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cura.magazine Anno 3 Numero 9 autunno-inverno 2011



Intervista con Liudvikas Buklys

Chris Fitzpatrick



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO cura. #09

INSIDE THE COVER

Benoît Maire
words by vincent honoré

AROUND THE WORLD
Pontus Hultén. The Exhibition Machine
lorenzo benedetti

Female Power Pop
raimar stange

Judith Raum’s World of Things
marina sorbello

Marlon de Azambuja. Theorising Isolation
josé luis corazón ardura

There Are No Ruins Here
mirene arsanios

TALK
Doing It In The Periphery. A conversation with Linn Pedersen and Thora Dolven Balke
marianne zamecznik

FOCUS
A Sense of Touching. Marlene Dumas
ulrich loock

ANDROID®
based in Berlin
riccardo previdi

LAB
Nico Vascellari
Bus de la Lum
words by filipa ramos

SPOTLIGHT
An Interview with Liudvikas Buklys

chris fitzpatrick

LAB
Deborah Ligorio
Paesaggio
words by christiane rekade

FASHION CURATING
Interview with Sabine Seymour
dobrila denegri

BOOKS
Participating Politically
felix vogel & morten paul

Myths, Ethics and Narrative
Strategies of Superhero Fiction
adrian tranquilli & marco arnaudo

AGENDA
edited by sara feola
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012


Liudvikas Buklys
Unpacked Painting, 2009
painting, box, 60 x 80 cm
exhibition view and detail: 7mal2 gallery weekend, Berlin, 2009
Courtesy: the artist; Tulips & Roses, Brussels

Liudvikas Buklys
Unpacked Painting, 2009
painting, box, 60 x 80 cm
exhibition view and detail: 7mal2 gallery weekend, Berlin, 2009
Courtesy: the artist; Tulips & Roses, Brussels

Liudvikas Buklys
Meeting a Man Who Knows Where the Gold is Buried, 2009
C-Print, 30 x 24 cm
exhibition view: Study, Enrico Fornello gallery, Milano, 2010
Courtesy: the artist; Tulips & Roses, Brussels

C.F. Io sono a San Francisco, tu dove ti trovi?

L.B. In questo momento sono a Gand.

C.F. Allora rispetto a te sono nove ore indietro. Dato lo scarto temporale tra noi, mi sembra appropriato partire dal fatto che molti dei tuoi progetti sembrano esistere in forma di studio per lavori futuri, che potrebbero essere o non essere realizzati: un modellino di legno per un’architettura espositiva, studi per una scultura sepolta o vasi di fiori. Però non si tratta esattamente di maquette o progetti, sarebbe una definizione riduttiva. Potremmo dire che lo studio basta a sé stesso, oppure che è uno spunto per evocare un’immagine mentale di quanto potrebbe seguirne, e l’immagine mentale è autosufficiente?

L.B. Direi che sono proposte, documenti che contengono una certa idea che non ha, però, una rappresentazione compiuta. Ultimamente ho realizzato un lavoro che hai visto alla Galerie Emanuel Layr di Vienna, intitolato Study for a Buried Sculture (2010). Ho iniziato pensando all’espressione – “studio per la scultura sepolta” – come concetto o problema da sviscerare nel mio studio. Cosa posso fare io in rapporto alle sculture sepolte? Poi ho visto la mostra di Sol Lewitt con le foto in cui seppellisce un cubo. Mi sono messo a pensare a tutte le possibili sculture sepolte o nascoste nel mondo. Ho iniziato facendo dei disegni, ma mentre gli schizzi assomigliano molto alla struttura risultante, Study for a Buried Sculpture è più un amico di una scultura sepolta che una scultura sepolta vera e propria.

C.F. Una scultura amichevole?

L.B. Chissà. Il fatto è che al mondo ci sono molte sculture sepolte, e il lavoro prende spunto da questo.

C.F. Quindi funziona anche retrospettivamente... Come una specie di progetto al rovescio?

L.B. È uno studio sulle cose nascoste, cose che non vediamo e possiamo solo immaginare. È legato soprattutto all’idea di scultura, l’idea di un oggetto che pensa a sculture impossibili, ma appare in forma di scultura.

