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Lettera internazionale Anno 27 Numero 108 luglio 2011



Dall’era atomica all’era solare

Massimo Scalia



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 108

In copertina:
Diego Esposito, Paesaggio, 1998,Palazzo Fabroni, Pistoia
Foto A. Amendola

La rotta del Sud. Per spostare il centro del mondo, Franco Cassano
Wikileaks. L’arte di disturbare il manovratore, Slavoj Žižek

Il Sud necessario…

L’invenzione dell’immortalità, Jan Assmann con Frank Raddatz
Religione e politica, Abdelwahb Meddeb
Piccola storia delle rivoluzioni arabe, Rashid Khalidi
La lezione tunisina, Sami Naïr

…e il Nord in declino

Basta con la Guerra Fredda!, Alain Touraine
I “mostri” giuridici, Olivier Le Cour Grandmaison
Il Leviatano nucleare/ 2, Eduardo Subirats
Dall’era atomica all’era solare, Massimo Scalia
Il nucleare è la distruzione del futuro, Günther Anders con Heiko Ernst
Quanta catastrofe occorre all’uomo?, Peter Sloterdijk
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Mahi Binebine
n. 115 maggio 2013


Rosetta Messori
Vertigini, 2002

Armin Linke
Disused nuclear power plant, Garigliano, 2007

SantaSangre
Bestiale improvviso, 2010
foto L. Ariotti

Qualcuno ha osservato che la vera bomba atomica è stato l’accelerato accrescimento, rispetto ai tempi biologici, della massa cerebrale che, dall’Homo habilis a noi – Homo sapiens –, è aumentata di più di due volte in appena un milione di anni. L’Homo habilis ha passato circa un milione di anni a scheggiare la pietra per tirarne fuori un lato più aguzzo e tagliente per uccidere gli altri animali, per sezionarli e cibarsene o forse anche per sfruttarne le pelli. Insomma, unico, a quanto sembra, tra i primati e tra gli altri animali, ha usato la sua abilità per dotarsi di maggiore capacità di offesa e di aggressione. E la mente va alle famose immagini con le quali Kubrick, in “2001: Odissea nello spazio”, ritrae la perdita dell’innocenza dei nostri avi ancestrali: con gli strumenti di cui si è impadronito, l’Homo habilis può uccidere il suo simile.
E su questa strada ha continuato con una velocità e “successi” incredibili, si potrebbe aggiungere, se si pensa che, nell’arco dei brevissimi tempi storici, è riuscito a realizzare la possibilità di autodistruzione della sua specie e, allo stesso tempo, di tutta la biosfera: la potenza della fissione nucleare, la bomba termonucleare. Ma poi, anche se ci si è andati più vicino di quanto gli attuali quarantenni immaginino, quell’esito non c’è stato. Non stupisce, con queste premesse, che il mito di Prometeo abbia attraversato indenne la mitologia greca, il pensiero giudaico-cristiano, lo stesso marxismo, per arrivare ai giorni nostri. “Prometeo è caduto a Černobyl”, proclamavamo nel 1986, poco tempo dopo il disastro, denunciando allora, dalle colonne de il Manifesto, il perenne mito del dominio dell’uomo sulla natura. Ancor di più oggi, dopo Fukushima. Al di là di ogni forzatura retorica, bisogna superare l’illusione di una scienza in grado di rispondere a tutti i problemi dell’uomo e della tecnologia, sua fedele ancella, che distribuisce a piene mani dalla cornucopia della sicurezza. Viviamo sempre più nella società del rischio, e non solo tecnologico.
Il nucleare ne è il paradigma estremo, che incrocia la proliferazione atomica delle armi con i rischi del reattore, la piramide gerarchica e la subordinazione totale del lavoro con i pochi posti che crea; il mito della crescita illimitata dei consumi con gli effetti della radioattività illimitati rispetto alla nostra ordinaria percezione di tempo e spazio. E, sul piano della comunicazione, la segretezza interna con la diffusione esterna di menzogne criminali o di nubi d’ideologia. A Fukushima, la Tepco, la società esercente della centrale atomica, ha alternato reticenze con spudorate menzogne avallate dal governo, ha ritardato all’estremo il raffreddamento con l’acqua marina pur di non perdere i reattori. Irresponsabili e miopi, li hanno lasciati lo stesso alla fusione. Soldi contro la vita dei “liquidatori”, soldi contro la vita dei giapponesi che moriranno per la radioattività incontrollata che contaminerà acque e cibi. Ma è sempre stato così: difendere gli affari a colpi di menzogne criminali o di nubi d’ideologia. Non chiese scusa la stampa francese per aver occultato Černobyl ai lettori, fino a quando il clamore della manifestazione dei duecentomila il 10 maggio a Roma rese impossibile il silenzio a favore dello Stato nucleare per eccellenza.

