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Mousse Anno 5 Numero 22 febbraio-marzo 2010



Strange love

Chiara Leoni

Intervista a Lars Laumann





Index:

ALEX HUBBARD
Bringing It To The Table
by Anthony Huberman

ISA GENZKEN
Out To Lunch With Isa Genzken
by Simon Denny

STEPHEN SUTCLIFFE
Media And The Poet
by Ana Teixeira Pinto

MANUEL GRAF
Portfolio
by Kirsty Bell

PAWEL ALTHAMER
Part of The Process
by Francesco Manacorda, Suzanne Cotter, Alex Farquharson, Andrea Viliani

HARK!
The Artwork Without Us
by Jennifer Allen

RASHAAD NEWSOME
Throwing Shade
by Luigi Fassi

REPRINT
Pdf
by Stuart Bailey

GUY DE COINTET
Lost And Found
by Matthew Brannon

NEÏL BELOUFA
Slide Show
by Neïl Beloufa with Andrew Berardini

LARS LAUMANN
Strange Love

by Chiara Leoni

TALKING ABOUT
A Dog, A Cat, A Rabbit And A Rat Walked Into The Giardini...
by Dieter Roelstraete, Monika Szewczyk

STEPHEN PRINA
Artist Project

Through A Dor Named Aesthetics The Subject Once Entered. And Now ?
by Stefan Heidenreich

NEW YORK / ERICA BAUM
Dog Ear Poems
by Cecilia Alemani

LOS ANGELES / KELLY NIPPER
We Like To Move It, Move It
by Jens Hoffmann

PARIS / ETIENNE CHAMBAUD
The Potential Of Misunderstanding
by Francesca Di Nardo

BERLIN / JUDITH HOPF
Hey Produktion!
by Stefania Palumbo

LONDON / JULIETTE BLIGHTMAN
Being Hidden, Seeing Life
by Gregorio Magnani

DIARY
by Francesca Pagliuca

BOOKS
by Stefano Cernuschi

IDA EKBLAD
Pure Energy, Deep Poetry
by Gigiotto Del Vecchio

Raising the Phantoms of Empire Post-Colonial Discourse in Recent Artists’ Films
by Katerina Gregos

DANILO CORREALE
Introducing
by Roberta Tenconi

PHILIP WARNELL
The Meaning Of The World Outside The World
by Andrea Lissoni

YAEL BARTANA
Our Own National Demons
by Sebastian Cichoki
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Dora Budor
Kathy Noble
n. 49 estate 2015

We don't need a dislike function: post-internet, social media, and net optimism
Andrew Durbin
n. 43 aprile-maggio 2014

The Screen as the Body
Elisabeth Lebovici
n. 32 febbraio-marzo 2012

Chantal Akerman
Elisabeth Lebovici
n. 31 dicembre 2011-gennaio 2012

Geoffrey Farmer
Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


Lars Laumann,
Morrissey Foretelling the Death of Diana, 2006
Courtesy: Maureen Paley,London

Benjamin A. Huseby and Lars Laumann
You Can’t Pretend to Be Somebody Else - You Already Are, 2009.
Courtesy: the artists

Benjamin A. Huseby and Lars Laumann
You Can’t Pretend to Be Somebody Else - You Already Are, 2009.
Courtesy: the artists

Avevamo incontrato la moglie del Muro, Eija-Ritta, nell’ultima biennale di Berlino. Nessuno avrebbe creduto alla storia totalmente inverosimile di una donna che s’innamora di un muro, se il documentario – tanto convincente quanto delicato – di Lars Laumann non avesse schiuso la porta di un mondo di sentimenti tanto particolari quanto universali. L’artista norvegese riesce, attraverso una rara capacità empatica, a dimostrare, toccando temi e sentimenti complessi, come non ci sia niente di anomalo nelle ossessioni e nell’eccentricità.


Chiara Leoni: Il tuo ultimo lavoro You Can’t Pretend To Be Somebody Else – You Already Are (in collaborazione con Benjamin Alexander Huseby) è una tripla videoproiezione dove tre decenni della vita di Nico sono ritratti da performer travestiti. Mi diresti qualcosa circa la genesi, lo sviluppo e la scelta degli attori dal collettivo drag House of Egypt per impersonare Nico?
Lars Laumann: Si tratta piuttosto di tre Nico da tre diversi decenni che ritraggono i suoi ultimi giorni. Nico è morta a Ibiza nel 1988. La sua esistenza è stata così caotica, vissuta in mille posti, e tuttavia è sempre tornata a Ibiza, fin dall’adolescenza. Quasi alla fine della sua breve vita, quando le veniva chiesto se avesse rimpianti, rispondeva: “Il mio solo rimpianto è di non essere nata uomo”. La gente tendeva a giudicarla molto: aveva abbandonato suo figlio ed era una tossica autoindulgente. Ma se ci pensi bene, aveva solamente vissuto la vita della rock star. Tuttavia, dal momento che era una donna, veniva vista diversamente. La gente non la glorifica come fa per Iggy Pop, Lou Reed o Jim Morrisom, con cui tra l’altro ebbe delle relazioni. Le voci fuori campo non sono degli House of Egypt, ma letture di due attori tedeschi, Immo Kronenberg e Daphne Detraque. La scelta di attori maschi per il ruolo è venuta spontaneamente, dopo aver terminato la sceneggiatura. Conoscevamo gli House of Egypt, e non vedo perché avremmo dovuto guardare altrove, quando erano perfetti per quei ruoli.

