L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Lettera internazionale Anno 28 Numero 110 febbraio 2012



Lunga è la via della liberazione dal dolore

Božidar Stanišić



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 110

Le crisi

Lavoratori usa-e-getta, Judith Butler
Keynes è morto. Viva Keynes!, Paolo Leon
L’economia irreale, Roger Scruton
I confini d’Europa. Il Mediterraneo e i resti degli imperi, Gian Paolo Calchi Novati Sciopero generale, Gayatri Chakravorty Spivak
Attualità dell’indignazione. Movimenti e potere destituente, Raffaele Laudani Un’idea dell’Italia. Cultura e politica dello storicismo, Francesco M. Biscione 1861-2011: l’Italia e l’economia internazionale, Gianni Toniolo Virgilio presso gli Sciti, Miloš Crnjanski

La formazione
Domare il diavolo in noi, Steven Pinker
Scienza e autodeterminazione.Le basi neurocognitive della modernità e il declino della religione, Gilberto Corbellini
Cinque Menti per il futuro, Howard Gardner
Lunga è la via della liberazione dal dolore, Božidar Stanišić

La Technik
La lettura e il futuro dell’identità privata, Marshall McLuhan
Metamorfosi della trasparenza. WikiLeaks, Tiqqun e oltre, Felix Stalder Benvenuti nell’era ibrida!, Ayesha e Parag Khanna

Gli artisti di questo numero:
Muta Imago, Ciriaco Campus, Giuseppe Varchetta, a cura di Aldo Iori

I Libri
Donatone su Palladini, Mantello su Politi, Merlicco su Gheddafi In copertina: Muta Imago, Lev, 2008, foto di L. Angelucci
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Vivere nel deserto greco
Victor Tsilonis
n. 120 ottobre 2014

Uomini e cani
Marin Sorescu
n. 119 giugno 2014

Mnemonia
Giuseppe O. Longo
n. 118 marzo 2014

Mio nonno Ramdhane e l’intercultura
Karim Metref
n. 117 dicembre 2013

Operazione gemelle
Habib Tengour
n. 116 luglio 2013

Occhi rubati
Mahi Binebine
n. 115 maggio 2013


Muta Imago
Lev, 2008
Foto di L. Angelucci

Ciriaco Campus
By Life Camp, 2000

Giuseppe Varchetta, On the liberty
Galleria d'Arte Moderna, Roma 1994

Italia. Lunga estate del Novantasei. Andarsene il più lontano possibile dal Friuli – balcone rivolto verso il nostro ex Paese, nel quale è appena finita una guerra civile... In Australia? In Canada? La realtà dell’esilio era comunque più che chiara: ogni oggi è più presente di qualsiasi dopodomani. Oh sì, ricordo quell’estate. Anche perché ero disoccupato.

E così, senza molta fantasia nella ricerca di un lavoro, misi un annuncio su : dò lezioni di lingua serbo-croata. Rispose subito un giovane di Udine, impresario edile. Aveva avuto l’incarico di ricostruire una scuola in Bosnia occidentale. Veniva da me, a Zugliano, quasi ogni sera. Serio, educato, intelligente – imparava la lingua con la facilità di chi, apparentemente, sa sempre ciò che vuole. Sulle sue scarpe eleganti, di pelle morbida, neanche un granello di polvere. Mai. Sulla Bosnia e sulla guerra, non una domanda. Mai. Tuttavia, all’ultima lezione, portò un libriccino di racconti di Andrić. Lettera del 1920 avrebbe potuto aiutarlo a comprendere il Paese in cui avrebbe trascorso un certo periodo? Vidi che nel racconto erano stati sottolineati i motivi per cui un medico ebreo aveva abbandonato la Bosnia. E le frasi che descrivevano le diverse ore, battute dagli orologi dei luoghi di culto di Sarajevo. Una sottolineatura fosforescente evidenziava i passi sulla Bosnia terra di odio. No, lui non legge la cosiddetta letteratura colta… Apprezza di più i libri gialli – alla fine, tutto è chiaro. Però, mentre si preparava a penetrare profondamente nell’entroterra dell’altra sponda dell’Adriatico, si è reso conto di non aver mai letto nulla di quelle letterature slave. A volte, da ragazzo, andava con suo padre al di là della frontiera. In Jugo, come si diceva allora in Friuli. Jugo: benzina, carne, ristoranti a buon prezzo.