L’incidente di Fukushima e la sicurezza nucleare
Alcuni autorevoli commentatori hanno presentato l’incidente di Fukushima come figlio dell’azione devastante del terremoto e dello tsunami; e poiché neanche una società tecnologicamente molto avanzata come quella giapponese è in grado di fronteggiare gli eventi estremi della natura, ne hanno concluso che si deve rinunciare al nucleare. Certo, sembra una pazzia realizzare centrali nucleari in un’area come quella giapponese, dove si scontrano quattro placche tettoniche, sicura garanzia di terremoti devastanti. Ma un’analisi più attenta di quel che è successo mette in discussione le premesse di quella conclusione. Infatti, gli edifici della centrale atomica hanno retto al terremoto – i tetti sono saltati per l’esplosione delle bolle di idrogeno formatesi con l’inarrestato progredire del surriscaldamento dei noccioli dei reattori –, ma le tremende accelerazioni subìte dalle strutture dei reattori, causa certa di gravi lesioni dovute soprattutto ai fenomeni di risonanza, avrebbero dispiegato nel tempo gli effetti di rischio.
Allora, che cosa è andato storto, che cosa ha portato alla fusione dei noccioli? Si deve risalire al lay out dell’impianto, in particolare alla cattiva disposizione dei servizi ausiliari d’emergenza che, non adeguatamente protetti, investiti dall’onda dello tsunami, non sono riusciti a entrare in funzione quando avrebbero dovuto, cioè quando il black out elettrico della rete, causato dal terremoto, ha messo fuori uso gli ordinari sistemi di raffreddamento del nocciolo del reattore.
E fa riflettere anche il fatto che il molo di protezione nel porto a servizio della centrale fosse alto sei metri, quando proprio la Tepco aveva documentato un terremoto della stessa magnitudo di quello dell’11 marzo 2011, avvenuto nella stessa area 115 anni prima con un’onda di tsunami alta più di 10 metri. Insomma, il riferimento allo scatenarsi delle forze incontrollabili della natura rischia di essere un esercizio retorico, se non si tiene conto della sciatteria progettuale (lay out) e della vocazione a tirare giù i costi (l’altezza del molo) che travalicano, e non solo in Giappone, ogni aprioristica esaltazione dell’eccellenza tecnologica raggiunta da una società. Quanto agli effetti sanitari, aspetto di gran lunga più rilevante, la tragedia di Fukushima, con i livelli di radioattività registrati al suolo e nel mare, con i duecentomila cittadini evacuati nel raggio dei 20 chilometri, con verdure e ortaggi contaminati nel Giappone del Sud, a centinaia di chilometri dalla centrale, con lo iodio nell’acqua potabile di Tokyo, consente purtroppo di affermare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni molte di più di quelle del terremoto e dello tsunami. Gli effetti somatici della radioattività – cancri e leucemie – hanno un carattere statistico, e sono tanto più estesi quanto maggiore è il numero delle persone esposte. È come un’arma che ruota sparando in mezzo alla folla: non si sa chi verrà colpito, ma le vittime ci saranno e saranno tanto più numerose quanto più numerosi sono i presenti.
E quelle migliaia di vittime che farà la radioattività, ogni anno sull’arco di trent’anni, non le vedrà nessuno. Non ci emozioneranno certo come le immagini che ci riportavano i corpi senza vita travolti dalle onde dello tsunami. Ma, al di là di Fukushima, quali sono i livelli di sicurezza raggiunti dalla tecnologia nucleare? All’alba dell’era del petrolio, le agenzie internazionali dell’energia riportavano il dato della produzione nucleare: 1 Mtep. Nel giro di poco più di un decennio, una tumultuosa crescita degli ordinativi portò quel dato a ben 146 Mtep.
Già, ma che cosa aveva consentito quella formidabile espansione per circa un ventennio? Certo, Atoms for peace, la campagna lanciata nel 1953 da Eisenhower per sostituire al terrore del fungo di Hiroshima l’immagine positiva della produzione elettrica; certo, l’esigenza per i paesi del “club atomico” di ripianare in parte le colossali spese militari con la vendita del kWh nucleare o la grandeur – è il caso della Francia – di avere tutto atomico, l’elettricità e la propria bomba, senza dover dipendere dagli altri. Ma è indubbio che il passaggio dal nucleare militare a quello civile avvenne sull’onda del dogma della sicurezza nucleare: per quanto grave sia l’incidente alla macchina, neanche una particella radioattiva deve uscire dallo schermo più esterno di contenimento della radioattività. Poi, l’incidente di Three Mile Island (TMI), 28 marzo 1979, con oltre venti tonnellate di uranio fuoriuscite dal reattore, rilasci radioattivi incontrollati al di fuori della centrale e 140mila cittadini evacuati, volontariamente, dall’area delle 5 miglia. Il 26 aprile 1986 si aggiunge il dramma di Cernobyl: il dogma si spezza, e la stessa IAEA inventa, con la scala INES, la distinzione tra catastrofe “locale” e catastrofe “globale”. Sorge immediata la domanda: ma il nucleare si sarebbe mai affermato, con quell’impressionante trend di crescita che ricordavamo, se la sicurezza avesse proposto quella distinzione? E i progettisti e i costruttori dei reattori di terza generazione “avanzata” si guardano bene dal dichiarare che i criteri di sicurezza vantati sono tali da poter far rinunciare all’incredibile distinzione fra catastrofe “locale” e “globale” introdotta dalla scala INES. Gli innegabili miglioramenti ingegneristici che si sono avuti non sono infatti in grado di rispondere ai problemi irrisolti del nucleare, perché applicati alla fissione dell’uranio che, trasposta di peso dai laboratori e dalle esperienze per le armi alla produzione elettrica, non poteva certo avere tra le sue priorità sicurezza, protezione dalla contaminazione radioattiva e gestione delle scorie. Per questo il Nobel per la Fisica, Carlo Rubbia, ha liquidato la terza generazione “avanzata” come un’“operazione di cosmesi”; e il proliferare di termini che vorrebbero accreditare una sicurezza che non c’è fa venire in mente la massima di Goethe: «Quando mancano i concetti, nascono le parole». Oggi, le fusioni avvenute nei reattori di Fukushima, che sommate a TMI fanno almeno tre, ridicolizzano le stime che, nonostante TMI, l’IAEA avanzava nelle conferenze di Columbus (Ohio, 1985) e di Roma (1985). Il dato di fatto è un incidente ogni cinquemila reattori per anno, cioè venti volte più frequente rispetto a quelle stime! Questi numeri sono lo scheletro impietoso nell’armadio dei rapporti tra scienza, tecnologia, aspettative dell’uomo della strada, pressioni delle lobby e delle cricche, manipolazione della comunicazione, democrazia delle decisioni nella società tecnologica.