cl: Il tuo lavoro ha la capacità di trascendere l’occasione e toccare tematiche e sentimenti complessi. Lo spingi in questa direzione, o accade perché hai sensibilità verso i soggetti e quindi capacità di empatizzare con loro?
ll: Grazie per averlo sottolineato. Senza empatia, non potresti confrontarti con problematiche complesse come queste. Occorre non solo immaginare quello che il soggetto prova, ma empatizzare anche con il materiale, le riprese, le foto, gli oggetti. L’immagine vuole essere vista? Quello che mi spinge verso un argomento, o una storia, è l’universalità della sua unicità, e che è possibile vederla da molte prospettive e trovarle molti significati. Non mi piace dare allo spettatore una soluzione chiara o una semplice via d’uscita. La mia idea è di produrre lavori che possono essere visti in molti modi, così quando mi confronto con storie difficili o inusuali si creano reazioni nell’audience fuori dal mio controllo. Per esempio, sono rimasto sorpreso, ma molto felice, di vedere quanti film festival LGBT volessero mettere in programma Berlinmuren dopo che era stato mostrato per la prima volta alla Biennale di Berlino. Perché, per me, questo lavoro riguarda tanto la liberazione sessuale, quanto la relazione con gli oggetti e l’arte. Non voglio scioccare deliberatamente, ma le storie felici sono banali, sono quelle tragiche ad essere interessanti.

cl: Shut Up Child, This Ain’t Bingo è un video di un’ora che documenta la relazione fra l’artista norvegese Kjersti Andvig, che è anche una tua amica, e un prigioniero nel braccio della morte in Texas, Carlton Turner. Il video è emotivamente provocatorio e, in qualche modo, sconvolgente, almeno per me, finché non ho iniziato a vederlo come un viaggio interiore (sconcertante, a tratti) di scoperta in cui Kjersti impara qualcosa sull’amore e i valori più autentici. Quando hai deciso di documentare la relazione fra i due, e che significato dai a questo lavoro? Ha ricevuto reazioni differenti quando è stato presentato da Maureen Paley l’anno scorso?
ll: Volevo che il lavoro fosse sconvolgente. Si tratta di un lavoro molto personale; coinvolgere lo spettatore e farlo sentire a disagio era un modo forte di raccontare l’orrore che ha luogo in Texas. Chiunque abbia perso una persona cara può capire parte di quello che Kjersti ha passato, ma pochi possono capire la disperazione che provoca sapere esattamente la data e l’ora in cui la persona che ami verrà uccisa. Questo lavoro si differenzia dai precedenti. Avevo la storia tracciata prima d’iniziare. Noi tutti sapevamo che Carlton sarebbe stato ucciso prima della fine dell’estate. Questa è la mia versione di quello che è successo, Kjersti e Carlton avrebbero potuto fornire versioni diverse, così come James Bluemel, il filmmaker inglese che è stato così gentile da intervistare Carlton per me e tanto generoso da darmi parte del suo girato. La morte non è mai dignitosa e in queste condizioni in Texas l’hanno trasformata in qualcosa di grottesco oltre ogni comprensione. Dal momento che negli Stati Uniti avevano bloccato le esecuzioni per sei mesi, ma reiniziato mentre stavamo filmando, dovevano “recuperare”. L’estate del 2008, Huntsville, in Texas, è stata un mattatoio.

cl: Berlinmuren, presentato alla scorsa Biennale di Berlino, ritrae una donna che si è innamorata e ha “sposato” il Muro di Berlino. La delicatezza del tuo lavoro fa simpatizzare lo spettatore con la strana parafilia di Eija-Riitta, dal momento che il muro diventa sempre di più un’amichevole barriera contro la complessità e intensità delle emozioni umane. Come si è sviluppato il lavoro nella tua mente, e come hai persuaso la protagonista a collaborare?
ll: L’artista norvegese Lina Viste Groenli mi ha mostrato la pagina web di Eija-Riitta nei tardi anni Novanta. Ero sbalordito. Non credevo che fosse vero. Ma ho contattato Eija-Ritta e scoperto che c’era una persona vera dietro alla più tragica delle storie d’amore. Negli anni, fino a che non mi è stato possibile completare il lavoro, ho continuato a visitare Eija-Riitta nel nord della Svezia. Credo che, in un certo senso, fossi diventato un fan. Le sue idee e la sua compassione erano molto più autentiche di quanto vedessi nel mondo dell’arte. Ad un certo punto, siamo diventati amici, e ho messo da parte più di cinquanta ore di girato che non ho usato. Alla fine ho capito che la storia non meritava di essere raccontata attraverso un documentario convenzionale, ma piuttosto come un “manifesto dell’oggetto sessuale”.