Mi faccio dire dove, alla fine, muoia quel personaggio di Andrić. In Spagna, mi risponde con un sguardo interrogativo. Quindi, in una delle anticamere del secondo mattatoio mondiale. Neppure là mancava l’odio. Ideologico, ma l’odio è odio. Gli dico solo, confondendolo: ieri la Bosnia – e l’altro ieri la Spagna? Guardando l’orologio, mi chiede un bicchiere d’acqua. Poi mi dà la busta con i soldi per le lezioni e mi saluta in fretta. (Allora, non sapevo che quello non sarebbe stato il nostro ultimo incontro, né ciò che avrebbe significato per lui la Bosnia postbellica o, in generale, l’ex Europa orientale, né che lui, in seguito, si sarebbe trasformato in uno dei miei personaggi letterari.) La sera stessa ebbi ancora fortuna… Al telefono una voce precisa, roca, da fumatore: Antonio di Udine, via tal dei tali, l’accesso più semplice è da Viale Venezia. Fui preciso anch’io? Ex professore di letteratura di un ex Paese… Domani mattina? Va bene, domani mattina. Il giorno dopo mi trovai davanti a una vecchia villa circondata da un muro di mattoni, con molto verde attorno. Mi aprì una domestica dalla pelle olivastra, di mezza età. Con accento spagnolo mi chiese di seguirla su per una scala di pietra. Lui, il signor Antonio, là, in biblioteca, legge molto.
E con la mano accennò vivacemente a un cerchio attorno alla propria testa: Ecco, una testa così ci vuole, per tutti quei libri. Eppoi, non apre neppure le tende, come se si fosse innamorato della penombra della stanza. Di bassa statura, bianco di capelli, con una sottile vestaglia scura, lui mi salutò emergendo dalla semioscurità e, con mia sorpresa, passò con disinvoltura alla mia lingua materna. Un sigaro toscano? No, grazie. Allora, per essere chiari: adesso è in pensione, ha lasciato la ditta ai figli. Vedovo e pensionato, ora vorrebbe… Tossendo, con l’occhio ardente del sigaro indica gli scaffali di legno scuro. Non ha neppure aperto la gran parte di quei libri: il lavoro è come la macina di un molino. Ma il vero nome di quella macina è il tempo. Mi disse che era nato a Pola. Là, sull’altra sponda dell’Adriatico, aveva trascorso la giovinezza. Forse lo sapevo: Pola, l’Istria dopo il ‘45, Tito, i partigiani, l’esodo di più di trecentomila istriani italiani? Ma, sottolineò, lui non era di quelli che ancor oggi schiumano di odio.
E non voleva tormentarmi con il suo passato. Semplicemente, non voleva limitarsi a una mera lettura di alcuni di quei libri… Fra questi, sul tavolo, riconobbi le edizioni dei libri di Andrić, in italiano. Avrebbe voluto, insomma, parlare dei libri con qualcuno. Per quello mi aveva telefonato, per poter trascorrere un po’ di tempo sull’altra sponda. E non per quella guerra appena finita. Ma là, a Pola, non era più tornato. Volevo dirgli che ora ne sapevo molto di più. Prima di questo mio strano approdo in Italia, là, sull’altra sponda, avevo letto solo Tomizza. Qui ero poi diventato suo amico. Quell’esodo era una sorta di tabù, in Jugo. Proprio come per Goli Otok, il nostro gulag (si sa bene per chi è), avevamo una formula anche per il rebus istriano: .
Alle manifestazioni si gridava: Trieste è nostra. In seguito, negli anni Ottanta, ebbi occasione di sentire, in Croazia e in Slovenia, che gli italiani dell’Istria se n’erano andati da soli. Oggi, sapendo bene che nessuno se ne va semplicemente così e, soprattutto, non perché qualcosa non gli va, quella formula, se ne sono andati da soli, mi appare ancor più orribile. Come se mi avesse letto nel pensiero, Antonio fece un gesto con la mano: perché sprecare parole su questo? Ora, ecco, la polvere ricopre tutto. Tranne, forse… E con la punta delle dita batté su un libro, impaziente: che risposta gli davo? Va bene, dissi. Lui propose anche il compenso, molto generoso. E il pagamento subito dopo la fine di ogni incontro. Aveva forse visto, dalla finestra, la mia jugo, mentre la parcheggiavo? E i miei sandali, la maglietta, i jeans, malgrado la penombra? No, non era necessario quel subito! Il suo sguardo, a un tratto vitreo e rigido (in seguito ne avrei incontrati spesso, di sguardi così, nelle fabbriche e negli uffici), mi disse che in quella casa era lui che decideva. Non gli interessava l’orgoglio altrui, istintivo o di altro genere.