Tre 20% nel 2020
Ogni valutazione e discussione su scelte e strategie energetiche rischia di essere fatua se non fa riferimento al contesto nel quale vanno attuate, che è il dato drammaticamente nuovo: il passaggio dalla stabilità all’instabilità dei cicli climatici, il quadro degli sconvolgimenti che da vari anni stiamo già vivendo. Sull’esigenza di tenere assolutamente presente il collegamento tra energia e cambiamenti climatici, si è pronunciata la comunità scientifica internazionale attirando l’attenzione dei “grandi” ai G8 del 2005 e del 2006, e richiedendo ai governi un’“azione immediata” (prompt action)1 proprio per far fronte ai cambiamenti climatici. Basti pensare che negli ultimi cinquant’anni c’è stato un incremento di concentrazione di CO2 in atmosfera pari alla stessa entità che, nella storia del clima, aveva richiesto in media 5.000 anni! E già nel 2007 l’Unione Europea ha dato alle sollecitazioni della comunità scientifica internazionale una risposta molto significativa: tre 20% nel 2020. Entro quella data, bisognerà: ridurre del 20%, rispetto al 1990 le emissioni di CO2; ridurre del 20% i consumi finali d’energia; e coprire il 20% dei consumi finali con fonti energetiche rinnovabili. Da sottolineare che gli ultimi due obiettivi riguardano i consumi totali d’energia, non solo quelli elettrici. Gli obiettivi europei, che inizialmente venivano criticati – “Ma che cosa possono poi fare i tre 20% su scala globale, se restano un obiettivo della sola Unione Europea?” – sono invece diventati già, con le Conferenze di Copenhagen (2009) e di Cancun, alla fine del 2010, il riferimento per tutti i governi impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici; con il rigetto dei 200 paesi partecipanti di ogni posizione “negazionista”. Preoccupazioni e moniti sono risuonati da più parti: illuminanti le parole che nel settembre 2009 José Manuel Barroso, Presidente della Commissione Europea, rivolse al summit dei leader del mondo, riuniti a New York in sede ONU proprio in preparazione di Copenhagen: «Il clima sta cambiando più velocemente di quanto si prevedesse anche solo due anni fa. Continuare a comportarci come se niente fosse equivale a rendere inevitabile una trasformazione pericolosa, forse catastrofica del clima nel corso di questo secolo».
Il problema quindi è posto in modo molto chiaro: le strategie energetiche devono puntare su quelle soluzioni che sono maggiormente in grado di ottenere risultati nel più breve tempo possibile. E tra le risposte da dare non c’è il nucleare; la morale è: “chi ce l’ha se lo tenga” ma, nonostante le pressioni e i molteplici tentativi di inserirlo, il nucleare non compare come scelta per far fronte ai cambiamenti climatici né tra gli obiettivi della UE, né negli accordi di Copenhagen e di Cancun. A partire dal 2008, il governo italiano si è mosso invece in direzione opposta, verso una tecnologia del passato. L’intesa Berlusconi-Sarkozy e i provvedimenti legislativi conseguenti puntano a un piano nucleare basato sul reattore francese EPR, che è un reattore ad acqua pressurizzata (PWR) di 1.600 MW di potenza, prodotto dall’industria di Stato francese, Areva. Sulla base delle offerte che Areva ha avanzato nelle gare del 2009 e del 2010, i primi quattro EPR verrebbero a costare, a oggi, oltre 30 miliardi di euro per una produzione elettrica che il governo stesso dichiara con molto ottimismo non disponibile prima del 2020. Questa spesa assicurerebbe per quella data un 3% dei consumi finali d’energia e diecimila posti di lavoro, soprattutto nei 6-8 anni di cantiere; ma, assai prima di essere prodotto, il kWh nucleare andrebbe da subito a gravare sulle bollette dei cittadini per coprire gli oneri finanziari dei prestiti per il capitale necessario, dei quali il governo assumerebbe l’onere. Per citare un solo esempio, con la metà dell’investimento richiesto per i quattro EPR, il “piano straordinario di efficienza energetica 2010-2020”, presentato da Confindustria (settembre 2010) dopo anni di colpevole disinteresse, prevede oltre 51 Mtep di risparmio (è il 20% richiesto dalla UE) con una conseguente riduzione di 207,6 Mton di CO2 (una riduzione superiore all’obiettivo UE): una strategia il cui impatto socio-economico viene valutata dal piano sui 1,6 milioni di posti di lavoro sull’arco del decennio. L’impegno finanziario, economico, industriale e organizzativo nel nucleare è alternativo a quello per il risparmio energetico e per le fonti rinnovabili; non è davvero l’Italia, ancora pesantemente vincolata da una grave crisi economica, che ha le risorse per mandare avanti tutte e due le strategie.
Al di là del caso italiano, poi, già due, tre anni fa autorevoli studi internazionali davano al nucleare pochi decenni di vita. Alla base di quelle previsioni vi era una molteplicità di fattori, che il recente dibattito sul nucleare ha reso noti a chi si è sottratto alla propaganda e tra i quali va sottolineato, oltre allo sconvolgimento climatico, quello veramente nuovo rispetto all’analogo dibattito di trent’anni fa: la concorrenza avvertibile e crescente di strategie energetiche e di settori industriali rivolti al risparmio e alle fonti rinnovabili. Oggi, dopo la tragedia di Fukushima, quale governo potrà mai autorizzare il prolungamento delle centrali atomiche oltre i quarant’ anni? E in questo contesto, quale multinazionale dell’energia investirà nel nucleare per mantenerlo a livelli di sopravvivenza? Forse accadrà che qualcuno comincerà a pensare per davvero a una nuova ricerca, a una nuova Fisica del reattore. Ma oggi altri rischi si sprigionano dal vaso di Pandora delle iniquità sociali e della spoliazione della natura e delle sue risorse operata dall’uomo. In molti ormai conoscono le risposte da dare, nuovi profeti della penultim’ora ce le raccontano dalle colonne dei giornali. Le diagnosi e l’elencazione degli interventi possibili non fanno però le soluzioni; di mezzo c’è la complessità delle società, i rapporti di forza tra le classi, la concentrazione dei poteri e la loro dinamica.