C.F. Non sarebbe male incontrare una scultura pensante. E che mi dici degli studi per i vasi di fiori? Nel 2010 li ho visti nella tua mostra Study alla Enrico Fornello di Milano. I cerchi di acciaio nero sembravano fluttuare, spuntare fluidamente dalle pareti, come perimetri pronti ad accogliere qualcosa di più dei vasi mancanti. Ho immaginato le piante che potevano crescerci dentro: aromatiche, romantiche, obsolete, ologrammatiche, senzienti, e via dicendo.

L.B. I vasi sono facili da immaginare. Possono avere forme diverse, ma evocano sempre l’immagine di un fiore contenuto al loro interno. Se collochi un vaso in una stanza, la stanza si trasforma, e lo stesso accade se lo togli. E anche se giochi con l’‘idea’ di vaso da fiori…

Il cane del vicino: bau, arf, bau, bau.

C.F. Chissà cosa sta dicendo quel cane. Ma torniamo a noi: parlavi dell’idea di vaso da fiori.

L.B. Penso che il cane stia cercando di dire che in origine i vasi erano usati per portare le piante sulle navi da un continente all’altro. Il mio interesse verso questi oggetti nasce soprattutto da questo aspetto di trasportare le cose, e trasportare l’idea delle cose.

C.F. Questo mi fa venire in mente Unpacked Painting (2009), cui hai dato un titolo piuttosto descrittivo: è un vecchio dipinto aperto e disimballato, ma esposto dentro al suo materiale di imballaggio, che fa anche, in qualche modo, da piedistallo o cornice. L’uomo del quadro, tra parentesi, assomiglia molto a Christopher Walken. So che l’ultima volta è stato aperto da Croy Nielsen a Berlino, no? Questo dipinto viaggiante trae un significato dalla propria dispersione, o è un oggetto trovato che già presenta una stratificazione di significati al di là del suo contenuto rappresentativo? Non l’ho ancora aperto, quindi non posso saperlo.

L.B. Hai perfettamente ragione…

Il cane: Arf, fuf, arf, uff, baubaubau.

C.F. Liudvikas, pronto, mi senti? Mi sembra di averti sentito dire che all’epoca dell’Unione Sovietica i quadri dovevano essere nascosti, è vero? Unpacked Painting ha a che fare con la sparizione e la ricomparsa dei quadri?

L.B. Sì e no. Non è che tutti i quadri fossero sistematicamente nascosti, magari erano appesi alla parete, ma era vietato venderli. Nel 1987 arrivarono i primi mercatini di antiquariato e delle pulci. Il dipinto apparteneva a un uomo che nel 1989 lo aveva acquistato per due soldi in un mercatino, dove era tenuto nel baule di un auto. Un tizio aveva aperto la portiera e aveva detto: “Vuoi comprare questo quadro?”. Era nascosto in soffitta, ma quando l’ho trovato dopo tanti anni mi è sembrato interessante confrontare il sistema o il mercato dell’arte contemporanea con questo mercato nero.

C.F. Ho una domanda sulla mostra che hai fatto con Antanas Gerlikas nel 2008 da Tulips & Roses.
L.B. And then came Johny.
C.F. Nel comunicato stampa, ogni volta che le lettere “f” e “i” compaiono insieme vengono sostituite da un punto di interrogativo, tipo “?rst” invece di “first” o “?nally” invece di “finally”. Questa sostituzione era necessaria per ragioni di fonetica, fisiognomica, grafica, per gli eventuali sottintesi del suo capovolgimento, “if”, o per qualche altra ragione?

L.B. Penso che sia stato un semplice errore, non credo fosse voluto, ma hai presente l’f-hole [il foro di risonanza a forma di “f” sulla cassa armonica del violino] di Gintaras [Didžiapetris]?

C.F. Sì, io e Post Brothers l’abbiamo esposto l’anno scorso da SC13. Suonava bene.

L.B. Ogni volta che appare la “f”, appare anche il buco.

C.F. Hai fatto almeno due ritratti dello scultore e falsario lituano Ignacy Julian Ceyzik, e in diverse forme. Mi sembra appropriato, perché, secondo il tuo testo, lo stesso Ceyzik è rappresentato in forme variabili, con il cognome che appare come – scusa la mia pronuncia – Cyjzyk, Cejzik, Ceizik, Cejzych, Ceyzik, Cezik, Cidzik, Cydzik, Zejzyk, e Zyjzik. Uno di questi ritratti, esposto da Tulips & Roses, è una specie di scultura di plastilina grigia, astratta e spigolosa, mentre l’altro, in mostra da Emanuel Layr, è un dipinto murale: morbido, azzurro, nella forma ambigua di un arco. Puoi parlarmi di queste varianti? Ce ne sono altre?

