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Viatico (2007-2010) Anno XIII Numero 52 marzo-aprile 2009



L'Immaginazione concreta di Paolo Bresciani

Davide Auricchio



Bimestrale d'arte e cultura contemporanea a cura dell'Associazione Culturale


Continua Viaggio sulla terra ed oltre alla ricerca del sè artistico individuale e colletivo, Bollettinao di viaggio n. 52 (marzo- aprile 2009) sempre più ricco di novità e di approfondimenti.

per questo numero che verrà presentato al grande pubblico in occasione della grande fiera di arte contemporanea di Roma e del Miart di Milano apre con una Copertina di sicuro interesse, stiamo parlando delle suggestive quanto significative fotografie di Ruud Van Empel che descrivono in maniera originalissima alcuni tratti tipici della cultura sud-africana. Dai colori vivaci e dai giovanissimi soggetti queste foto alludono, senza rinunciare mai all'ironia, al tentativo sempre vivo nell'Occidente di omologare le "culture altre".

Lo Speciale di questo numero, diversamente, viene dedicato ad una giovane quanto promettente artista italina ovvero Sonia Ceccotti, il testo puntuale e accurato porta la firma di Barbara Meneghel e ci parla dell'ultimo ciclo di opere dell'artista dal titolo "faccie riciclate" che sarà presentata presso il beneventano GiaMaArt di Gianfranco Matarazzo a partire dal 28 marzo.

La Rubrica degli Approfondimenti vede protagonisti "L'artista in Gabbia" di Eleonora Capuozzo e betty bee ed un curioso reportage dal newyorkese Armory Show 2009 a cura del Vicedirettore Fabrizio Tramontano.

Ed ancora, un Paginone di straordinaria eleganza di un grandissimo artista di recente scomparso ovvero “Paolo Bresciani, testo critico di Davide Auricchio, direttore editoriale della testata.

Come al solito non mancano recensioni e news provenienti da ogni angolo del globo.
Viatico è nei migliori centri della produzione e diffusione del contemporaneo in Italia...cercatelo!
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Spesso si è inclini a pensare che l’immaginazione sia qualcosa di astratto e intangibile, come una capacità rara e avulsa dalla realtà del mondo, dalla cruda fenomenologia dell’esistente.
L’etimo stesso della parola (dal lat. imaginatio¯ne) suggerisce un’associazione immediata con quella facoltà di concepire nella fantasia e di accostare liberamente immagini, concetti e pensieri. Vi sono, poi, espressioni come “frutto di immaginazione” o “abbandonarsi all’immaginazione” e ancora “è una sua immaginazione” che rafforzano il senso di qualcosa di arbitrario o comunque scevro da qualsiasi regola. D’altronde il noto slogan del Sessantotto “immaginazione al potere”, intriso di echi romantici, suona chiaramente come un invito perentorio a sovvertire le regole, a liberare l’uomo dalla “gabbia” di una società iper razionale.
Tuttavia, lo stesso Guy Debord, lui che del Sessantotto fu uno dei padri più nobili, amava sottolineare, forse per il semplice gusto di provocare, che non vi fosse qualcosa di più immaginifico del “quotidiano”. Provocazione talmente riuscita da diventare il leit-motiv di tutta una generazione di artisti che aspirava a fare della propria vita l’unica e vera opera d’arte. Di qui la riduzione dell’opera a mero “feticcio” e l’inizio della stagione comportamentale (la cosiddetta Body-Art) con la nascita della performance e con i gesti estremi di un Lucio Fontana impegnato ad azzerare definitivamente il confine tra arte e vita, o di un Piero Manzoni che lasciava assurgere allo statuto di opera addirittura i suoi escrementi.

