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Lettera internazionale Anno 29 Numero 115 maggio 2013



Occhi rubati

Mahi Binebine



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 115


La nostalgia, Vladimir Jankélevitch

Storia e memoria
Memorie e storia un compromesso difficile, Esther Benbassa
L’avvento della memoria, Pierre Nora
La casa della lumaca, Norman Manea
Che cosa resta?, da un’intervista a Christian Boltanski, di Biancamaria Bruno
Più Storia, meno memoria, David Bidussa


Cittadinanza e intellettuali
Il fallimento degli intellettuali europei?, Jan-Werner Müller
La cittadinanza in una prospettiva dinamica e storica, Carlo Galli
Storia, nazione, storiografia, Francesco Maria Biscione
Essere cittadini in Israele, Fabio Nicolucci
Parole del cuore parole della mente, Herta Müller
Il corpo, nessuna identità, Intervista a Marina Abramović, di Gioia Costa
Gli occhi rubati, Mahi Binebine

Gramsci per tutti
A occhi bendati, Luca Paulesu
Attualità di Antonio Gramsci, Luciano Canfora
Gramsci a Londra Marx a Turi, Giancarlo Schirru
Un’agenda gramsciana. Spazi soggetti traduzioni, Sandro Mezzadra e Paolo Capuzzo
Il mio Gramsci, Gayatri Chakravorty  Spivak

Gli artisti di questo numero
Louise Nevelson, Marina Abramović, Christian Boltanski, a cura di Aldo Iori

I libri e i film
Recensioni a cura di Domenica Bruni, Silvia Camilotti, Famiano Crucianelli, Dario Gentili


in copertina:
Louise Nevelson, Dawns Host A, 19
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n. 116 luglio 2013

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Franco Botta
n. 114 febbraio 2013


Abramovic Marina
BALKAN-BAROQUE(1997)

Boltanski Christian
EL CASO (1990)

Boltanski Christian
LES HABITS DE FRANCOIS (1972

– Partire, perché poi?
Morad osservò le sue babbucce e mi rispose :
– Perché non vedo più la città.
– Come?
– Gli stranieri mi hanno rubato gli occhi.
Poi mi fissò come per mostrare che il suo sguardo era completamente vuoto. Senza alcuna luce di speranza. Senza la minima ambizione. Uno sguardo disincantato e vecchio, dal quale ogni progetto, ogni prospettiva era stata lavata via.

La scena si svolge di notte in un caffè davanti al consolato di Francia. Morad attendeva l’ora in cui sarebbe andato a mettersi in coda davanti al portone sbarrato. Era il suo lavoro: tutte le sere, si presentava davanti al bell’edificio e vi passava la notte; l’indomani, avrebbe venduto il posto a chi richiedeva il visto. I prezzi variavano a seconda della lunghezza della fila e delle incertezze del meteo. 
– Come hanno fatto gli stranieri a rubarti gli occhi?
­– Da quando abbiamo la parabola sul tetto, abbiamo occhi solo per l’altro mondo. La vecchia medina ci sembra oramai un cumulo di macerie.
– Quello che ti fanno vedere in televisione non è per forza la verità. Ho vissuto vent’anni a Parigi, io. E come vedi, sono tornato.
– Con quale diritto allora ti permetti di darmi consigli? Anche tu sei partito, no? Al posto tuo, io non sarei tornato.
Tratti regolari, un tantino negroidi, Morad sorride.
– Perché fai la coda per gli altri?
– Mi ci guadagno il pane.
– Sì, ma potresti darti da fare per te stesso.
– Tre volte mi hanno rifiutato il visto. Io sono bruciato. Comunque, ho trovato un lavoro. Vendo consigli per ottenere le carte, contatti utili per la contraffazione. Mi sono abituato alla parabola, io. E vivere ai confini del miraggio mi fa bene.
­– È frustrante!
– Assolutamente no, amico mio. Di giorno, sono in Europa o in America… e di notte i sogni prolungano i miei viaggi. Lo sai che mi succede di dormire in piedi?
– In piedi ?
– Sì, anche camminando. Dormire è un’arte, in questo Paese. Fin dalla culla, ci iniettano una specie di letargia che, una volta adulti, ci permette prodezze insensate in materia di sonno.
Vedendo che aggrotto le sopracciglia, Morad prosegue con un tono più calmo:
– Lo straniero crede che siamo svegli, ma è un trucco. La maggior parte delle persone è come rallentata da uno strano torpore. È distaccata dal mondo.
– Aspetta! Gli dissi: io non vengo dalla luna. Sono nato qui. Avrò anche trascorso vent’anni altrove, ma resto un marocchino.
– Vent’anni! Mio Dio! E perché sei tornato?
– Per raccogliere i pezzi …
Dopo una pausa, si lasciò sfuggire:
– Quando sei venuto a sederti alla mia tavola, ho capito subito che sei un folle. Soprattutto non ripetere quello che mi hai confidato: rischi di farti linciare.
– Per quale crimine?, esclamai.
– I giovani che vedi in giro sognano una cosa sola: prendere d’assalto il consolato. Non potrebbero nemmeno concepire un tale spreco.
Morad mi squadrò con curiosità.
– Ora che sei qui, e che nessuno ti ci ha obbligato, bisogna che impari di nuovo a dormire. Innanzi tutto, hai bisogno di un bel paio di babbucce per eliminare ogni tentazione di velocità; e una djellaba spessa e calda come la mia. Guarda com’è morbida! Mia madre l’ha tessuta con le sue mani. Dentro un coso del genere, il sonno può arrivare in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo! Devi assolutamente adeguarti al ritmo del Paese. Gli svizzeri hanno inventato l’orologio, noi abbiamo il tempo. E soprattutto, vacci piano. Chi va di fretta, muore di fretta. Noi siamo riusciti a disarmare la vecchia falciatrice. L’abbiamo domata confondendo i suoi tentacoli nell’apatia delle nostre esistenze. Noi la consumiamo a piccole dosi. Guarda, siamo come un immenso cimitero in cui ciascuno si porta in giro la propria tomba… siamo vere tartarughe.
Mentre Morad parlava (o ero io che fantasticavo?) mi sembrò di vedere come una luce nel suo sguardo. Poi niente.
Me l’ero presa con me stesso per essermi addormentato al caffè. Aprendo gli occhi, ho scorto la sua djellaba amaranto in lontananza; sembrava che dentro non ci fosse nessuno. Nessun dubbio, era la sua, addossata al portone sbarrato del consolato di Francia.
Dietro, si stendeva una lunga fila di pretendenti al paradiso; o all’inferno, dipende.


Traduzione di Anna Zoppellari


Mahi Binebine, pittore e scrittore marocchino, vive tra il Marocco, la Francia e gli Stati Uniti. Scrive in francese. Il suo primo romanzo, Le Sommeil de l’esclave, (1992), ha ricevuto il Prix Mediterranée. In italiano, è uscito nel 2008, per Barbès, Cannibali.