L.B. La vicenda di Ceyzik mi ha perseguitato a lungo. Quando studiavo scultura a Vilnius, l’insegnante d’arte ci parlò di lui come di un episodio curioso, durante una lezione sugli artisti del XIX secolo. Circa quattro anni dopo ho deciso di fare un lavoro su di lui, ma l’insegnante non c’era più e non riuscivo a reperire informazioni a riguardo. Ho chiesto ai miei amici se si ricordavano di quella lezione, ma il suo nome non diceva niente a nessuno. Ho iniziato a pensare di essermelo inventato, di essermelo sognato. Poi, per puro caso, ho trovato Ceyzik in una lista di famosi criminali lituani. Come potevo realizzare il suo ritratto? Mi sembrava stupido fare qualcosa di compiuto, per esempio iniziare a creare falsi. Ho preferito fare dei lavori che nascondessero la sua storia o il suo modo di operare, invece di mostrarli.

C.F. Quindi l’oggetto in realtà è un veicolo che trasmette la storia di Ceyzik, e tu hai rappresentato solo la sua storia, non i suoi tratti?

L.B. Sì, i miei oggetti hanno un rapporto con Ceyzik, ma mi preme soprattutto allestire la sua storia nello spazio espositivo, e considerare il modo in cui la gente la racconta. Il lavoro di Ceyzik non si trova nei musei. Il suo posto è in una lista di criminali, quindi ho pensato di usare quello che sapevo di lui per creare un ritratto che appare nello spazio, ma suscita anche conversazioni di un certo tipo.

C.F. Mi sembra di capire che Ceyzik abbia nobilitato l’argilla in un’epoca in cui non andava molto di moda. Questo è un altro elemento che ha attirato la tua attenzione?

L.B. È importante anche il modo in cui interpretava la decorazione ai suoi tempi. Era l’inizio del XIX secolo, e lui pensava solo in termini di struttura. Per Ceyzik, la decorazione era un frammento della struttura.

C.F. Attorno a Ceyzik c’è un’aura di mistero che trovo anche nella c-print intitolata Meeting a man who knows where the gold is buried (2009). Il titolo è già molto evocativo, ma che oro sta cercando l’uomo? È un buon periodo per l’oro, certo più che per l’argilla, con la recessione e tutto il resto.

L.B. Quella è una storia vera. Dopo gli studi dei vasi, che rimandavano soprattutto al contesto, ai rettangoli, all’arte concettuale, al modernismo degli anni Sessanta, ai vasi di fiori, al design funzionale, mi sono interrogato su come potevo entrare in uno spazio diverso, che appartenesse alle cose che non esistono, ai racconti, ai miti e alle leggende. Mi è capitato di entrare in contatto con un gruppo di cacciatori di tesori, che mi hanno portato con loro in alcuni viaggi. Una volta siamo andati in un villaggio dove gli abitanti sostenevano di sapere il punto in cui era stato sepolto dell’oro. Andammo nei boschi, ma in due auto diverse. Nell’altra auto c’erano dei nostri amici, e i cercatori di tesori non volevano che tutti vedessero l’oro. La mia ragazza ha scattato una foto dall’auto, e quando l’ho ritrovata molto tempo dopo, ho visto una fantastica situazione astratta, in cui comparivano solo il dialogo, i miti, e il paesaggio. Ora intendo le mostre come uno spazio dialettico, in cui possono svilupparsi diverse idee linguistiche e diversi modi di comprendere le cose.

C.F. L’oro è un altro genere di scultura sepolta.

L.B. Infatti, e mi piace che si dica “l’abbiamo tirato su” piuttosto che “l’abbiamo estratto scavando”. Si tira su l’oro dalla terra. Si tirano fuori le cose per renderle, in qualche modo, visibili. Ma quello che mi interessa delle cose sepolte o nascoste non è la loro antichità. Non è una questione di archeologia o di nostalgia. Per me il passato non c’entra niente.

C.F. Dato che l’oro nella foto non si vedeva, ho iniziato a pensare ai rapporti tra persone e oggetti: la ricerca, le congetture, il ruolo del mercato nero, la mappatura di cose che potrebbero anche non esistere. La cosa importante non è tanto l’oro quanto l’incontro, potremmo dire così?

