizione tra repressione (messa in atto per preservare un'identità stabile) e sublimazione (sulla quale si fonda la civiltà). Ciò che è represso è destinato a riemergere. Non c'è alternativa. Invece, ciò che è sublimato viene trasformato. E si trasforma nell'impeto che porta alla creazione di un'opera significativa. Kelley non cerca di de-sublimare nuovamente i lavori che, per essere significativi, sono stati trasformati; il suo lavoro ha a che fare proprio con questa specifica trasformazione, come tutte le opere d'arte dovrebbero fare. Kelley individua aree e prodotti culturali che si dichiarano come gesti sublimatori, ma che in realtà rappresentano ipocrisie repressive. Di fronte a queste forme di repressione neo-conservatrice, Kelley non mostra alcuna pietà. Un esempio particolare di questa strategia, che consiste nell'esporre la repressione che si camuffa da sublimazione, si può trovare nell'uso che Kelley fa del linguaggio del formalismo, così come esso si è sviluppato in opposizione al paradigma riduttivo di Clement Greenberg.

L'opera di Kelley è in parte costruita sulle perversioni crescenti della dottrina formalista. Ci sono centinaia di artisti che hanno trattato soggetti e temi che Kelley ha reso quasi canonici (punk, sci-fi, produzione sub-culturale, regionalismo, etc.), eppure la maggior parte di questi artisti si sono limitati ad integrare tali temi in una matrice minimalista e formalista astratta, ben prima di Kelley. Claus Oldenburg costituisce un esempio, anche se gran parte della pop art può essere vista in questo senso. La novità della pop art era l'introduzione, all'interno di un linguaggio formalista, di soggetti e metodi di riproduzione che appartenevano alla cultura di massa. Citerò nuovamente Kelley a proposito del ritorno neo-conservatore verso i modelli tradizionali formalisti:

"Ci troviamo in un momento davvero super-neo-formalista, che però opera all'interno di un canone pop. Lo stile formalista circola molto attraverso i clichè associati alla cultura pop. Ci sono moltissimi artisti che adottano un approccio formale post-minimalista, ma invece di usare materiali grezzi, usano materiali derivati dalla cultura di massa. Così Damien Hirst usa una struttura alla Dan Graham riferendosi alle pubblicità farmaceutiche, oppure Cady Noland proietta il National Enquirer attraverso una struttura che ricorda il lavoro di Nauman. Credo che Cady Noland sia una brava artista, ma questo tipo di pratica è già molto diffuso. È strano, perché ho sempre pensato che mescolare pop e formalismo fosse una parte molto importante del mio lavoro, ma in confronto a quello che sta succedendo adesso, il mio lavoro è arcano." (2)