Ma, se quella stagione fu, soprattutto in Italia, uno dei momenti più alti della sua storia artistica, vi fu chi adoperò la propria immaginazione con intenti meno ideologici e forse più pragmatici, comunque nella stessa prospettiva di una trasformazione radicale dell’esistente.
Basti pensare a Bruno Munari, figura leonardesca tra le più importanti del Novecento italiano.
Sono gli anni del boom economico in cui nasce la figura dell’artista operatore-visivo che diventa consulente aziendale e che contribuisce attivamente alla rinascita industriale italiana del dopoguerra. Munari partecipa giovanissimo al movimento futurista, dal quale si distacca con senso di levità ed umorismo, inventando la Macchina Aerea (1930), primo mobile nella storia dell’arte, e le Macchine Inutili (1933). Verso la fine degli anni ‘40 fonda il MAC (Movimento Arte Concreta) che funge da catalizzatore delle istanze astrattiste italiane prospettando una sintesi delle arti in grado di affiancare alla pittura tradizionale nuovi strumenti di comunicazione, e di dimostrare agli industriali la possibilità di una convergenza tra arte e tecnica. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni della storia dell’arte, quasi coeva, benché precedente, all’Ambiente Nero di Lucio Fontana.
Ebbene, qualcuno si domanderà con un certo disappunto: ma cosa c’entra tutto questo discorso con Paolo Bresciani, artista napoletano di recente scomparso?
Per quanto esagerato possa apparire ai più distratti, Paolo Bresciani è stato tra i continuatori più fervidi e agguerriti di quella problematica a cui fin qui abbiamo accennato, ovvero quella di attuare una sintesi tra arte tradizionale e nuovi strumenti della comunicazione nella direzione di una convergenza tra arte e tecnologia, o se preferite, tra arte e scienza.
Chi come me conosce il suo straordinario quanto coerente percorso artistico si renderà conto che quanto dico non è, tanto per ritornare all’incipit, “frutto della mia immaginazione”, piuttosto realtà concreta. Come “concreta” era l’immaginazione di questo artista che sin dai primi passi nel mondo dell’arte si guadagnò subito l’attenzione e la stima di personaggi del calibro di un Alighiero Boetti, di un Gino De Dominicis, di un Lucio Amelio senza dimenticare quel genio sovversivo che fu Piero Lo Sardo ideatore del “Male”, irripetibile capolavoro satirico.

Di questi uomini Paolo Bresciani fu amico fraterno e di loro, dopo la scomparsa, si sentì sempre orfano tanto che amava raccontare aneddoti memorabili. D’altronde fu proprio Alighiero Boetti a suggerire una personale di Paolo Bresciani negli storici spazi della Galleria Lucio Amelio dal titolo “Ombre. Tute virtuali” (1990). Un successo annunciato che decretò la fama dell’allora giovanissimo artista napoletano. Si trattava di quadri fatti con sagome di carta colorata su fondo nero, particolare questo che diventerà una costante nel lavoro dell’artista, quasi a voler sottolineare una dimensione assoluta delle figure e degli oggetti. Uno spazio infinito che se da un lato può essere letto come espediente tecnico per rendere la profondità dall’altro pare alludere ad un vuoto primigenio e insondabile da cui tutto ha misteriosamente origine.
Se dunque, già a questo primo debutto l’artista opera le prime forme di sperimentazione sulla figura e gli oggetti nell’intento di rilevarne la vera “essenza”, nelle mostre a venire il gioco di ricombinazione degli elementi del reale si fa più complesso nonché più rigoroso, definendo in maniera sempre più chiara l’intento programmatico da cui muove.
È così che nel volgere di appena due anni, in occasione della personale presso la Galleria In Arco di Torino dal titolo “Frattali” (1992), Paolo Bresciani approda alla visualizzazione delle immagini frattali allo scopo di elaborare un differente universo visivo. In perfetta sintonia con le nuove frontiere della fisica, l’artista napoletano denuncia l’assoluta impossibilità di osservare la natura attraverso l’ordinaria geometria euclidea ma allo stesso tempo rigetta qualsiasi banalizzazione del reale come semplice “dominio del caos”. Sulla scia di Mandelbrot, primo a definire il frattale matematico, Bresciani assembla oggetti e figure delle più disparate scale e strutture secondo il principio organizzativo dell’autosomiglianza. A ribadire che anche il più piccolo dettaglio è dotato della medesima forma della struttura complessa che gli corrisponde; il passaggio da una prospettiva quantitativa ad una qualitativa è evidente, così come quello dall’omogeneità all’eterogeneità.