Vogliamo iniziare? Da Andrić? Certamente, dico, si tratta di uno di quegli autori dell’ambito slavo meridionale senza i quali è impossibile concepire la letteratura. Impossibile? La sua voce, in un accesso di tosse, vibra per la sorpresa. Non si tratta di un ambito periferico?, vuol dire, forse. Mi chiede di citargli altri nomi e di spiegargli, in breve, perché senza quegli autori non sono in grado di concepire la letteratura. Avvolto nella nube di fumo del suo sigaro, aggiunge che ha sempre letto, certo, in modo disordinato, ma che, soprattutto nei romanzi, nei classici, trovava una sorta di conforto. E non solo quel conforto serale, prima del riposo. Qualcosa… come dire? – di inspiegabile. Ma con chi ne dovrebbe parlare? Il figlio e la figlia sono persone esclusivamente pratiche. A Udine poi aveva due amici che adoravano la letteratura. Uno è morto, l’altro è da qualche parte in Carnia, in un istituto. E si batte col dito sulla fronte: è anche uscito di testa. Squilla il telefono sul tavolo. Risponde, laconicamente. Mi dice che gli pare che per oggi possa bastare. Posso tornare domani, alla stessa ora? Certo, signor Antonio. Sul bordo del tavolo – un foglio piegato in quattro, fissato con un fermaglio. È per me, quel subito. Il giorno dopo. Isabella, la domestica di Antonio, mi disse che dal signore la luce era rimasta accesa fino a tarda notte. Sì, lui era di sopra. Mi aspettava. E lei mi guardava con un’espressione di rimprovero, come se fossi io il responsabile dell’insonnia del suo padrone. In biblioteca c’era la stessa penombra; lui era a quello stesso tavolo, nel cerchio di luce della lampada, con gli occhiali sul naso, assorto in un libro. Sull’orlo del posacenere si consumava il suo sigaro. Allora, dove eravamo rimasti? Al suo conforto, dissi. Lui mi guardò, assente: che conforto? Nei romanzi dei classici, signor Antonio. Ah, sì, proprio così. Citò Verga, Balzac, Dickens, Zola. Sì, aveva letto anche i modernisti, ma non ne citò nessuno.

La Lettera del 1920, di Andrić? Allora, senza neppure sognare che un giorno avrei scritto che quello era il racconto più strumentalizzato della letteratura mondiale, ripetei le stesse parole che avevo detto al giovane di Udine. Sulla Bosnia, sulla Spagna. Lui, Antonio, disse allora che era impossibile parlare solo di Bosnia e di Spagna. Aveva visto, da ragazzo, come Pola si fosse svuotata. I suoi, aspettando chissà che cosa, non erano partiti subito. Ricordava come ogni voce rimbombasse per la città deserta, un’eco come di una pallina contro i muri delle strade vuote. Quella eco si sarebbe poi trasformata in una fonte di odio. Slavi-sciavi, si sente ancor oggi a Trieste. E non solo questo. Ci sono ancora molti triestini a cui piace la romantica formula sul fascismo: non ha fatto del male a nessuno. Fra loro ci sono anche quelli che la pensano così perché odiano il comunismo. Lui, Antonio, non lo odiava, ma era vero che fosse un male. E tuttavia, ora che il comunismo in Europa non c’era più, lui si tormentava per capire che cosa fosse il bene. Pensavo forse che ciò che diceva fosse strano? Senza attendere la mia risposta, aggiunse che al mondo, e che me ne ricordassi bene, non c’era una sola Sarajevo. Né una sola Trieste. Questo, dissi, non è proprio un conforto. E non lo era neppure il fatto che Andrić avesse esitato sul titolo. Quel racconto avrebbe potuto essere intitolato Lettera del 1992. Ma è mai possibile? Sì, è possibile – nel manoscritto del racconto l’anno 1992 è cancellato. E dove fu pubblicato, e quando? Su una rivista di Sarajevo, un anno dopo quella guerra che, nel mio Paese, fu anche un mattatoio interetnico, e… in Italia ideologico! Con un’esclamazione, mi chiese perché non gli consigliassi qualche altra opera di Andrić, per poi rivederci, al più presto. Gli consigliai Il ponte sulla Žepa, un racconto senza la cui idea, forse, non ci sarebbe stato neppure il romanzo Il ponte sulla Drina. Mi dispiace, dissi, per i lettori che in questo Paese esistono ancora, che Andrić non sia tradotto integralmente. Anche i suoi scritti in apparenza più comuni, secondari, hanno una loro profondità. Ma prima della fine del nostro incontro sarebbe stato opportuno consigliargli alcuni altri scrittori, di quelli senza i quali, come ricordava bene, era impossibile concepire la letteratura. Parola troppo impegnativa! Per nulla, dissi.