Chiaramente, quando denigra il proprio lavoro in confronto al pop neo-formalista, Kelley sta indulgendo in un atteggiamento retorico. Possiamo supporre che lui sia del tutto conscio del fatto che questo tipo di arte assume una posizione di regressione in direzione di quel post-moderno che lui prudentemente evita. Di fatto, l'opera di molti giovani artisti neo-formalisti pop, pur se non adotta in maniera superficiale le sue tematiche, ha poco a che vedere con l'approccio di Kelley. Nell'opera di Kelley, la combinazione di pop e formalismo si rivela come contraddizione intrinseca, mai come punto di stallo. Kelley affronta i suoi soggetti rispettando non solo il loro proposito, ma anche la loro ricezione critica e storica. La sua opera non mostra il fallimento degli ideali modernisti, né la banalità delle forme culturali di massa. Piuttosto l'artista si destreggia tra questi due poli, rifiutandosi di trovare una posizione che possa dare fine al dialogo. Ovviamente è una posizione precaria, un passo falso in ognuna delle due direzioni finirebbe per creare una specie di lezione didattica a conclusione della storia. Il neo-formalismo pop opera in maniera molto diversa. Partendo dal presupposto che tutti i punti di riferimento sono ridotti allo stato di segni, l'approccio neo-formalista pop tratta questi segni come elementi di design all'interno di uno schema neo-conservatore che si fonda sulla nostalgia e sul pastiche. Il neo-formalismo pop evita le contraddizioni intrinseche nel proprio pastiche di forme e procede direttamente verso il paradigma formalista della variazione su tema. Il minimalismo a cui si fa riferimento nel lavoro di Banks Violette o Sterling Ruby non è il minimalismo dell'espansione percettiva sperimentato da Judd o LeWitt. Piuttosto è il minimalismo dei designers d'arredamento che seguirono le loro orme, per i quali è stato più utile ridurre quel movimento allo stato di segno. Certo, si potrebbe sostenere che questa semplificazione sia il vero soggetto del pastiche neo-formalista, e che attraverso il suo smascheramento ci si volesse rifare agli ideali perduti del formalismo. Tuttavia, questa tesi sembra inverosimile di fronte a forme così stilizzate. E c'è anche un'altra ragione per questo. Nel caso di Rachel Harrison, l'appropriazione di alcuni elementi del lavoro di Kelley ha l'effetto di far apparire le sue complesse negoziazioni come se fossero esse stesse un segno, superando quindi l'influenza di Kelley attraverso l'abbandono completo del suo progetto. Ma visto che c'è un'altra maniera di vedere il suo lavoro, che si manifesta solo una volta che lo si è osservato attentamente, Harrison potrebbe rappresentare un'eccezione. Più d'ogni altro artista citato in questo articolo, quello di Harrison è un lavoro che ripercorre quello di Kelley, così come quello di un contemporaneo di Kelley, John Miller. Questa somiglianza è consapevole, e quando si manifesta spinge ad analizzare i vari aspetti materiali dell'opera seguendo le linee dettate dal lavoro di Kelley e Miller. Ossia cercare contraddizioni e conflitti all'interno della scultura. Visto che Kelley e Miller hanno impiegato materiali simili, oggi esiste un programma attraverso il quale crediamo che quei materiali debbano essere interpretati. Seguendo questo assetto mentale ci si potrebbe domandare, "Quale relazione intercorre tra Sister Wendy e questa forma grumosa (due elementi di una particolare opera di Harrison)? Come si oppongono l'una all'altra? Qual è il quadro storico che le accompagna?" Ma Harrison è ben cosciente del fatto che i suoi materiali richiedono una decostruzione. Vengono scelti con questa consapevolezza. Eppure Harrison taglia il "nodo gordiano" dell'approccio decostruttivo, e per farlo usa il formalismo come spada. La sua opera può essere considerata in dialogo con l'approccio decostruttivo all'interpretazione, attraverso l'imperativo della continua mortificazione della decostruzione.

Quello del neo-formalismo pop è un modello che ignora, o mette in ombra, le novità principali dell'opera di Kelley e crea una situazione in cui le sue innovazioni estetiche diventano di moda (accessibili). Eppure, in realtà, l'opera di Kelley non può mai dirsi alla moda. Infatti essa svela spesso le basi di ciò a cui si relaziona, in modo semplice, così come sono. A causa dell'immensa popolarità e dell'influenza esercitata dai lavori di Kelley, il mondo della moda ha spesso cercato di assimilarne i tratti, senza mai riuscirci del tutto. Questa è una grande vittoria per l'opera di Kelley, visto che sotto molti aspetti il mondo della moda ha assunto in relazione all'arte il ruolo che prima apparteneva all'industria pubblicitaria: un ruolo di perenne appropriazione e de-sublimazione.

Il lavoro auto-riflessivo antropologico tende invece a prendere in parola Kelley. E la sua parola consiste nell'invito ad un rigoroso regionalismo critico, ossia allo sviluppo di nuove forme culturali che non diano per scontato né il successo, né il fallimento, del progetto modernista. Al contrario, gli artisti auto-riflessivi antropologici tentano di creare opere che superino le forme regionali senza ricorrere alla nostalgia per le forme storiche (tradizionalismo) o al pastiche di forme moderniste già istituite, che vengono introdotte all'interno della cultura regionalista con lo scopo o di "aggiornarne" o desublimarne il significato.

