Viatico (2007-2010) Anno XIII Numero 55 dicembre 2009 - gennaio 2010
Nell’universo di Gilbert & George la prima persona singolare non esiste.
Dal loro incontro a metà degli anni Sessanta fino ad oggi, il loro mondo moderno in continua accelerazione è imperniato sull’asse centrale che li unisce, creando uno spazio simmetrico che i due artisti portano con sé a prescindere dal medium attraverso cui si esprimono.
Un dualismo, il loro, che non attiene semplicemente al gioco identitario che Gilbert & George inscenano ogni istante della loro vita –se si trovano all’aeroporto di Tokyo o nella hall di un albergo a Los Angeles- ma investe soprattutto la struttura più intima del loro fare estetico.
Guardando le loro opere sentiamo il gelo delle strade umide delle notti londinesi, la fretta degli estranei che si urtano nella City, i cieli plumbei e monotoni delle giornate uggiose, nonché il temperamento scontroso e vivace del mondo giovanile, per non parlare dell’indolente fluidità delle folle.
Il paesaggio contemporaneo che si schiude davanti ai nostri occhi non è che squallida arteria usurata, sfiorata da un lacero lembo di natura inquinata da pubblicità e messaggi di ogni sorta. Tuttavia, non mancano attimi di intima quanto silenziosa serenità, come se Gilbert e George fossero miracolosamente riusciti a mostrare un mondo affrancato dal tempo.
Infatti, se intanto le loro figure hanno letteralmente “invaso il campo” –partecipanti e vittime, testimoni e veggenti della contemporaneità– l’esperienza umana che viene decritta oscilla puntualmente tra individuale e collettivo, tra eroismo e umiliazione, tra ipertrofia dell’ego e degradazione del sé.
In questo senso, possiamo dire che l’arte di Gilbert & George esplora quel confine invisibile che divide il mondo cosiddetto reale dalle strutture più intime e oscure delle nostre percezioni; di qui anche la lettura allegorica e alle volte volutamente parossistica di questi due – si fa per dire- interpreti dei nostri giorni.
Il lessico metropolitano –slogan politici, segnaletica stradale, annunci scritti a mano, etc.-, direi spiccatamente british anche in questa mostra, analogamente contengono aggressività e tenerezza, distruzione e speranza, alle volte addirittura amore.
D’altronde come loro stessi amano dire: “tutto è già scritto nella polvere e nella sporcizia delle strade”, naturalmente quelle di Fournuer street, nell’est-side londinese, dove vivono e lavorano da sempre.
Il microcosmo londinese diventa così archetipo della metropoli occidentale, attraverso i suoi murales, i suoi manifesti e cartelloni pubblicitari decifriamo messaggi religiosi, politici e addirittura metafisici, sempre di respiro assolutamente globale.
Come ha scritto qualcuno “La loro arte è tanto inglese quanto l’Inghilterra è globale”, e questa idea del mondo riflesso nella sua interezza in un microcosmo è sempre presente nella loro opera, anche quando si concentra su un dettaglio minuscolo, addirittura microscopico, forse a voler suggerire che la parte esprime la medesima complessità del tutto.
In ogni caso, la loro arte tiene sempre nervosamente il passo con l’urgenza e la vastità dell’esistenza urbana, registra gli eventi della vita quotidiana sempre con l’intento di esprimere la costante tensione tra istinto e azione, indifferenza e offesa che sempre affiora prepotentemente nelle nostre strade.
Un’antropologia, dunque, di nuovo conio che riabilita la banalità del quotidiano per svelarne un senso più profondo e delle volte più inquietante.
Forse qui, risiede la forza di questo inseparabile quanto inossidabile duo artistico che da anni continua a farci sorridere di noi stessi.