Nominai per primo Danilo Kiš (1935-1989), il suo romanzo Giardino, cenere, su un ebreo che, in realtà, rappresenta tutti i perseguitati del mondo. E raccontare, per Kiš, se la memoria non mi inganna – io sono uno di quelli che nel caos dell’ultima resa dei conti slavo-meridionale ha perduto la sua biblioteca –, rappresenta una delle possibilità di aprire la prima pagina del libro della vittoria sull’oblio. Credeva fosse difficile concepire sei milioni di ebrei uccisi ma, per uno concreto come in quel romanzo è suo padre Eduard Sam, è possibile farlo. Antonio disse che la storia è una cosa difficile e confusa, anche se siamo nati vicino al mare, forse sotto il più bel cielo azzurro. Come quello sopra Pola. Ma non dovevo far caso alle sue interruzioni senili. Poi mi chiese: quei nomi e quelle opere li citavo in ordine di importanza? No, signor Antonio, tutti quegli scrittori, dei quali, ecco, non posso fare a meno, sono uno accanto all’altro, come su una panchina di pietra, davanti al mare. E un altro può essere Meša Selimović (1910-1982). Innanzitutto il suo romanzo Il derviscio e la morte. Antonio pensa di avere da qualche parte quel libro, non letto. Qualcosa di storico? No, non è un romazo storico. Tratta piuttosto di fortezze ideologiche, e del potere, e del destino umano. È stato scritto a lungo, a lungo come è lunga la via della liberazione dalla fonte del maggior dolore. Il fratello di Selimović, un comunista, fu fucilato prima della fine della guerra. Lo uccisero gli ustascia, i cetnici, i tedeschi? No, i comunisti. Perché? Prima del suo matrimonio, da un magazzino popolare, aveva preso un armadio e un letto. Invano Meša aveva chiesto la grazia per suo fratello. Sua madre, dicono, si era isolata per anni, con la sua sigaretta, in un angolo del cortile. E guardava muta gli sbuffi di fumo dissolversi in cielo. Il dolore materno non potrà mai tradire se stesso. Antonio dice che quella frase che mi è uscita all’improvviso sul dolore materno suona come nel teatro greco. Forse. Poi aggiungo che Selimović ha tentato di isolare il suo derviscio in una tekija, una specie di monastero di un ordine religioso. Antonio fa cenni negativi con la mano: non c’è isolamento, per nessuno, a questo mondo.