Un obiettivo possibile
Allora è sicuramente più di un barlume, la prospettiva dei tre 20% nel 2020. È una vera e propria “rivoluzione” energetica, il primo grande passo per abbandonare l’attuale modello ad alta concentrazione d’energia, responsabile della più grave delle crisi che dobbiamo fronteggiare – quella del clima –, per fonti energetiche diffuse nel territorio e più controllabili e accessibili ai cittadini, come dimostrano anche le interessanti esperienze in corso di autogestione. Un passaggio “dalla quantità alla qualità”, che configura una tutt’altro che scontata evoluzione del capitalismo verso modelli di produzione e di società più aperti alle esigenze di partecipazione dei cittadini, meno predatorî e più attenti alle risorse della natura e ai suoi cicli. Il primo grande progetto “universalistico” per mitigare fortemente l’insostenibile modello economico-sociale dominante che ha prodotto le crisi. Sembra quasi echeggiare lo spirito che subito dopo il secondo conflitto mondiale ispirò nelle Nazioni Unite i princìpi della “Carta di San Francisco” sui diritti dell’uomo. E il confronto diventa obbligatorio con l’intervento in Libia dove, in nome delle popolazioni che si erano sollevate per “pane e libertà”, si è messa in piedi un’operazione le cui modalità e i cui tempi sono stati scanditi da meschini interessi di potere politico ed economico. Il nucleare dopo Fukushima è finito, e proprio a partire da quest’ultima catastrofe il mito di Prometeo appare sempre più come un portato arcaico della cultura umana, forse in procinto di sgretolarsi e di frantumarsi. Sarà anche intrinseco all’avventurosa escalation ricordata all’inizio, quel procedere della conoscenza umana secondo il metodo trial & error; ma da oggi si potrà chiedere più sapere e più consapevolezza sui trial, e di ridurre sempre più gli error. Scienza e tecnologia si impegnino: questo è oggi un obiettivo possibile. Stiamo per superare l’angosciosa profezia di Einstein, che vedeva nell’era atomica che si era aperta il preludio di una “catastrofe senza fine”, perché è sempre più chiaro che la risposta alla più grave crisi che ci minaccia, quella dei cambiamenti climatici, è proprio nel passaggio dall’era atomica all’era solare.