L.B. Questa è l’idea di fondo, ma forse ti viene anche chiesto di reagire allo spazio in cui ti trovi nel momento in cui guardi la foto. Si tratta di un incontro, certo, ma anche di come questa rete di rapporti può condurti da qualche parte.

C.F. Nel testo di Jonas Zakaitas per la tua personale Bindweed del 2010, ho letto che tutto è un dispositivo ottico. Concordi?

L.B. Per quanto riguarda quella mostra, sì. Quando Jonas ha scritto quel testo, mi è sembrato così universale. È una dimensione interessante: un dispositivo ottico ti vede, e tu vedi le cose attraverso di esso, anche se al tempo stesso qualcosa viene oscurato. Lo studio dei vasi da fiori è un dispositivo per vedere vasi da fiori. In un certo senso, quel testo ha anche una sua esistenza autonoma. Bindweed era una mostra con un testo che potrebbe andare bene per qualsiasi altra mostra.

C.F. E naturalmente anche il testo stesso è un dispositivo ottico. Ti capita mai di pensare che il tuo lavoro abbia un effetto su sé stesso?

L.B. L’architettura cui hai accennato prima, Untitled (Architecture of the Exhibition ‘A Thing Spins a Leaf by the Wind’) (2010), è stata realizzata per una mostra a Riga, con Gintaras, Elena [Narbutaite] e Antanas. Era una specie di mostra spontanea, che abbiamo deciso di allestire in una sala conferenze. Non volevamo usare pareti bianche. Gintaras mi ha chiesto se volevo creare un’architettura per la mostra, e abbiamo pensato di progettarne una portatile e riutilizzabile in seguito. Con questa idea sono andato dal falegname e ho detto: “Ho un problema. Ho bisogno di realizzare una struttura portatile: non ci sarà niente di appeso, sarà quello il lavoro”. Così abbiamo iniziato a fare alcuni schizzi ed è venuta fuori questa forma. Ho pensato a come le mostre siano capaci di generare un determinato linguaggio o introdurre certi termini o idee e questa è la forma delle idee di quella mostra.

C.F. Dunque si tratta di un’architettura del pensiero?

L.B. In realtà, non è una maquette né un progetto. È un’architettura ed è stata un’architettura nello spazio. Ha una sua materialità. Una parte dell’idea era come farla viaggiare dopo, perché era l’architettura di una mostra nel passato. Quindi, per rispondere alla tua domanda sul rapporto causale tra lavori, o su come un’opera possa esercitare un effetto su sé stessa, mi piace vedere cosa succede quando i titoli appaiono in sequenza – in un portfolio o altrove – quale tipo di linguaggio ne emerge. A volte si creano relazioni inattese. A volte una specie di silenzio.

C.F. Conosci Nicolas Matranga?

L.B. Sì, lo conosco. L’ho appena incontrato a Vienna.

C.F. Ha dato un’interpretazione interessante del tuo ritratto di Ceyzik. Diceva che il dipinto murale era a forma di arcobaleno, ma l’arcobaleno non c’era. Penso che volesse dire che spesso dietro all’arcobaleno c’è il cielo azzurro, ma quel cielo azzurro inesistente si vedeva solo attraverso un arcobaleno che pure non c’era. La sua descrizione mi ha ricordato il film Predator, dove gli alieni si vedono anche quando si rendono invisibili; le presenze visibilmente assenti degli alieni rendono astratta la giungla. Questo è un esempio delle diverse letture che si possono dare del tuo lavoro.

L.B. Un arcobaleno azzurro, perché no.

C.F. Direi piuttosto un arcobaleno per guardare il cielo azzurro attraverso un arco astratto.

L.B. Le storie che racconto o le informazioni che emergono dalle conversazioni sul mio lavoro, solitamente le definisco “strategie di supporto” o “strutture di supporto”. In un certo senso possono apparire come personaggi – con una vita propria – che danno il loro contributo con un certo grado di indipendenza e questa può essere considerata la mia strategia per fare le cose. Per me, la cosa più interessante è il linguaggio stesso, e il modo in cui può spingermi a prendere decisioni. Come possiamo costruire questa forma? Possiamo mantenere il carattere di questo disegno? Insomma, questi personaggi si rendono, in un certo senso, indipendenti. A quel punto possono apparire come un arcobaleno azzurro.