Chi c’è poi? Il prossimo, dico, è Miroslav Krleža (1893-1981). Quando morì, Le Monde dichiarò che se n’era andato l’ultimo enciclopedista europeo. Sull’ultima sponda? Qualcosa del genere, rispondo. Enciclopedista? Era lontano dal lettore comune? Forse. Ma era, in un certo senso, una fortuna: non sarebbe neppure esistito, se si fosse sforzato di essere vicino al gusto comune, mediocre. Pensava che essere solo non significasse per forza avere ragione. E che nel gregge si sta caldi, ma puzza. Noi, Slavi, secondo Antonio, abbiamo l’ironia nel sangue, ma che gli dicessi almeno qualche titolo. C’è, dissi, tradotta in italiano, una piccola raccolta di racconti del Krleža antimilitarista, Il dio Marte croato. Mi dispiace, dissi, che fra di essi non ci sia quello su un ragazzo ferito gravemente sul fronte del primo mattatoio mondiale. Nel quale l’Europa, tutta, è un ospedale e un manicomio. Adesso i tempi sono cambiati, giovanotto!, dice Antonio, e aggiunge anche che il libero mercato, comunque sia, regola le cose meglio di qualsiasi militarismo del passato. L’Europa non sarà mai più né un ospedale, né un manicomio. Ma gli propongo di leggere, se vuole, un romanzo di Krleža. Il ritorno di Filip Latinovicz è stato tradotto, tempo fa, in italiano. Antonio guarda l’ora, fa un impercettibile sbadiglio. È già mezzogiorno, potremmo bere un aperitivo, un bianco? Accetto. Come per magia si materializza Isabella. In Andrić, dissi sorseggiando il fresco vino bianco, c’è uno scritto sul vino. In Vino(1) c’è qualcosa di profondo, pieno di passione, antico, metafisico. Solo sul vino? O forse anche sulla morte?, si chiede Antonio, ogni metafisica puzza di partenza. Verso l’altra sponda, l’ultima. Salute, giovanotto! Salute, signor Antonio! E domani – Il ponte sulla Žepa. Isabella, il giorno dopo, si mise subito a recriminare. Il signor Antonio non si è rasato, non arieggia la biblioteca, e il tempo è così bello. Quella lampada gli consumerà gli occhi. Legge, disse facendosi il segno della croce, come se fosse uno studente... Antonio mi chiese subito perché nel Ponte sulla Žepa il visir di Andrić non fa incidere neppure una parola sulla pietra della costruzione. Quale occidentale si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di scolpire i propri meriti sul marmo, a chiare lettere? Questa, dissi, potrebbe essere una delle risposte. Hmm, davvero? E perché l’artefice del ponte, un italiano, a costruzione finita non si gira a vedere la propria opera? Anche l’ultima delle massaie si allontana un po’ dalla sua torta per vederla meglio! Sì, l’opera è importante, ma che si sappia anche di quali mani è frutto! Anche questa, dissi, è una delle risposte. Questo non lo convinse molto e, socchiudendo un occhio, mi chiese se là, in Bosnia, non avessi studiato lo zen. No, signor Antonio, e comunque non ero lì, da lui, per dare risposte. Non importa, disse, conciliante. Che cosa poteva leggere ancora? Di Andrić e… in generale. Se voleva, poteva passare ai suoi grandi romanzi. Ma non sarebbe stato male leggerne prima uno che, in apparenza, era tutto Oriente. Il titolo? Il cortile maledetto. Indicai il piccolo volume con la mano. Lo avrebbe letto! Sarei venuto anche l’indomani?

E il giorno dopo – il rituale dell’apertura del portone, la preoccupazione di Isabella per gli occhi del signor Antonio, la domanda sussurrata fino a quando sarei venuto.
Di sopra, la stessa penombra, lo stesso cerchio di luce della lampada… Andrić era mai vissuto in Turchia? Per scrivere un romanzo sul desiderio di potere, sull’arbitrio e sul destino dell’uomo imprigionato nei meandri della storia, non è necessario essere nato in Turchia. Ma non gli dissi questo, ma qualcos’altro… No, signor Antonio, lui no, ma i suoi antenati sì, proprio come i miei. Un sorriso di smarrimento gli passò sul viso. Semplicemente, la Bosnia era parte dell’Impero Ottomano. Fino al 1878, non proprio nell’antichità. Uno zio di Antonio sosteneva che tutta la storia prima del primo volo aereo fosse antichità e nient’altro. Anche lui, suo nipote, pensava che la vera epoca moderna iniziasse con i fratelli Wright, per cui anche quell’anno apparteneva all’antichità. Non mi disse che, ecco, aveva letto anche alcuni filosofi, fra i quali Bergson, la cui definizione del tempo gli pareva più umana di quella di Einstein, e Kierkegaard, che pensava molto alla morte. E tornava volentieri a un libro, Vite dei filosofi, di Diogene Laerzio. Rispondendo a un riccone che gli chiedeva che cosa ricavasse dalla filosofia, un presocratico rispose che almeno, a teatro, lui comprendeva ciò che vedeva, invece di limitarsi ad assistere alla rappresentazione come un bue. Lo disse con una risata, ma si fece subito serio. Tutto si lega, mi sfuggì. Sul suo volto riapparve quel sorriso. Da che cosa era stata causata quella mia constatazione? I fratelli Wright, dissi ricordandomi di un libriccino scientifico della mia infanzia, sperimentarono la maggior parte dei loro voli nei pressi di Dayton. Ma quei dodici secondi del primo volo non avvennero a Kitty Howk, nella Carolina settentrionale? Sì, ma Dayton divenne il loro poligono principale. E a Dayton fu firmato l’accordo di pace per la Bosnia, l’anno scorso. Lui, ancora smarrito, allargò le braccia. Ma c’è un autore, oltre ad Andrić, che ci potrebbe aiutare ad approfondire quel tema dei legami? C’è, si chiama Crnjanski. Come?
Crnjanski, Miloš (1893-1977). No, non gli dissi che quattro anni prima, a Trieste, sul Molo Audace, tutto solo, avevo letto l’interpretazione dell’autore riguardo al suo poema Sumatra, nella quale in modo poetico, irripetibile, collegava le nevi degli Urali, i coralli dei mari del Sud e le ciliegie del Paese natale. Né che la pagina di quel libro, preso a prestito dalla biblioteca di un mio amico italiano, si era aperta da sola. Né che io e quel libro in mano mia avevamo tremato insieme: un giorno, provai tutta l’impotenza della vita umana e il groviglio della nostra sorte. Vedevo che nessuno va dove vuole e osservai legami fino ad allora inosservati… Mi scossi dal mio silenzio, dissi che Adelphi aveva pubblicato il primo tomo del suo romanzo Migrazioni e che il secondo era in preparazione. Mentre lui si segnava il titolo, aggiunsi che mi dispiaceva che in Italia si pensasse che quello fosse tutto Crnjanski. Oltre a Diario di Čarnojević e Amore in Toscana, i lettori, ne ero sicuro, avrebbero apprezzato il suo Romanzo di Londra, la più grande opera della letteratura mondiale sul tema dell’emigrazione. Tutto ciò che avrei potuto dire su quel romanzo – in quella biblioteca, una sorta di salotto dove da alcuni giorni balbettavo banalità, in modo frammentario e, ne sono sicuro, superficiale, su certi scrittori – sarebbe stato insufficiente. Che Antonio si procurasse l’originale di quel romanzo e si sforzasse un poco. Non si sarebbe pentito di leggere del destino di un nobile russo e di sua moglie, che nella metropoli britannica faceva bambole. Perché il protagonista è un russo? L’autore lo aveva scelto come suo alter ego perché i nostri emigrati gli parevano troppo miserabili. Sì, è un russo che sogna di tornare a Sankt Peterburg. E lo scrittore tornò? Sì, dopo venticinque anni, a Belgrado, città alla quale, ormai solo, aveva inviato una missiva poetica, Lamento di Belgrado.