1 Joint Science Academies’ Statement: Global Response to Climate Change, 7 giugno 2005; Joint Science Academies’ Statement: Energy Sustainability and Security, 14 giugno 2006.


Massimo Scalia, professore di Fisica Matematica all’Università La Sapienza di Roma. Leader del movimento antinucleare italiano ed esponente di quello che è stato chiamato ambientalismo scientifico, è stato deputato dal 1987 al 2001. In questa veste, è stato promotore delle leggi 9/91 e 10/91 sulle fonti rinnovabili e sul risparmio energetico, la prima legislazione organica al mondo su quello che sarà uno dei leitmotiv di questo secolo, e Presidente della prima e della seconda Commissione d’inchiesta sui rifiuti, la Commissione “Ecomafie” (1995-2001). Relatore della prima indagine parlamentare sulla gestione delle scorie radioattive (1999), le cui linee di indirizzo vennero sovvertite dal Governo Berlusconi con il decreto “Scanzano” (2003), è stato indicato dalla Regione Basilicata nella Commissione sulla sicurezza nucleare (2004-2006). Presidente del comitato scientifico di Legambiente (2001-2005), è attualmente copresidente del comitato scientifico del Decennio dell’educazione allo sviluppo sostenibile (DESS) 2005-2014 dell’UNESCO. Tra le sue opere più recenti: con Gianni Mattioli, Nucleare. A chi conviene? Le tecnologie, i rischi, i costi (Edizioni Ambiente, 2010). Per L.I. ha scritto: con Gianni Mattioli, “La tutela dell’ambiente: dalla quantità alla qualità”, n. 82, 2004; “La rivoluzione dell’idrogeno”, n. 78, 2003; “I Verdi come nuova sinistra”, n. 77, 2003.