Nel caso di Cory Arcangel, una successione infinita di sottoculture on-line vive ed allo stesso tempo è soggetta a critica. Tuttavia, l'opera di Arcangel non può essere ridotta ad una tradizionale forma di antropologia di Internet. Una simile definizione implicherebbe una distanza oggettiva dai suoi soggetti. Se è vero che gli interventi di Arcangel mantengono una certa oggettività, nel suo lavoro il concetto di distanza è continuamente ridefinito. Certe volte l'artista prende in giro gli impulsi tecno-feticisti che guidano le sue stesse derive, utilizzando i mezzi di produzione creativa più aggiornati (e decaduti) in modi che rivelano al loro interno la propria lotta per diventare moderni. (3)

I video e le installazioni di Ryan Trecartin, estremamente popolari, sono più simili alle opere che Kelley cita, piuttosto che alle sue opere personali. Faccio questa distinzione perché Trecartin non si sofferma molto spesso su polemiche o giochi strutturali. Tutto ciò ha portato i suoi critici a screditare il suo lavoro in quanto naif o in quanto forma di pastiche. Al contrario dell'opera di Kelley, il lavoro di Trecartin non emerge da una relazione problematica con il modernismo e il post-modernismo. Nonostante questo, è importante riconoscere che è proprio la revisione critica proposta da Kelley, a proposito di personaggi come Jack Smith e Paul Thek, che sta alla base dell'interpretazione critica di Trecartin. I suoi video, così come la natura processuale delle sue installazioni, sono frutto del dubbio nei confronti dell'individualismo e dell'autorialità, e della fiducia nei confronti dell'impegno collettivo. Queste opere vogliono riproporre la cultura dei prodotti di massa per lo stesso fine. Come nel caso di Arcangel, la tecnologia come mezzo di produzione e di comunicazione viene continuamente rivolta contro se stessa. Telecamere, cellulari, computer, strumenti di montaggio e vari mezzi di distribuzione ed esposizione, ricorrono sia nei video che nelle istallazioni, come soggetti e come proposizioni. Nel caso di Trecartin tuttavia, questo non è mai il tema centrale dell'opera. Piuttosto, si tratta di un incidente di percorso, il risultato di un metodo lavorativo volto alla ricerca di un equilibrio tra esperienza vissuta e distacco, oggettività ed estetica. Nell'opera di Trecartin, l'auto-riflessività non è un fine a sé, né si tratta di un bastone capitato fra le ruote della coerenza narrativa.

Infine, c'è l'opera di Stephen G. Rhodes. Sotto molti aspetti Rhodes è più vicino al modello di Kelley, rispetto agli altri. Il suo lavoro è sia tematico che politico, e nel suo caso l'auto-riflessività agisce in opposizione a questi aspetti. Rhodes mette in atto uno storicismo ironico, affrontando temi come la guerra civile, la schiavitù, e gli scandali politici del momento. Tuttavia, le sue opere non trattano questo materiale con oggettività. Le installazioni di Rhodes adottano versioni già mediate delle storie scelte dall'artista e così facendo pongono la domanda "quali altre versioni esistono?" Rhodes dà per scontato che le narrazioni storiche sono tutte condizionate e sfrutta perversamente questa mediazione come fosse una licenza poetica che si presta alle sue manipolazioni. In questo Rhodes segue le orme di personaggi come Brion Gysin, Samuel Beckett e Bruce Nauman. Queste figure avevano influenzato molto anche Kelley. Come nel caso di Kelley, sarebbe uno sbaglio giudicare l'opera di Rhodes semplicemente come cinica o come un altro esempio di negazione punk. Quello che è rappresentato nelle sue sculture, nei suoi video e nelle installazioni non è un rifiuto, né una fuga. Si tratta piuttosto di una rappresentazione della dissonanza che esiste tra le visioni desublimate in modo repressivo, che mostrano la nostra società come "il migliore dei mondi possibili" al fine di mantenere lo status quo, e quelle che vorrebbero rappresentare in maniera conveniente gli eventi attraverso le lenti dell'oggettività, liberandosi quindi della propria responsabilità rappresentativa.

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1. From an interview with Robert Storr in ArtForum, on Eye Infection
2. From an interview with Dennis Cooper in ArtForum, Trauma Club
3. John Miller on Christopher Williams' Mechanization Takes Command