Di qui la nascita della fortunatissima serie “Agenti Interfaccia”, l’artista partenopeo stupisce pubblico e critica utilizzando per primo la tecnica del morphing, tecnica che gli permette di dare piena attuazione al suo programma di ridefinizione dell’intero procedimento linguistico che sta alla base dell’opera d’arte. A rendere ancora più suggestiva la sperimentazione è il gioco identitario che Bresciani innesca utilizzando la propria immagine e fondendola con ogni sorta di essere vivente o immaginario che sia: “Io pinocchio”, “Io scimpanzè”, “Io ape”. “Io Dracula”.
Il passaggio dal bianco e nero all’utilizzo di colori vivaci ed acidi segna un’ulteriore evoluzione della ricerca che accoglie sempre di più le istanze post-cibernetiche che nel frattempo emergono prepotentemente nello scenario culturale di quegli anni. Così come si palesa sempre più chiaramente una certa insofferenza per certe differenziazioni canoniche: ogni distinzione tra pittura, disegno, computer grafica, video, fotografia ed altro è assolutamente bandita piuttosto l’arte come sfera linguistica partecipa della medesima complessità interattiva e mutazione genetica del sistema universale.
Alla stregua di un William Burroughs – ma di echi letterari, come vedremo, ve ne sono diversi – Bresciani crea un universo fatto di varianti contenutistiche e di continue forme ritornanti costantemente ispirate al dato esistente. Di qui la creazione di mostruosi ibridi, esseri che al pari di certi mitologemi classici più che alludere alla dimensione del fantastico e dell’onirico sembrano piuttosto voler suggerire le infinite quanto insondabili potenzialità dell’essere. Stesso discorso vale per gli oggetti dove il processo di ibridazione e il riferimento alla mitologia assumono il significato di una vera e propria speculazione ontologica, basti ricordare solo qualche titolo per farsene un’idea: “Il mirino di Apollo”, “La piuma di Cassandra”, “Le frecce di Cupido”, “La pistola di Pan”.

Paolo Bresciani rivela ormai una insospettata forza concettuale, per farsi, parafrasando Nietzsche, “Filosofo con il martello”, ovvero artista che da forma concreta al suo pensiero con un rigore ineccepibile. D’altronde l’espediente formale della simulazione permette la creazione di una realtà parallela dove le possibilità interpretative sono infinite, e così le loro rappresentazioni. Nascono in questo periodo i memorabili “Moggetti” presentati in mostra prima a Prato (1993), poi a Torino (1995) ed infine a Napoli (1996) in occasione di una mostra antologica presso l’Istitut Francais “Grenoble” interamente dedicata al morphing. Procedimento, quest’ultimo, che l’artista pur utilizzando sempre con piglio scientifico (modelli biologici e matematici), si apre a soluzioni più audaci e di grande forza creativa: ecco che la coppa si fonde con la trottola, il pallone con la biglia, così il libro con il telecomando, diventando semplicemente “altro da sé”. Analogamente il volto dell’artista, come già accennato, si presta ad infinite varianti mimetiche di impressionante impatto visivo.
Ma, tutto il discorso sulla manipolazione non si comprende a pieno senza sottolineare alcune decisive implicazioni con il tema del doppio, di duchampiana memoria, letto da una prospettiva fortemente riconducibile al clima concettuale italiano: soprattutto ad Alighiero Boetti, di cui, come già detto, Bresciani fu amico prediletto, ma anche a Giulio Paolini da cui l’artista napoletano trasse molte suggerimenti circa le potenzialità sciamaniche dell’arte.

A questo proposito, è utile ricordare che Paolo Breciani oltre a prediligere la letteratura di William Burroughs e di Philip Dick, insieme alle teorie cyber-punk di un William Gibson, era un cultore di saggistica. In particolare voglio ricordare due libri che erano sempre a portata di mano nella sua casa di Todi, e che penso abbiano costituito per lui un bagaglio teorico fondamentale: si tratta di “Medioevo Fantastico, antichità ed esotismo nell’arte gotica ” e di “Uscite dal mondo”, rispettivamente di Jurgis Baltrusaitis ed Elémire Zolla.
Tuttavia, sulla medesima linea concettuale possiamo collocare anche i lavori più recenti e in particolare la serie delle “Formiche” ovvero, come scrive Gaia Salvatori: “quegli speciali organismi che Bresciani costruisce a partire da una lampadina, una stringa, una matita, o qualunque altro piccolo oggetto comune che, grazie all’apporto della plastica colata, si metamorfizzano in sculture allusive ad organismi viventi come le formiche”. Indimenticabile l’installazione “Mille formiche” (2002) nel teatro romano di Cassino, dove l’artista contamina lo spazio storico-monumentale con questi piccoli ma infaticabili intrusi.
Ed eccoci giunti alla fine di questo itinerario artistico ed esistenziale con l’ultima mostra di Paolo Bresciani significativamente intitolata “Esercizi spirituali”, allestita negli spazi barocchi della chiesa Croce di Lucca, nel cuore del Centro Storico napoletano. Quattro video in looping mostrano delle figure umane interagire con alcuni luoghi topici della città: i vicoli, le antiche rovine di Cuma e di Bacoli, la dolce collina di Posillipo. La scelta dei luoghi non è casuale così come quella dei personaggi che si muovono al centro della scena.
Una topografia interiore ed emotiva che assume il significato di un ultimo poetico omaggio alla sua città e ai suoi amici più cari.