Notando che ad Antonio la poesia importava poco, dissi che, se voleva leggere qualcosa nella lingua di Crnjanski, poteva immergersi in un suo libro, molto strano, pieno di Italia e del Nord del nostro emisfero, che nei giorni che precedettero la guerra gli arrecò qualche conforto. Nella terra degli Iperborei è il suo titolo. Ha solo un problema. Quale? Deve essere letto lentamente e, credo, più volte. L’intero libro? Forse ognuno troverà il suo capitolo, per più volte. Lui, Antonio, troverebbe molto, credo, nel capitolo su Kierkegaard. Io, dopo tutto quello che è successo, nel mio là, sono stato conquistato da una cosa. Quale? Quell’angoscia, la sera prima della catastrofe mondiale, che tutto ciò che in Italia c’è di più bello potesse essere bombardato. E Venezia, che azzurreggia(2). Lui mi guarda, stanco. Ma esprime il desiderio di sapere se Crnjanski avesse detto qualcosa di importante, quando tornò in patria. Raccontano, dissi, che era dispiaciuto di ritrovare tutte quelle fanciulle di un tempo ormai vecchie. Scoppia a ridere, forte. Verrò anche domani, per trascorrere un po’ di tempo sull’altra sponda? Ecco anche quel subito, sul tavolo. Mi avvio, ma lui mi trattiene ancora. Sono anch’io, come Andrić, nato proprio in Bosnia? Gli rispondo, con le parole di Andrić, che un uomo deve pur nascere da qualche parte.

Traduzione dal serbo-croato di Alice Parmeggiani

Note
1 La traduzione italiana di questo racconto di Ivo Andrić è stata pubblicata su L.I., n. 109, 2011.
2 La traduzione italiana di un frammento di quest’opera è pubblicato in questo numero di L.I., pp. 32-33.

Božidar Stanišić è uno scrittore, poeta e traduttore bosniaco. In Italia, oltre a diversi contributi di critica letteraria, sono state pubblicati, nel 2011, con D. Kallay, La cicala e la piccola formica (Bohem Press Italia); nel 2008, La chiave nella mano. Testo croato a fronte (Campanotto); nel 2007, Il cane alato e altri racconti (Perosini); nel 2004, Bon voyage (Nuova Dimensione); nel 1993, I buchi neri di Sarajevo e altri racconti (Mgs Press).