cl: Questo lavoro è anche una sorta di “elegia ai recinti”... queste strutture orizzontali sono ritratte in maniera ricorrente in diapositive, con una colonna sonora melanconica, una ruvida melodia per chitarra elettrica. Inoltre, una melodia in loop crea un contrappunto ipnotico alla lista verbale di prove in Morrissey Foretelling the Death of Diana. Come hai concepito le colonne sonore di questi due video, e come ci lavori in generale?
ll: Per Berlinmuren, You Can’t Pretend To Be Somebody Else – You Already Are, e per il mio ultimo lavoro Kari og Knut, ho collaborato con un chitarrista svedese, Dan-Ola Persson, che si è formato nell’ambito dell’underground black e death metal nei tardi anni Ottanta. In seguito, ha lavorato ad un progetto solista, Chisel, e contemporaneamente ha composto musica per altri artisti, come per l’eccellente film di Marthe Thorshaug, The Legend of Ygg. Sto aspettando con ansia il suo album che uscirà a fine anno.

cl: Internet è una delle fonti d’ispirazione principali del tuo lavoro: mi hai detto della genesi di Berlinmuren, che mi dici riguardo a Morrissey Foretelling the Death of Diana? Hai compiuto ricerche specifiche o sei incappato in quel sito?
ll: Internet è uno strumento che uso nel fare ricerche per i miei video, e sono anche un fan degli Smiths, così seguo tutto di Morrissey su internet. La maggior parte delle volte, il mio interesse per un soggetto inizia altrove, e poi mi affido a internet per fare ricerche.

cl: Che cosa ti affascina dell’idea di una metafisica che circondi due icone dei nostri tempi come Diana e Morrissey? E come hai selezionato gli estratti dei molti film che compongono il lavoro?
ll: Ci sono due storie che vengono raccontate in Morrissey Foretelling, una è la narrazione che prova come Morrissey avesse previsto la morte di Diana sull’album The Queen Is Dead, e poi c’è la storia visiva. Nella storia visiva, scorro i titoli di The Queen Is Dead mostrando quale film abbia ispirato Morrissey nella scelta della copertina dell’album, oppure della citazione incisa sul vinile o dei dialoghi prelevati e inseriti nei testi delle canzoni. Ogni film illustra così una canzone dell’album. Talvolta c’è una coincidenza visiva col senso di quanto viene pronunciato, ma la maggior parte delle volte non è così. Credo che solo i fans sfegatati di Morrissey, che siano anche appassionati di “kitchen sink drama”, possano carpire tutti gli indizi. Morrissey deriva molti testi dai film e dalla letteratura. I lavori a cui maggiormente si è ispirato sono A Taste of Honey, un pezzo teatrale di Shelagh Delaney, portato sullo schermo nel 1961 da Tony Richardson e la bellissima prosa Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto di Elizabeth Smart.

cl: Sono rimasta colpita da un tuo breve, e tuttavia sconcertante, lavoro del 2007, Sweedish Book Store, che offusca la percezione della consequenzialità di linguaggio e eventi. Mi diresti qualcosa a proposito?
ll: Il video utilizza una sequenza di un minuto dalla commedia Top Secret!. La scena originale è registrata al contrario senza montaggio, ed è di solito chiamata la “scena della libreria svedese”. L’idea del regista era che la lingua inglese registrata al contrario suonasse come lo Scandinavo. Nel mio video, la scena al contrario e rovesciata è connessa a quella originale in un loop.

cl: Ho letto del progetto di Kari og Knut, un video su J.D. Salinger. Essendo una sua grande fan, sono curiosa di saperne di più. Il lavoro è già stato presentato? Non hai paura della possibilità che Salinger ti faccia causa?
ll: Il lavoro è in gran parte basato sul film del 1995 di Dariush Mehrjui Pari, un adattamento dal terzo libro di Salinger Franny and Zooey. Ho rieditato del girato del film, usandolo per parlare di altri tipi di censura, ma il lavoro racconta anche la storia del racconto censurato di Hellen Keller, The Frost King, e di How I Became a Socialist. Così il lavoro non parla proprio di Salinger. Ho rimosso la sua storia e inserito la mia. Il video sarà mostrato con altri lavori in una personale in programma da Foxy Productions che inaugurerà il 19 Febbraio.

cl: Avrai una personale alla Kunsthalle Winterthur più avanti quest’anno. Stai lavorando a qualche nuovo progetto per l’occasione?
ll: Assolutamente sì, su diversi. Stiamo anche lavorando a una pubblicazione. Ma non mi piace parlare dei miei lavori prima che siano finiti.